L'era degli scarti
Marco Armiero

24.12.2021

Introduzione


Quando ero bambino, a Napoli, negli anni Settanta, avevo un compagno delle elementari che si addormentava sempre in classe perché era stato sveglio tutta la notte a «fare i cartoni».

Ma «fare» non è esattamente la parola giusta. Ciro, insieme a molti altri bambini di Napoli a quei tempi, non lavorava in una cartiera che «faceva» cartoni, ma trascorreva la notte a raccoglierli dai mucchi di spazzatura urbana girando per le strade sul retro di un tipico Ape a tre ruote.

Questa era un’attività talmente comune in città, che Pino Daniele, il cantautore, inserì l’iconica figura del cartonaio nella sua poetica descrizione delle notti di Napoli. In realtà, i cartonai erano operai in un tipo particolare di fabbrica, la metropoli, dove produzione e consumo sono meno separati di quanto si potrebbe pensare; perciò si potevano «fare» cose recuperandole dalle vene aperte della miniera urbana.

Questa nota autobiografica racchiude alcune delle principali questioni affrontate dai più recenti studi sul problema dello scarto, fra le quali il significato stesso del termine (che cos’è lo scarto e a chi serve), la relazione metabolica tra lavoro e scarto, la dimensione urbana dello scarto e la discussione sulla sua proprietà (chi possiede i rifiuti).

Il fatto che a un certo punto Ciro fosse scomparso dalla classe, lasciando la scuola per sempre, mentre io sono diventato professore, spiega perché in questo libro lo scarto non sia considerato una cosa, ma piuttosto un insieme di relazioni socio-ecologiche tese a (ri)produrre esclusione e disuguaglianze.

Scrivere di scarti è una impresa complicata, un po’ come orientarsi tra le montagne di rifiuti di una immensa discarica. La quantità di letteratura che si è accumulata sull’argomento e la sua diversità in termini di discipline e approcci è quasi da non credere.

Dall’antropologia alla storia, dall’ecocriticismo alla sociologia, passando per l’economia, il diritto, le scienze politiche, la geografia, l’archeologia, il design, la filosofia e molte altre discipline che sto tralasciando (chiedo perdono!), i rifiuti sono un tema estremamente di moda.

Questo libro non è concepito come una lunga rassegna dei lavori prodotti sull’argomento, in parte perché rimarrebbe incompleto e finirebbe per essere quasi immediatamente datato, ma soprattutto perché l’ho pensato con uno scopo diverso. Lo scopo è quello di presentare il Wasteocene, di proporre una narrazione che colleghi scarti, disuguaglianze e il mondo che stiamo creando.

Tale narrazione si interfaccia evidentemente con l’esplosione dei dibattiti e degli eventi accademici e artistici riguardanti l’Antropocene.

Il Wasteocene può essere inserito tra le alternative all’Antropocene fiorite specialmente dalla creatività di quegli studiosi di scienze umane dell’ambiente che si sentivano insoddisfatti dell’immagine troppo neutrale di «età degli umani» (Malm e Hornborg 2014) che la nuova epoca richiama.

«Capitalocene» in particolare ha guadagnato terreno per il riferimento diretto al sistema economico e sociale che molti giudicano essere il primo responsabile dell’attuale crisi socio-ecologica (Moore 2016; Moore 2017).

La definizione di Wasteocene presuppone che gli scarti possano essere considerati la caratteristica planetaria della nuova epoca in cui viviamo.

Non soltanto perché il Wasteocene è presente ovunque – anche le emissioni di anidride carbonica sono fondamentalmente scarti atmosferici –, ma perché si fonda su quelle che chiamiamo wasting relationships: le relazioni di portata davvero planetaria che producono luoghi e persone di scarto1.

Se gli scarti non sono una cosa da collocare da qualche parte, ma un insieme di wasting relationships che producono esseri umani e non-umani di scarto, e dunque luoghi e storie scartate, la prossimità, o sovrapposizione, tra una data comunità e un impianto inquinante è ben piú di una questione di chilometri e di codici postali.

I rifiuti in quanto relazione (che scarta) producono la comunità presa di mira, più che selezionarla semplicemente come luogo ideale per una struttura indesiderata. In questo senso potremmo riprendere ciò che Dipesh Chakrabarty scrisse una volta sull’argomento:

Che parliamo di scarti radioattivi dei Paesi industrializzati o di scarti di una famiglia o di un villaggio in India, lo «sporco» può soltanto finire in un posto designato come «esterno» (Chakrabarty 1992, p. 542).

