L’arte come resistenza nell’epoca iperindustriale
Rosella Corda

07.05.2022

A partire dal concetto di “iperindustrialità” di matrice stiegleriana, vorrei provare a tornare sulla questione dell’arte come atto di resistenza.

Seguendo l’autore della Miseria simbolica (B. Stiegler, Miseria simbolica vol. 1. L’epoca iperindustriale, trad. it. e introduzione a cura di R. Corda, apparati a cura di Gruppo Ippolita e G. Allegri, Meltemi, Milano, 2021; Miseria simbolica, vol. 2. La catastrofe del sensibile, Meltemi, Milano, 2022), per inquadrare la condizione contemporanea occorre schivare l’equivoco, scaturito pensando nella prospettiva lyotardiana del post-moderno, di una fuorviante ipotesi di de-indutrializzazione della società.

Stiegler, in polemica con le tesi di A. Touraine (La condizione post-industriale, Il Mulino, Bologna, 1969), pone in evidenza come la condizione contemporanea vada intesa quale accelerazione della industrializzazione nel segno della ipertrofia del calcolo, del capitalismo e del controllo. L’idea di un’epoca (che si caratterizza propriamente come mancanza di epoca) dell’iperindustrialità fa leva da un lato sul compimento dell’heideggeriano oblio dell’essere, che nel pensiero calcolante dell’occidente si esprime propriamente quale nichilismo della entificazione dell’essere e, quindi, nientificazione dello stesso ente; dall’altro, sulle trasformazioni immanenti al capitalismo come modo di produzione; e, infine, sull’avvento delle deleuziane “società di controllo”, effettivo punto di convergenza delle due linee sopra tracciate.

Ed è su questo aspetto che vale la pena insistere, per ulteriormente chiarire le caratteristiche di una iperindustrialità che del “controllo” fa la sua vera carta di identità elettronica, richiamando, come d’altronde lo stesso Stiegler fa, le tesi sostenute nel discorso del 1990 da Deleuze, in Poscritto sulle società di controllo. Se Foucault aveva pensato un superamento delle società di sovranità a vantaggio delle società disciplinari, Deleuze interviene considerando come siano le società di controllo a superare, nel segno di un, potremmo dire, ipertrofico “lascia passare”, le società la cui prerogativa sarebbe stata la “re-clusione” dentro spazi preordinati.

A supporto di questa idea del lasciar circolare liberamente, è utile incrociare questo testo deleuziano con l’altro, estremamente significativo, del 1987, Che cos’è l’atto di creazione?, in cui la società di controllo viene già prefigurata come un’autostrada in cui si possa circolare all’infinito.

Ma su cosa verrebbe a esercitarsi questo controllo? A dispetto di una tarda ipostasi soggettivistico-relativista, pensabile secondo categorie post-moderne, è con il concetto simondoniano di relazione trasduttiva1, ovvero di una relazione che modifica ogni volta gli stessi termini attraverso cui passa, che meglio si può intendere la sintassi del “controllo” deleuziano-stiegleriana. Immaginare vi sia un soggetto del controllo è un’operazione surrettizia e mistificatoria, di stampo “paranoico”. Nell’ottica della miseria simbolica, infatti, il controllo interviene esattamente a impedire, sul campo, la costituzione delle soggettività, inter-dicendo l’individuazione tanto dell’”io” quanto del “noi” e producendo le rovine sociali dei tornanti politici attuali. Il “controllo” è, ancora più propriamente,

il campo della individuazione contemporanea, intesa questa come processo relazionale-operazionale di costituzione di individui (soggetti) a partire da un sostrato metastabile di preindividualità caratterizzato non solo da ritenzioni primarie e secondarie, ma da “pezzi” di supporti di ipomnemata macchiniche. La tecnica del controllo, dunque, si esercita quale tecno-logia dell’iscrizione della semiosis nella aisthesis nella misura di una cronica captazione e deviazione della libido: dalla sottrazione continua di attenzione all’incrinatura che attraversa e scardina il narcisismo primario.

