L’Acchiappafantasmi conversazione con Emiliano Morreale
Angelo Foscari

15.02.2023

“...è un intreccio di tante persone tenute ‘calde’ dal film”

Alberto Grifi

Qual è il colmo per un enciclopedista del cinema? Per uno, cioè, che ha passato 10 anni a studiare così da poter infine associare un volto, una filmografia ed una biografia sia pur minima al nome di ogni attore ed ogni regista... anche a quei nomi che praticamente nessuno ha mai sentito nominare? Il colmo, sicuramente, dev’essere mettere insieme il proprio magnum opus in strettissima collaborazione (rigorosamente via e-mail) con un non meno fanatico e meticoloso co-autore che però non si è mai incontrato di persona, né si sa che faccia abbia e tantomeno che vicenda umana abbia vissuto.

In L’ultima innocenza di Emiliano Morreale (Sellerio, 218 pp., 16 euro) succede anche questo, in una esilarante corsa nei sacchi attraverso le caselle del Gioco del Cinema (e dunque dei suoi demiurghi, dei suoi spettatori, dei suoi studiosi) in cui dal Vicolo Stretto dei succedanei di Cinecittà si passa al Parco della Vittoria di Hollywood quasi sempre senza passare dal Via, ma spesso saltando due o più turni, da trascorrere beninteso in prigione.

E’ dunque un libro di imprevisti – soprattutto di batticuori imprevisti: ci si commuove sempre nel punto in cui non ce lo si aspettava - quello del docente di Storia del Cinema alla Sapienza (nato cinquanta anni fa a Bagheria, autore di testi su Soldati e su Carmelo Bene, sugli Autori degli anni ’60 e sul melodramma all’italiana, sul cinema di mafia e sul cinema della Dolce Vita), un po’ nell’ottica di un suo alter-ego mancato (non l’ha conosciuto ma, in un aprile di sedici anni fa, senza sapere bene perché, si è recato ai suoi funerali) ovvero il regista sperimentale Alberto Grifi, che negli ultimi anni di vita non nascondeva un lucido scetticismo riguardo al progetto utopico, a lungo perseguito, di fare un cinema “vero” e “rivoluzionario”: ma che giustamente andava fiero di aver saputo apparecchiare dei dispositivi d’attenzione capaci di cogliere l’attimo, di afferrare la “realtà non sceneggiata”. Una macchina acchiappafantasmi, in definitiva, considerato oltretutto che la protagonista del suo film più noto - il fluviale Anna, realizzato nel 1975 con Massimo Sarchielli - sparì (quasi) nel nulla a riprese terminate.

Anche quello di Morreale è un percorso disseminato di ‘trappole per fantasmi’ dove gli spettri sono quelli di figure ai margini – per disparate e disperate ragioni - del cinema più ‘ufficiale’ (Giuseppe Greco figlio del ‘Papa’ Michele; il fantasioso produttore Michal Waszynski; Thomas Harlan figlio del famigerato regista del Terzo Reich, Veit Harlan; il già citato Grifi; l’attrice Dorothy Gibson). Le trappole le ha messe lo stesso narratore – personaggio confrontabile con ma non sovrapponibile a Morreale – il quale però a volte ci finisce dentro per sbaglio.

Il libro provoca e coinvolge a tal punto che ho sentito l’impulso di parlarne con l’autore:

Il narratore del tuo romanzo, nel suo cammino di precario dei film studies, attraversa – perlomeno! - Tre Regni dell’Oltretomba distinti e separati: 1) innanzitutto quello dei fantasmi di celluloide; 2) poi quello dei cinematografari un tempo in carne ed ossa, attori e registi, che oggi come oggi sono quasi tutti morti o comunque irreperibili; 3) infine quello della ‘morte della fruizione’, dato che si parla ad ogni piè sospinto di sale scomparse: mi ha colpito subito l’accenno ai cinema che a Palermo – fino al 1979, direi - effettuavano proiezioni mattutine, perché me li ricordo; ma poi si parla del Lubitsch (1999-2009, se non vado errato) a Bonagia, nonché della “sala di proiezione privata” del figlio di Michele Greco; e la storia finisce in piena “clausura” da Covid, senza cinema aperti al pubblico. A questa cartografia un po’ dantesca non corrisponde però un percorso lineare, alla fine del quale si esca “a riveder le stelle”: in primo luogo perché quelle del libro proprio stelle non erano (e quando lo erano, l’io narrante le ‘degrada’ in prima battuta, riferendosi ad esempio obliquamente a Christopher Lee come ad “vecchio attore inglese...specializzato in ruoli di vampiri”); e in secondo luogo perché la struttura dei tre Averni di cui sopra fa pensare ad un elicoide crollato su sé stesso: le tre dimensioni sono in effetti attorcigliate, sbucano l’una nell’altra secondo un fittissimo reticolo di incroci che manco nell’Orlando Furioso...

