31.05.2025
Il decennio compreso tra il 1970 ed il 1979 occupa un posto cruciale nella memoria collettiva. Non potrebbe essere diversamente, dal momento che molti degli scenari attuali discendono direttamente dalle dinamiche sociali e politiche che si produssero proprio in quegli anni. Basti pensare al caso Moro, vero e proprio convitato di pietra della politica italiana, sul quale, da 47 anni, proliferano inchieste e commissioni parlamentari. Tutte orientate a incanalare le tragiche vicende che svilupparono tra via Fani e via Caetani come l’acme dei cosiddetti “anni di piombo”.
Una narrazione che, ignorando la spinta dal basso prodotta dalla mobilitazione di soggettività diffuse, che produsse lo statuto dei lavoratori, la riforma dell’ordinamento penitenziario, la legalizzazione del divorzio e dell’aborto, la riforma del diritto di famiglia, si concentra sugli scontri e sugli attentati. Ovviamente, quelli commessi da formazioni di sinistra, mentre si ignora la violenza neofascista, i cui militanti vengono rappresentati come martiri del fanatismo rosso, a partire da episodi come il caso Ramelli, Acca Larenzia e il rogo di Primavalle. Oltre al caso Calabresi. Mentre si ignora, per esempio, la funzione ancillare dell’estrema destra nelle stragi e nei tentati golpe, e le aggressioni sistematiche dei gruppi paramilitari come Avanguardia Nazionale ai danni di militanti e organizzazioni di sinistra.
Ne conseguono due effetti negativi. Il primo è quello dell’ipoteca che la narrazione degli anni di piombo pone sulla società italiana attuale, legittimando provvedimenti legge e ordine e devitalizzando ogni potenziale antagonismo. Il secondo, riguarda la generazione degli anni settanta, in particolare “l’orda d’oro” descritta da Primo Moroni, condannata ad una damnatio memoriae che la confina nel privato, nei recinti identitari o nella rimozione. Una condizione che consente a chi si avvantaggia della retorica degli anni di piombo di continuare ad accumulare rendite di posizione e a non rendere conto di certe scelte.
Il libro di Pino Corrias, Romanzo Rosso (Edizioni SEM, Roma, 2024; pp.450), costituisce un tentativo di proporre una rilettura “laica” degli anni Settanta, sicuramente scevra della retorica degli anni di piombo, considerando anzi gli abusi commessi dall’apparato giudiziario penale. Lungi dall’essere un libro autoassolutorio o addirittura autocelebrativo, la struttura narrativa si sdipana attorno ad un artificio letterario carico di significato simbolico. Il protagonista, reduce dei collettivi degli anni settanta, rifugiatosi in Sudamerica dopo alterne vicende successive alle retate di fine decennio, si rivela per la prima volta al figlio, concepito con la sua fidanzata storica milanese, ritrovata a Berlino nei giorni della caduta del muro, e mai conosciuto.
In altre parole, la nottola di minerva vola sempre al crepuscolo. Se nel 1989 la fine della contrapposizione est-ovest sembrava non lasciare spazio a ripensamenti proclamando il liberalismo come l’unica forma di società possibile e relegando il marxismo e le forme di società e di politica che aveva ispirato a dolorosi incidenti di percorso, 35 anni dopo bisogna cambiare punto di vista. Per farlo, bisogna riallacciare il collegamento con le esperienze passate. Capirne i limiti, gli aspetti critici, le ingenuità, ma senza stigmatizzarla.
La figura di Piero Villa/Diego Torres, protagonista del romanzo, militante del fantomatico collettivo milanese “Il Mucchio”, emerge esattamente così. Non ci troviamo di fronte ad un eroe, ma nemmeno, sulla scia di quello che autori come James Ellroy e Bret Easton Ellis, negli USA, fanno da anni, di fronte a un fanatico assetato di sangue su misura dei discorsi ufficiali. Piero vive gli appostamenti, gli scontri con la polizia e coi fascisti, gli espropri, le rapine, come attività di routine, in un contesto in cui la militanza politica e l’ideologia rimangono sullo sfondo, o, quantomeno, sono il punto di partenza più che il fine ultimo. Il collettivo rappresenta la base dell’esistenza di Piero, supplendo ad una famiglia piccolo-borghese cinica e bigotta.
L’appartenenza politica, tuttavia, non è uno schermo che isola il protagonista dal mondo. Al contrario, Piero riesce ad avere spazio per l’amore, per quella che diventerà la madre di suo figlio, che però lascerà in tutta fretta e non vedrà per 9 anni, costretto a lasciare l’Italia frettolosamente per via della morsa repressiva che si strinse attorno all’area dell’Autonomia dal caso 7 aprile in poi. Piero è capace di amare, di ambire alle gioie quotidiane, di viverle pienamente. Ma non riesce mai a ricucire questi due aspetti della sua esistenza, finendo per essere inghiottito dal buco che sta in mezzo.
La solitudine, l’esilio, la lontananza, per quanto preferibili alla galera e alle torture dei gruppi paramilitari messe in piedi dalle forze dell’ordine, non riescono a sanare le ferite, finendo per diventare la condizione esistenziale permanente del protagonista, impedendogli di fare tesoro della consapevolezza acquisita negli anni che trascorrerà in Nicaragua. E’ comunque preferibile anche alle traiettorie di vita che riguarderanno gli altri membri del mucchio: alcuni si dissoceranno, altri moriranno, altri diventeranno manager vendendo il loro passato per un presente che impedisce loro di elaborare le ferite e i lutti delle loro esperienze passate.
Corrias non vuole celebrare la generazione degli anni settanta, né tenta di farlo. Quello che realizza nel suo libro, è una lettura di quelle esperienze in controluce, filtrate attraverso le dinamiche del potere di allora e attuale. I poliziotti che operavano grazie allo scudo protettivo delle leggi speciali, i Contras armati da Ronald Reagan che compivano atrocità ai danni delle popolazioni civili, i colonnelli greci, i generali argentini, rappresentano la vera cifra dell’aberrazione politica e morale. Che i collettivi avevano tentato di contrastare sul loro terreno, senza comprendere non solo lo squilibrio dei rapporti di forza, ma anche le trasformazioni di una società che, probabilmente, persa tra i consumi globali, di fare la rivoluzione non voleva saperne.
Alla fine del viaggio, rimane l’amarezza, e l’eredità del racconto lasciato alle generazioni successive, scevro da ogni retorica. Soprattutto, rimane la fuga, per rifuggire sia gli sguardi voyeuristi di chi ti vuole trattare come un caso da audience o da chi, la damnatio memoriae, vorrebbe suggellarla con la soppressione fisica. Che fine fa Piero Villa/Diego Torres? Sembra una domanda all’altezza di un romanzo giallo o di una fiction televisiva. In realtà riguarda tutti noi. Interroga sulla possibilità che esistano narrazioni alternative, e sulla capacità di imparare dagli errori del passato. Magari per colmare quel buco tra militanza pubblica e amore privato. A noi va bene così. Che lo spettro del comunismo continui a circolare.