Ogni “libero” accesso attraverso mot-de-passe, è un lasciar-si passare. La trama (rete) delle società di controllo è tutta punteggiata di parole d’ordine che aprono, danno luogo, moltiplicando accessi alle autostrade della ripetizione infinita: una ripetizione senza differenza, senza dia-cronia. L’accesso è il modo del lasciar-si passare deiettivo quale omologazione e sincronizzazione nel segno di individui de-individuati, de-privati, immiseriti.

La parola, nel campo trascendentale del controllo, quale espressione chiave del symballein è solo indice della (sua) catastrofe nel diaballein: “smembramento”, separazione e particolarizzazione. Benché propriamente senza soggetto, questo campo non risulta meno tendenzioso. Controllare è deviare “affetti” verso le motivazioni immanenti all’economia politica contemporanea. Le coscienze si prefigurano quale meta-mercato a uso e consumo del marketing.

Il mal-essere corrisponde, quale ontologia dell’affetto-triste-chiave, a questa economia libidica. Come resistere allora a uno scenario catastrofico così delineato? Può darsi una forma di resistenza? Una exit-strategy non può prescindere dall’assunzione di questo campo trascendentale senza soggetto e, perciò, votato al controllo. Rispetto a questa trama di ritenzioni e protensioni pilotate in un immaginario colonizzato e de-potenziato, vale la pena forse rinunciare non solo a lamentarsi, ma anche a nutrire vane speranze. Pensare a nuove armi, ma quali? Come?

Assecondando quella preziosa osservazione spinoziana sulla tristezza di affetti quali paura e speranza, il Deleuze richiamato da Stiegler postula forse la necessità di fare i conti con l’impossibilità (e a questo proposito, con i relativi particolari risvolti politici a partire dal pensiero di G. Deleuze, si rinvia a U. Fadini, Attraverso Deleuze. Percorsi, incontri e linee di fuga, Ombre Corte, Verona, 2020). Torna in mente L’esausto (G. Deleuze, L’esausto, a cura di G. Bompiani, Cronopio, Napoli, 2005), con quella sua postura di stanchezza radicale. Con Stiegler, andrei oltre, pensando alla “disperazione” quale categoria estetica e poietica. A partire dall’impossibilità che la disperazione dischiude, ripensare quell’atto di resistenza che Deleuze individua nell’arte.

La resistenza nell’epoca iperindustriale (e all’epoca iperindustriale) non può essere pensata e risolta nella sintassi soggettivistico-relativista, territorializzata su ipostasi di soggetti e oggetti preposti. I pezzi in cui siamo sono inter-detti a priori nella capacità di re-sistere perché inficiati nella loro capacità (affettiva) di e-sistenza. Se volessimo leggere ancora il contemporaneo attraverso la sintassi logica di soggetti che resistono-contro saremmo semplicemente nella caricatura, nella ritualità, nella inefficacia storica, come d’altronde Deleuze poneva in evidenza allorché ci metteva in guardia rispetto all’equivoco della pratica della contro-informazione in Che cos’è l’atto di creazione?.

Occorre invece farsi carico, assumere la catastrofe quale risorsa estetica di una estetica “del” possibile laddove il genitivo sia generativo. Allorché i possibili logici, frutto delle nostre protensioni pilotate, mostrano davvero il segno della inutilità, immagini della stanchezza epocale, c’è forse spazio per un atto di re-sistenza d’altra natura: la resistenza come atto di creazione e, perciò, atto artistico. Non una creazione dal nulla, ma una pro-pulsione di ricampionamento differenziale dei pezzi che siamo e in cui siamo, riattivando i processi di individuazione in vista di inedite con-sistenze.

Queste sono le nuove armi che ci occorrono, partendo sì dal fatto che ci si dimentichi, nietzscheanamente, come soggetto che crea artisticamente e, tuttavia, in forza di questa stessa capacità di invenzione di “simboli”.

1 G. Simondon, L’individuazione alla luce delle nozioni di forma e informazione, trad. it. a cura di G. Carrozzini con prefazione di J. Garelli, Mimesis, Milano-Udine, 2011.