11.01.2021
Luci e ombre di venti anni di graphic novel
Emilio Varrà
Si sono appena conclusi, con la fine del 2020, i festeggiamenti per la storia ventennale di Coconino Press (da anni anche Fandango) che certo non è stato né il primo né l’unico editore a pubblicare graphic novel a cavallo del millennio, ma indubbiamente quello che allora riuscì di più a imporsi sul mercato e sull’immaginario collettivo. Una presenza fondamentale per porre le basi di quell’affermazione del fumetto che indubbiamente è stato in Italia uno dei fenomeni culturali del primo quinto di secolo. Può essere dunque un buon momento per fare un breve bilancio sulle forme e sul significato di tale processo.
Un dato sembra incontestabile: il graphic novel ha portato anche nel nostro Paese (ché il discorso sarebbe molto diverso per gli Stati Uniti, o la Francia, o il Giappone, o i paesi nord-europei) il fumetto ad abitare definitivamente il mondo della cultura e a dialogare con le altre arti senza eccessivo senso di inferiorità. La sua presenza non stupisce più nelle librerie dove trova sempre più spazio, nei giornali e negli altri mezzi di comunicazione, persino nei premi letterari: si tratta di un vero e proprio ingresso nel salotto buono, ben diverso da quell’investitura che da noi il fumetto aveva vissuto in un quindicennio abbondante attraverso le riviste (da “Linus” a “Frigidaire” e il fenomeno Valvoline). Se allora la rivalutazione culturale viveva grazie all’adesione di un “settore di pubblico”, anche ampio ma parziale, identificabile per una propensione ideologico-culturale o per appartenenza generazionale, ora lo sdoganamento sembra essere “di massa” e pervasivo. Indizi, ed esiti allo stesso tempo, di questo processo sono la crescita esponenziale di nuove uscite e di ristampe; la nascita di giovani marchi editoriali o la creazione di nuove ramificazioni in realtà che non avevano ad oggi mai dedicato attenzione alla narrazione per immagini; una varietà delle proposte che lascia una concreta libertà di scelta al lettore (con l’eccezione dell’offerta per bambini e ragazzi che è ancora molto deficitaria, nonostante una tradizione anche d’eccellenza che si è spenta negli anni Ottanta); un confronto con la produzione internazionale che non sconta più ritardi, traducendo con prontezza dall’estero ma anche esportando alcuni nostri autori e autrici (e fa piacere cominciare a trovarne nelle liste delle migliori uscite dell’anno in Inghilterra, negli Stati Uniti, in Francia); l’apparizione di alcune figure che sono diventate personaggi mediatici al di là della loro produzione (Zerocalcare in primis, ma anche Gipi e recentemente Fumettibrutti).
A venare di ombre un bilancio che appare (e in parte è sicuramente) così positivo sono alcuni fattori che è importante considerare: il primo è l’estrema fragilità economica di tutta la struttura produttiva, male che indubbiamente è condiviso con la filiera dell’editoria tutta e con la gravità permanente delle nostre abitudini di lettura, ma che ha nel mercato nostrano del fumetto una forte criticità: ancora oggi sono davvero molto rari i casi in cui autori e autrici possono vivere del loro lavoro, trasformando in professione la loro attività creativa; le vendite dei singoli titoli sono molto limitate e minate ulteriormente da una sovraproduzione che punta a qualche centinaia di copie vendute per ogni nuovo titolo, abbandonato a se stesso dopo un mese o due; l’apertura, per altri versi positiva, a firme giovani ed esordienti si sposa con un attività spesso limitata di editing e cura editoriale e si giustifica piuttosto per il basso compenso che ci si può permettere. Tutti i discorsi sulla crescita ed ascesa del graphic novel in Italia non sono un’invenzione, ma vanno letti almeno sotto queste lenti che ne limitano il trionfalismo.
Un altro paradosso è invece culturale, quello per cui l’affermazione del fumetto “come arte” è dovuta passare attraverso una negazione del fumetto stesso. La grande confusione che si è creata nell’immaginario diffuso sulla distinzione dl valore tra graphic novel e fumetto è infatti ridicola, oltre che inaccettabile. Il primo in nulla è diverso dal secondo ma non è altro che l’ennesima importante evoluzione – di formato, di autori, di tematiche, di approcci narrativi – di un medium che conta più di un secolo e mezzo di vita e che fin dalle sue origini, popolari e legate alla trasformazione dei media e della comunicazione, ha offerto opere che per bellezza, complessità, sperimentalismo nulla hanno da invidiare ai capolavori contemporanei. Non si è, in altre parole, ancora acquisita una reale consapevolezza storica ed estetica del fumetto, né si sono superati quei pregiudizi che lo vedevano e lo vedono come prodotto basso o legato a pubblici specifici (dai bambini ai nerd). E, d’altra parte, si rischia di dare valore al graphic novel in quanto tale, senza riconoscere l’inutilità o la bruttezza di tantissimi titoli, o anche solo la medietà di prodotti che hanno perfettamente metabolizzato le forme e l’approccio del “romanzo a fumetti” costruendo un nuovo canone, che di per sé non sarebbe dannoso se ci fosse una critica in grado di considerarli per quello che valgono e di ridimensionarne il significato.
Ma non si tratta solo di pretendere una maggiore consapevolezza e azione critica. Prima di tutto è una preoccupazione pedagogica quella che mi preme. Se il nuovo posizionamento del graphic novel ha avuto un impatto, prevalentemente positivo, nell’immaginario collettivo, esso non è riuscito a trainare con sé una riconsiderazione e, spesso, una alfabetizzazione relative alle forme e alle specificità del linguaggio fumettistico. Perché alla fine, per divenire “lettori”, è del linguaggio che bisogna innamorarsi. È naturale nutrire una predilezione per autori, tematiche, stili, ma prima di tutto dovrebbe esserci la predisposizione a vedere come ogni opera metta in campo le forme del medium di cui si serve e di come esse diventino l’espressione, riuscita o meno, di una poetica, di una visione del mondo, finanche di un messaggio specifico. Questo purtroppo non sta accadendo, o sta accadendo davvero in minima parte. Un esito che è ancora più grave per il fumetto, ma che non è poi troppo differente per la letteratura e le arti in genere. Sospesa tra la ricerca di una identificazione tutta emotiva o il bisogno di “conoscere la verità su temi importanti”, è la pratica del leggere che mi sembra stia vivendo una situazione di estrema confusione e che abbia bisogno di ripartire dagli interrogativi di base sul suo significato e sulla sua – non aprioristica – necessità.