L'angelo e lo stolto. Alcune riflessioni a proposito de L'arte di legare le persone
Viviana Vacca

07.05.2021

Da diverse settimane sulla stampa italiana compaiono numerose occasioni di plauso critico nei confronti de L’arte di legare le persone di Paolo Milone (L’arte di legare le persone, Einaudi 2021). Del dottor Paolo Milone: il titolo non è, in questo, casuale a proposito di un testo che si pone a metà strada tra il romanzo e il diario di viaggio di uno psichiatra all’interno di un macrosistema - relativo all’organizzazione della cosiddetta psichiatria d’urgenza - e di un microsistema - il reparto 77, così denominato nel romanzo - nel quale l’autore ha lavorato per 40 anni. Sullo sfondo- ma abbastanza vicino da non vederci molto visto che la visione ravvicinata spesso non aiuta- una città, Genova, ricostruita tra descrizione di vicoli e serratoie sul mare come altrettanti luoghi in cui “incontrare” potenziali pazienti.

La prima cosa che colpisce, nella lettura del romanzo, riguarda la motivazione di tanto plauso e accorata occasione di commozione: la qualità letteraria del contributo, la fascinazione poetica che ingabbia il lettore che si ritrova avvolto, commosso davanti alle storie raccontate. Storie singole di vite raggrumate nel fondo indistinto di una sovraesposizione: quella del dolore che unisce i medici e i pazienti nel mare magnum della malattia mentale. Le intenzioni autobiografiche sono infatti chiarite fin da subito: il dottor Milone racconta di come per paura ha scelto di fare un mestiere di cui c’è da aver paura, un mestieraccio, insomma. Tant’è che giova non dimenticare che il medico è un essere umano come gli altri, come i pazienti affetti dal male nel quale qualcuno deve pur sporcarsi le mani, debole e fragile che a fine turno deve comprare il latte.

Peccato che tale mestieraccio venga raccontato come in una bella canzone, in un romanzo alla Carver in cui tutti- i medici e i pazienti, chi lega e chi viene legato, chi si suicida, chi si droga- sono parte dello stesso umanissimo, fragile reparto. Nel leggerlo mi sono sentita spaesata alla maniera di un altro dottore, quell’ Andrea Efymic dello splendido racconto cecoviano La corsia n.6, il reparto russo la cui sola conoscenza spinse Lenin, dopo la lettura, a uscire fuori di casa per cercare di prendere una boccata d’aria. Ma, a differenza del romanzo in questione, il racconto di Cechov è una denuncia della disumanità del sistema psichiatrico e insieme la storia dell’incontro tra due persone, un medico arreso alla vita e un paziente che di folle aveva bene poco.

Ha ragione, tra gli altri, Peppe Dell’Acqua quando sottolinea la pericolosità della fascinazione letteraria, poetica, citando l’illustre precedente delle Libere donne di Magliano di Mario Tobino. Una bella narrazione a proposito della contenzione nei reparti di psichiatria d’urgenza, dunque, fa di quest’ultima addirittura la nobile arte di legare le persone. Nell’atto di legare, contenere i corpi è quasi pleonastico ribadire che ci sia poco di poetico o di fascinoso. Basta, tra gli altri, il corpo in agonia del maestro Francesco Mastrogiovanni, ripreso fino alla morte dalle telecamere del reparto dell’ospedale di San Vallo della Lucania. La sovraesposizione del dolore di un corpo parla da sola, si dice. Tale parte del discorso, strettamente correlata alla prima, è stata rilevata con fermezza anche da Cipriano in un contributo apparso sul Domani: le fascinazioni letterarie sono pericolose al punto da legittimare le pratiche di contenzione, gettando nell’oblio quanti e quante, nel lungo percorso condiviso a partire dalla rivoluzione basagliana, ha cercato di colmare i vuoti lasciati dall’abolizione necessaria dell’istituzione manicomiale a favore di una psichiatria che comprende l’ascolto gentile . secondo la splendida definizione di Eugenio Borgna - nel setting della presa in carico, della clinica, della psicoterapia e della riabilitazione. Serve ribadire che, in altri termini, alla psichiatria d’urgenza debba essere riconosciuta una minima rilevanza all’interno del sistema terapeutico.