.. Non è il cinema l’unico regno dei morti, direi. Uno dei cento titoli di lavorazione del libro, brutto, era L’arte non salva nessuno. Certo, il cinema ancora di più. Ma la cosa bella del cinema, rispetto alla letteratura e all’arte, è che i suoi sfigati sono più simpatici. Uno scrittore fallito, un pittore fallito, mettono più che altro tristezza. Un regista o un attore falliti portano con sé una mistura di patetico, ridicolaggine e squallore che li rende più affascinanti. Un po’ perché il cinema ti fa sbattere più duramente contro la realtà; e se fallisci, non fallisci da solo ma davanti agli occhi di altre persone, e magari trascinandole con te. Un po’ perché c’è sempre una dose di cialtroneria, di puttanaggine, anche nel più nobile dei film: nei mediocri e nei falliti è come se questa cialtroneria la si vedesse in purezza.

Inoltre, nel libro c’è un narratore che è sfigato almeno quanto i personaggi che incontra. Le sue ricerche sono goffe, importune, morbose, e alla fine nemmeno tanto convinte. Non trova niente, o non c’è niente da cercare. E di solito, dei personaggi femminili a un certo punto si manifestano scrollando la testa e dicendogli, come nei versi del poeta: “A questo punto smetti”.

L’ultima innocenza è – anche - un libro sui profondi limiti del cinema, che di per se’ e da solo non illumina un bel nulla, se non è inserito in una determinata concatenazione di sguardi e di domande che però inevitabilmente muta ad ogni successivo ‘bagno’ nel famoso fiume eracliteo, o borgesiano...

Il cinema per fortuna non basta a se stesso, non è mai bastato. Sia perché, come diceva Godard, “solo il cinema non è tutto il cinema”, sia perché, lo hanno notato periodicamente in tanti, c’è sempre qualcosa di irraggiunto nel cinema, delle potenzialità inespresse, meravigliose o terribili. Diceva Carmelo Bene che il cinema non c’è mai stato, non è mai nato, e l’Ulisse di Joyce, per esempio, è proprio tutto ciò che il cinema non è riuscito a essere.

Oltretutto nel mio libro si parla di cinema fino a un certo punto. Il cinema è uno schermo non nel senso della proiezione, ma in quello del velo, della donna-schermo. Il rapporto con le donne è il tema della seconda parte, ossia degli ultimi tre racconti: Anna di Grifi, il porno, la diva del muto. L’inseguimento di fantasmi femminili è forse il tema fondamentale della letteratura sul cinema, fin dalle origini. Penso all’Eva futura di Villiers de l’Isle-Adam (scritto addirittura prima del cinema, una profezia), alla Signora Bathurst di Kipling, ai sublimi racconti sul cinema di Tanizaki. Tutta roba dei primi decenni del muto. Io ho copiato questo filone, insieme a tanti altri, e in più che c’è uno sguardo completamente rivolto al passato, e questo cinema visto da lontano è anche il ‘900, la storia, l’esperienza.

Il dialogo – molto ben riuscito – con Eleonora Lombardo in merito al libro (Repubblica del 12 gennaio scorso) si conclude su queste tue parole: “ho una grande voglia di tornare in sala”. La voglia ce l’avrei anche io...ma non credi si debba prendere atto che il cinema non è più né pensato né fatto per la sala, con relativa metamorfosi di quella che gli americani amano chiamare la “situazione retorica” di fondo? Basti pensare che tradizionalmente c’era questo omino alle nostre spalle – il proiezionista ! – che sapeva già tutto, che conosceva la storia e il finale, ed osservava (forse giudicava?) noi che guardavamo il film. C’è una bella differenza con le modalità attuali...

