Libertà inutile
Nota sul volume di Gianfranco Pasquino
Marcello Marino

02.04.2021

Libertà inutile è, come ricorda lo stesso Gianfranco Pasquino, il titolo che Norberto Bobbio avrebbe voluto dare al capitolo conclusivo, ma mai scritto, del suo Profilo ideologico del Novecento italiano. Questa locuzione, che Pasquino definisce “amara espressione”, se per Bobbio era una quasi-conclusione, per il suo allievo (Pasquino si laureò con Bobbio) è lo sfondo sul quale dipana la propria lettura della storia politica italiana dal secondo dopoguerra ad oggi.

Il titolo rinvia tanto alle promesse non mantenute dalla politica, quanto all’incapacità del paese, nella sua globalità, di farsi carico e rendere al meglio il lascito della Resistenza e della conseguente liberazione dell’Italia dal fascismo. Liberazione che appare immediatamente come un passaggio irto di difficoltà che la Costituzione, da sola, non poteva ripianare e risolvere completamente. Questo è un aspetto del saggio che si impone fin dalle prime pagine e che rinvia, nel prosieguo, alla crescente incomunicabilità tra i diversi settori della vita collettiva, e in particolare tra cultura e politica, tra mondo intellettuale e mondo dei partiti.

La democrazia non è faccenda formale che si realizzi nel varo di una Costituzione repubblicana, come afferma l’autore: “la democrazia non si esaurisce neppure in una costituzione democratica”. È proprio a partire da queste considerazioni che la vita e l’evoluzione della nostra democrazia risulta ormai, malgrado i molti passaggi cruciali, oggetto di un dibattito quasi dimenticato, che pure aveva vissuto momenti di scambio diffuso, controverso e pregnante (Pasquino ricorda in particolare i contributi di Bobbio e Sartori sul neonato pluralismo e sulla sua problematica evoluzione).

A partire dalla fase dell’apertura a sinistra, dopo la “dittatura democristiana”, si entra in una fase determinante ma, sottolinea l’autore, incapace di portare contributi rilevanti, che pure ci si aspettava, da parte degli intellettuali di sinistra. Basti pensare all’introduzione dell’istituto del referendum per l’abrogazione totale o parziale di una legge, che non si realizzò come evoluzione del dibattito democratico ma come oggetto di scambio: i democristiani rinunciarono all’ostruzionismo per permettere l’approvazione della legge Fortuna-Baslini che introduceva il divorzio, riservandosi di ricorrere poi al referendum per abrogarla. Questo passaggio è sottolineato da Pasquino come uno dei tanti dai quali, però, non scaturì il necessario ampliamento del discorso politico che l’effetto referendum sembrava avere in nuce, visto che Democrazia Cristiana e partiti conservatori uscirono sconfitti dalle urne.

Le pagine che seguono sui referendum ne mettono in risalto l’implicita contraddizione: da una parte il mutamento sociale che segnalavano, dall’altro il continuo ricorso a strumenti legislativi che ne potessero limitare l’utilizzo. Ma se sul fronte politico il dibattito cominciava a rivelare diffuse idiosincrasie, dall’altro si assisteva all’emergere dei “terrorismi”, proprio mentre faticosamente ci si apprestava a quell’avvicinamento cruciale tra DC e PCI noto come “compromesso storico”.

Dall’uccisione di Moro in poi Pasquino delinea il progressivo inabissamento dei partiti, con le loro trasformazioni (in particolare le travagliate vicende a sinistra che porteranno all’Ulivo e poi al PD, in quella che fu da più parti indicata come “fusione a freddo”) e la nascita del prodotto-partito Forza Italia e del suo leader da più parti indicato (in special modo dalle pagine del Corriere della Sera) come il possibile artefice di una rivoluzione liberale, sottovalutando colpevolmente il conflitto d’interessi e il vuoto di idee che contraddistingueva il progetto politico berlusconiano.

Seguono pagine su due aspetti cruciali dei massimi partiti italiani. Il primo riguarda la trasformazione dei comunismi – il riferimento è primariamente al programma di Bad Godesberg – in socialdemocrazie, alla quale resisteva il partito comunista italiano, che, sottolinea Pasquino, non rinnegava l’ispirazione marxista malgrado la reinterpretazione gramsciana; il secondo tratta la lunga parabola dei partiti di massa (DC e PCI) e l’innesco del dibattito socialista (la conferenza programmatica del 4 aprile 1982) subito sfumato nell’era Craxi. Momenti, questi, che costituiscono, secondo il politologo, l’insieme delle questioni che, negli anni ottanta, determinarono la definitiva scomparsa “di un dibattito delle e sulle idee in Italia”.

Si affacciarono così all’orizzonte le teorie del superamento della distinzione tra destra e sinistra, in particolare attraverso i testi di Anthony Giddens con quel paventato andare oltre, alla ricerca della “terza via”. Gianfranco Pasquino intercetta in tutti questi passaggi lo scempio di un patrimonio di idee che apriva ad una fase di incertezze nella quale il primo e più evidente effetto fu quello della demonizzazione delle ideologie senza alcuna alternativa ad esse, anzi, a favore di quella che definisce una nascente “non cultura”.