La pratica dell’«alterizzazione» (othering), che è intrinseca al progetto coloniale, è al cuore di qualunque wasting relationship. La produzione di scarti è legata alla produzione dell’altro, o di chi sta all’esterno, e del «noi».

Come ha mostrato Gay Hawkins, gli scarti non definiscono soltanto chi sono gli altri, ma anche «chi siamo noi» (Hawkins 2006, p. 2).

Il Wasteocene sta alla colonialità come l’Antropocene sta al discorso sulla specie, così caro oggi a Chakrabarty (2009).

Potremmo dire che l’othering, cioè la produzione coloniale dell’altro, e il saming, l’invenzione retorica del «noi», sono due facce della stessa medaglia2.

L’alterizzazione prodotta nel processo di scarto è più pervasiva della creazione di aree di sacrificio, luoghi e comunità destinate a ospitare ciò che nessuno vuole. Alterizzare significa cambiare la «natura» dell’altro e simultaneamente usarlo per conservare un privilegio.

In questo libro mostrerò il modo in cui – forse dovrei dire i luoghi dove – il Wasteocene si palesa. Ripercorrerò le vicende del discorso sull’Antropocene (cap. 1, par. 1) e proporrò il Wasteocene come inquadramento alternativo della crisi socio-ecologica in atto (cap. 1, par. 2).

Poi esplorerò le narrazioni fantascientifiche del Wasteocene e il modo in cui questi immaginari configura- no le nostre idee riguardo all’apocalisse dei rifiuti (cap. 1, par. 3). Svelerò come scartiamo le storie di tossicità attraverso la cancellazione e l’addomesticamento delle memorie o l’imposizione di narrazioni dominanti che colpevolizzano le vittime o naturalizzano l’ingiustizia (cap. 2, parr. 1 e 2).

Il Wasteocene è al tempo stesso planetario e situato, dunque mi sposterò tra i due livelli di scala per illustrare tramite una breve serie di inquadrature le diverse manifestazioni delle wasting relationships negli Stati Uniti, in Brasile e in Ghana (cap. 2, par. 3).

Nel terzo capitolo utilizzerò Napoli come laboratorio, esplorando al microscopio in che modo il Wasteocene si è manifestato nelle vicende della città. Osserverò il modo in cui alcune epifanie nella storia di Napoli – le epidemie di colera, il «male oscuro» degli anni Settanta e la crisi dei rifiuti negli anni Novanta e Duemila – hanno aperto delle brecce nel muro del Wasteocene che divide coloro che hanno un valore dagli «altri».

Il quarto capitolo è dedicato alle forze che all’interno del Wasteocene stanno provando a sabotare le wasting relationships, sperimentando nuove relazioni socio-ecologiche. Sosterrò che le pratiche di commoning – le pratiche collettive che generano al tempo stesso beni comuni e comunità (De Angelis 2017; Bollier e Helfrich 2012) – sono le strategie antiscarto più feconde [...]


1Qui mi rifaccio a Bauman (2008) e alla sua idea di «rifiuti umani».

2 Per quanto ricca e ramificata, la genealogia dell’«alterizzazione» come pilastro portante del progetto imperialista, che produce l’altro coloniale e il rassicurante «noi» dei colonizzatori, riconduce in generale al lavoro della teorica del post-colonialismo Gayatri Spivak.



© Marco Armiero, L'era degli scarti, Einaudi 2021



Marco Armiero è dirigente di ricerca presso l’Istituto di Studi sul Mediterraneo del Consiglio Nazionale delle Ricerche e direttore dell’Environmental Humanities Laboratory del KTH di Stoccolma. Ha svolto attività di ricerca presso la Yale University, la University of California, Berkeley, e la Stanford University. È stato Marie Curie fellow presso la Università Autonoma di Barcellona e Visiting Researcher al Centro di Studi Sociali dell’Università di Coimbra. È stato nominato Barron Visiting Professor di environmental humanities presso la Princeton University. Per Einaudi ha pubblicato Le montagne della patria (2013). Dal 2019 è il presidente della European Society for Environmental History.