Diciamo la verità: quell’ultima frase (nell’intervista che ha fatto in effetti splendidamente Lombardo) l’ho detta come una petizione di principio. Me ne accorgevo mentre la dicevo, che non ci credevo nemmeno io. Ma il libro è già così malinconico, non volevo atteggiarmi a nichilista della domenica. La verità è che ormai anche andare al cinema è per me soprattutto ricordarmi delle volte in cui ci sono andato, stupirmi che quei luoghi e quelle immagini esistano ancora. Godermele (poco) ogni volta come fosse l’ultima.

Sempre discutendo con Lombardo, dici che il personaggio del narratore è “una cornice che a volte è larga altre più stretta”; e adesso voglio allargarmi pure io: leggo le tue cose praticamente da quando hai iniziato, ammirando la tua spigliata profondità nel leggere il cinema, godendomi il tuo umorismo baghero-british, molto tongue-in-cheek, invidiandoti la capacità di mettere nero su bianco giudizi netti e a volte taglienti (quanno ce vô ce vô) dei quali io sono fisiologicamente incapace. L’unico aspetto della tua scrittura con la quale a volte mi identificavo e a volte meno (a seconda dell’umore!) era un implicito “noi”, che con gli anni è comunque diventato sempre più problematico, ma che faceva capolino in una certa ‘aspettativa di stupore’ (passami l’espressione !) in chi ti leggeva di fronte a certe ‘enormità’ dell’essere o del pensiero. In fondo è il piglio della grande letteratura satirica e/o moralista (nel senso migliore), che se non crede proprio in un “metro di giudizio” comune, immagina però di stare più o meno dalla stessa parte della barricata dei propri lettori. L’ultima illusione, che è un libro – anche se evidentemente il narratore non coincide con Emiliano – molto personale, mi sembra segnare il congedo definitivo da questa – molto implicita, e però fino a qualche tempo fa operante - idea di comunanza. Nel libro in definitiva non c’è un vero dialogo neppure tra l’io narrante e i suoi due ‘doppi’ più scoperti: il bellissimo personaggio della studiosa di Douglas Sirk finita a Uomini e donne e la sfinge F., l’enciclopedista del porno dalla cui casa il tuo alter-ego fugge terrorizzato nel cuore della notte. E non parliamo di contrapporre a questi due le conoscenze della vita “vera”: l’amico Sandro, che anziché acchiappare fantasmi insegna ad acchiappare fanciulle, finisce col rivelarsi, se non proprio lui stesso un fantasma, senz’altro un mitomane...

In effetti questo è un libro sui fantasmi, ed è un libro pieno di doppi. In un caso c’è proprio un modello gotico scoperto (il racconto sul porno, che è anche un racconto di Natale). Ma anche l’inizio del secondo racconto, ambientato in una cineteca, è ricalcato sull’inizio dei film dell’orrore. Si arriva nel castello abbandonato (la cineteca), apre un custode altissimo e porta a visitare i sotterranei.

Poi questo è anche un libro di congedo. Congedo dalla critica, dall’idea di avere qualcosa da dire su qualcosa a qualcuno, nell’ambito del cinema e non solo. (Sia chiaro: non è che per i libri le cose vadano meglio. Lì tutti se la cantano tra loro a vicenda, e se c’è qualche voce dissenziente nove volte su dieci è quella del rancoroso che non è stato invitato al buffet).

Basta aprire un blog o un social per capire che è una battaglia persa: ogni settimana una nuova serie tv che i critici esaltano come un capolavoro; le guardo, e o mi addormento o mi viene il nervoso. Quando lampeggia il cinema in qualche artista vero, non se ne accorge nessuno. Ci saranno duemila persone che scrivono di cinema sui blog. Di solito degli analfabeti. Molto meglio, per me, salvare il salvabile insegnando agli studenti: magari in 4-5 all’anno nasce una curiosità, un dubbio, un’idiosincrasia, un seme. Forse anche per questo senso di fastidio (che è anzitutto, sia chiaro, un fastidio verso me stesso) ho cercato un altro modo di esprimere ciò che provo verso le immagini che ci circondano. Anzi no, verso quelle che abbiamo perduto.