Pasquino si dichiara “non appassionato” alle questioni complottistiche, malgrado non dimentichi affatto la lunga stagione degli attentati e delle ombre ancora non dissolte sui rapporti tra parti deviate dello Stato e terrorismo; lo ribadisce anche quando parla di complessi rapporti di potere e relazioni con l’Europa, come nel caso della nomina di Monti a Presidente del Consiglio, evento, a suo dire, giustificato dalla ineluttabilità dello spread e che invece altri hanno interpretato come ingerenza di interessi sovranazionali. Questo a voler ripetutamente segnare il campo d’azione della sua indagine, circoscritta e finalizzata alla esclusiva ricostruzione del profilo ideologico dell’Italia e all’evidenza di certi passaggi che rimangono compressi nell’evento scatenante.

La crisi della democrazia, dunque, ci dice Pasquino, coincide con la crisi delle idee e delle ideologie, introduce un linguaggio nuovo, fumoso e pericolosamente antidemocratico come, ad esempio, l’avvento della disintermediazione ai tempi del governo Renzi, che intendeva rompere con la prassi della contrattazione con le parti sociali, cui si aggiunge la farraginosità degli intenti “riformisti” o della svuotata “cultura liberale”. Dialogo e crisi sono interpretati dal politologo piemontese come fattori costitutivi delle democrazie, quindi non risolvibili nella loro rimozione né in generici propositi cui non segue alcun approfondimento contenutistico.

Mentre Pasquino analizza il declino dei partiti e delle idee che li animavano, in realtà mette ripetutamente in luce l’assenza colpevole del mondo intellettuale (culturale). Ma nella sua analisi l’assenza di cultura politica non risulta tanto dal progressivo disinteresse verso la materia ma piuttosto da una colpevole acquiescenza alle logiche di un linguaggio semplicistico e pervasivo, che uccide il dibattito svuotandolo dei suoi contenuti originali. In questo senso egli legge anche la comparsa sulla scena nazionale del Movimento 5 Stelle.

Se la prima parte del saggio è dedicata alla difficile costruzione della democrazia e alle ideologie politiche del post-fascismo, la seconda è concentrata sulla scomparsa delle culture politiche e l’avvento di antiparlamentarismo, populismo e sovranismo. L’ascesa di Bossi e Berlusconi prima e del M5S poi, rappresentano, secondo l’autore, modelli di populismo ispirati essenzialmente al crescente sentimento antipolitico di una parte considerevole del paese. L’analisi di questo aspetto della storia politica nostrana si concentra essenzialmente sulla questione dell’affinità che, in particolare i primi due leader, rivendicano con la “gente comune”, in linea con l’interpretazione che ne ha dato James Newell nel 2019. L’emergere di una “democrazia decidente” è, per l’autore, il tratto peculiare del lessico populista.

In questo scenario, diversa appare la posizione del M5S, che non ha i tratti localistici della Lega né quelli nazional-popolari di Forza Italia. Per Pasquino il M5S è profondamente antiparlamentare, lo è stato nella sua ascesa e, in buona parte, anche nell’azione di governo (vedi la battaglia per la riduzione dei parlamentari e la ventilata azione per il vincolo di mandato). La parte dedicata al populismo e al sovranismo tratteggia alcuni aspetti dei relativi fenomeni, essenzialmente quelli che ne connotano, secondo l’autore, la radice antidemocratica.

Chi scrive ha un approccio diverso ai temi del populismo ma va riconosciuto a Pasquino chiarezza e precisione linguistica nel definirne, da una prospettiva liberale, i tratti. Tuttavia, al di là delle intenzioni dell’autore, il populismo non può essere interpretato solo nella direzione dell’identificazione né in quello della manipolazione ad opera del leader e nemmeno esclusivamente nella generalizzazione delle sue presunte implicite tendenze antidemocratiche.

Sorprende la scomparsa dal vocabolario politologico del termine “demagogia”, che in molti casi potrebbe ambire a maggiore precisione nella rappresentazione di certi fenomeni politici e partitici. Rimangono fuori, dall’analisi di Pasquino, quella dimensione della cultura politica che, come già Worsley sottolineava, è propria dei populismi; la loro “emergenza” (nel senso doppio di genealogia e di effetto di condizioni e fragilità della politica) e, infine, le questioni sociali irrisolte, le domande inascoltate di cui sono portatori e che rischiano di venire semplicemente derubricate a fenomeno emotivo, irrazionale e semplificativo del rapporto capo/popolo.

L’ultima parte del libro è dedicata all’Europa, capitolo dal tono comprensibilmente apologetico e caratterizzato dalla preoccupazione della minaccia sovranista diffusasi rapidamente fin da Berlusconi e poi con atteggiamenti veterocomunisti della sinistra a cui, seppure limitatamente, Pasquino imputa posizioni ambigue. Per il politologo piemontese le posizioni euroscettiche hanno finito per dare voce a un fenomeno irrazionale e antistorico, ancor più grave per un paese che è stato il primo e più importante soggetto promotore dell’Unione Europea.

Per decifrarne gli aspetti originari, Pasquino procede a partire dalla distinzione di Juan Linz tra ideologia e mentalità, quest’ultima assai mutevole perché, a differenza delle ideologie, è priva di idee e di un pensiero strutturato. Uno scarto concettuale ma nei suoi effetti concreto come può esserlo un processo culturale interiorizzato e che rinvia, per il politologo, a tutta la letteratura sul populismo ma, precisa, anche a un certo europeismo di maniera.

Il volume di Pasquino si attesta come un’effettiva puntuale ricostruzione dei passaggi politici che hanno determinato l’Italia che conosciamo ma, se per Bobbio il valore della libertà da poco conquistata meritava un punto di domanda, in Pasquino sembra, pur nel ventilato residuo ottimismo cui il volume alla fine apre, una malinconica conclusione.