La vita dei casi. Maria Antonietta Magrini e le Sorelle di carta
Ubaldo Fadini

20.12.2022

Quest'ultimo testo di Maria Antonietta Magrini – Sorelle di carta. Donne che si salvano nei libri (Carmignani Editrice, Santa Croce sull'Arno, Pisa 2022) – consente, con il suo efficace taglio narrativo, di ripercorrere un cammino segnato da stazioni significative: ad esempio, i precedenti Sara dagli occhi belli... e un giorno la Sindrome di Rett mi venne a cercare e Siamo ancora un colloquio. A partire da Eugenio Borgna (2015, 2018: entrambi editi da Clinamen, Firenze) e il più recente Con i piedi nell'acqua. Storia di una famiglia e del Padule (Carmignani Editrice, Santa Croce sull'Arno, Pisa 2021).

Si tratta in effetti di un percorso di saggistica narrativa, per utilizzare una formula che non pretende però di incasellare una scrittura assai vivace nella sua attenta articolazione, come già lo stesso Borgna ha avuto modo di sottolineare parlando di una “scrittura gentile e luminosa”, di grande sensibilità (si veda qui Eugenio Borgna, I grandi pensieri vengono dal cuore. Educare all'ascolto, Cortina, Milano 2021, p.56). E in effetti Sorelle di carta è più una prova narrativa, il tentativo cioè di restituire delle storie di donne accompagnandole con delicatezza e curiosità, ponendosi in ascolto di quelle soggettività singolari che si muovono “corporalmente” verso un “fuori”, con i rischi e le tentazioni conseguenti di essere assegnate a un regime d'invisibilità dal quale certamente possono anche scaturire, a volte e con ovvia difficoltà, delle istanze radicalmente critiche, “sovversive”.

Ciò che appunto colpisce in questo testo è, tra altro, la messa in opera di una scrittura letterale che non fa ripetuto ricorso – fino allo sfinimento, come spesso capita in tanta letteratura... – allo strumento della metafora e che appunto per questo coinvolge e inquieta. Si manifesta così un'attitudine letteraria che non lascia tranquilli e comunque non rassicura, che disegna una prospettiva non scontata, insolita, di fatto sconcertante perché rivela la contraddittorietà, forse soltanto apparente, di uno scrivere che ha come suo presupposto imprescindibile il ritrarsi progressivo dell'autrice, la sua consapevole uscita di scena. Si badi bene, un'uscita che non si esaurisce mai, che rimane in un qualche modo, ai margini, sempre e comunque in scena. È un modo, quest'ultimo, per accompagnarsi alle donne delle storie narrate, per cambiare con loro, individuandole e individuandosi all'interno di spazi mobili, sfuggenti perché costitutivamente in fuga nel loro aprirsi ad altro, nei quali l'esperienza si struttura e muta incessantemente.

C'è allora qualcosa nel movimento della scrittura di Magrini che riguarda il motivo dell'affidarsi, di ciò che ha come sua premessa il fuori-uscire da una securitas di partenza, da una situazione di fatto comoda e protettiva che con il suo avvolgere e co/stringere esclusivi illude su una unicità in grado di legare tutto l'esistere, l'esistenza intera. Nell'affidarsi, mossa anche decisamente rischiosa di apertura all'estranea/o, si può cioè cogliere la strada di un ritorno a sé, come scriveva Ferruccio Masini, di un ritorno nel segno del cambiamento pure radicale di sé, che vale dunque come possibile disconferma positiva di abitudini irrigidite, amorficità di fondo, pensieri irregimentati sotto le bandiere degli eserciti della morte: sapendo che l'eventuale ritorno non sarà mai in grado di assicurare certamente un guadagno di “saggezza”. È un modo di sorprendere e soprattutto di sorprendersi, in termini tali da restituire uno stare nel mondo e con gli altri che è sempre sul punto di essere lasciato indietro, di essere divelto e trascinato altrove. E le “sorelle di carta” assolvono anche a una precisa funzione, in tal caso: quella di fornire con le loro esistenze un più d'essere, un tempo ulteriore di vita nella/attraverso la pratica di una scrittura in grado di cogliere i frutti di una non mai rassegnata “furia di vita” (Ferruccio Masini), di un campo di affettività che nutre la stessa esperienza narrativa rendendola quanto mai cangiante, con il suo essere “tempo nel tempo” poiché si “attiene al momentaneo”, riprendendo così Gianni Celati.

Si legge in Sorelle di carta, laddove il “darsi pace” suona per me paradossalmente come un passarci dentro, un rompere con tutti gli equilibri, gli ordini imposti e quindi dovuti: “Adesso quanto aveva letto le dava la possibilità di una interpretazione e di una maggiore comprensione della sua condizione, le permetteva di capire che aveva bisogno di fermarsi. Di fermare la giostra su cui era salita, un poco per sua volontà e altrettanto per i casi della vita. Non c'era niente di male nel mettere tempo tra i suoi oggetti, così cari a lei, e la decisione riguardo a come posizionarli, utilizzarli o buttarli. Poteva e doveva darsi tempo. Quando fosse tornata sul problema avrebbe avuto una visione più chiara e più adeguata a lei.

Quindi nessuna corsa contro il tempo, lei contro al tempo non voleva andare, anzi.

Nel dubbio stare, pensò. Aprì il suo libro preferito e si dette pace” (p.71).

Nel dubbio, stare. Stare nel dubbio, attraversandolo, trovando storie diverse, entrando in esse sapendo che forse potranno essere raccontate.