In tal senso, l’arte di legare le persone non è arte e non è bella e - nei rari casi di eccezionalità in cui si rivela indispensabile - l’unica arte da imparare sia quella di non legare le persone. Per le sue caratteristiche, la contenzione è da un secolo al centro della riflessione psichiatrica perché è su tale punto che si definisce un gruppo di lavoro in relazione al paziente. Dal legame, dal corpo a corpo decantato nelle pagine di Milone si passa alla relazione con il paziente, alla persuasione legata alla parola e alla forza delle parole tali da creare quella danza della conversazione di cui parlava Bateson. E’ in quella danza che si crea una relazione, un legame tra il medico e il paziente. I matti erano e sono da slegare come nella bella inchiesta di Bellocchio, Agosti, Rulli e Petraglia.

Ma il libro di Milone è, dunque, anche un saggio nonostante la forma romanzata utilizzata con la creazione di un alter ego di finzione che presta la voce a una parte di sé. Il terreno di ambiguità in cui ci si muove, dunque, rende ancora più pericolosa l’operazione che ha spesso l’andatura frammentata, sincopata tra un TSO d’urgenza, un incontro tra le vie della città, una contenzione dell’ultimo momento in un SPCD anomalo in cui venivano trattati i delirium tremens, gli stati confusionali o le intossicazioni o le crisi di astinenza, risolte in altre strutture, prima di un eventuale passaggio, in Pronto Soccorso….

Nella descrizione romanzata del dottor Milone, sembra scomparsa l’intera relazione psichiatrica con il paziente che comprende la costruzione di una progettualità condivisa con un gruppo di lavoro per una vita più libera e felice, più dignitosa a vantaggio del giganteggiare della figura schiacciante dello psichiatra rispetto a un paziente ridotto esclusivamente alla sua “follia”. Ma il paziente non è la sua malattia mentale e la follia non riguarda una singolarità eccedente un sistema- familiare, sociale, ospedaliero- ma bensì l’intero sistema che viene costruito e con il quale dobbiamo relazionarci in quanto medici, cittadini. In quanto persone. Non a caso, la legittimazione indebita della contenzione avviene quando si legge che l’arte di legare le persone è necessaria al fine di evitare «che si bonifichi il presente mettendo il male nel passato»: ma forse il dottor Milone dimentica che l’aspirazione a non legare le persone attraversa la psichiatria fin dai tempi del gesto di liberazione di Pinel riproposto in Italia agli inizi del ‘900 dal genovese Ernesto Belmondo?

Ma, secondo l’autore, risulta difficile parlare e scrivere male di una pratica che ha tenuto al riparo dalla violenza e dalla morte medici e pazienti. Forse ci dovremmo tenere al riparo dalla crudeltà che sta dietro l’atto contenitivo visto che chi confonde la realtà della cinghia con la bellezza dell’artificio metaforico spariglia le carte in un gioco d’imbrogli. L’intento dell’autore, in altri termini, sembra sospeso, tra il desiderio di rivelare il segreto intimo delle cose attraverso la poesia e l’urgenza (sic) autobiografica di riappacificazione con le ferite del proprio mestiere. Ma quando la poesia e l’arte attraversano i luoghi della solitudine e del dolore- in altri termini sono incidenti nella realtà e nelle belle pratiche che la riguardano- rompendo i vetri delle finestre di un manicomio come le catene di un letto di contenzione, noi sappiamo che gli esiti hanno poco a che vedere con tentativi empatici di fascinazione romanzata.

E penso a una linea di pratiche artistiche che collegano Marco Cavallo al teatro di Pippo Delbono. Fa bene ricordare, a tal proposito, uno strumento insieme letterario e terapeutico del dottor Gregory Bateson, il metalogo, una conversazione immaginaria tra un padre e una figlia che parte da una domanda per arrivare a trattare questioni teoriche importanti per il suo autore. Parlando della relazione sistemica tra l’uomo e la bellezza- quel segreto intimo che abita le cose- Bateson ricorda il verso di Alexander Pope perché gli stolti si precipitano dove gli angeli temono di posare il piede: esiste in fondo una postura di saggezza che va oltre la conoscenza. Ed è quella del rispetto per la vita e per il sistema nel quale siamo inseriti.