La svolta ecomediale
Michele Cometa
04.02.2024
Il testo che segue è la Coda al volume di Michele Cometa, La svolta ecomediale, edito da Meltemi.


Una filosofia dei media necessita di una filosofia della natura.
John Durham Peters


È giusto in chiusura interrogarsi sul significato profondo di questa “ecologizzazione” dei dispositivi (e naturalmente anche delle immagini e degli sguardi, in un prospettiva che è quella della cultura visuale) (Cometa 2020).

Bisogna insomma interrogarsi sui rischi ma anche sui vantaggi (non da ultimo sul piano etico e politico) della svolta ecomediale.

Tra i rischi vi è certamente quello di una deriva fondamentalista – la “verità” della natura, e magari anche la sua “purezza” – e quello di una reintroduzione nelle humanities di forme surrettizie di essenzialismo che sono sempre in agguato nel pensiero darwinista (Cometa 2018a). Come hanno dimostrato le teoriche femministe, da Elisabeth Grosz a Rosi Braidotti, proprio la dottrina evoluzionista invece ci mette al riparo da ogni fissità naturalistica e ci induce invece a pensare una filosofia del divenire e della metamorfosi.

Semmai assistiamo, come ho già ricordato, a una crescente de-essenzializzazione dei media e al recupero di significati che sono presenti nella cultura occidentale sin dai tempi di Aristotele. Non si pensi però che tale de-essenzializzazione sia un modo per disimpegnarsi definitivamente da una critica dell’economia politica dei media che, proprio per la loro “invisibilità”, sono semmai ancora più determinanti per le condizioni di vita sul pianeta e certamente giocano un ruolo anche in termini di inquinamento e di distruzione delle risorse.

Ruggero Eugeni, come ho già ricordato, ha molto insistito sull’effetto di “vaporizzazione dei media” (Eugeni 2015, p. 10) al quale sembrano tendere i nuovi media digitali. Nel suo libro La condizione postmediale (2015) Eugeni ha approfondito il rapporto tra la radicale trasformazione di ciò che tradizionalmente abbiamo chiamato media e il contesto politico ed economico che questa trasformazione condiziona. Una questione ripresa anche nel suo libro Il capitale algoritmico (2019) in cui le questioni economiche e politiche vengono decisamente in primo piano.

È possibile – si chiede Eugeni – che i media come li abbiamo conosciuti semplicemente non esistano più? E che ciò a cui assistiamo è l’evoluzione di una nuova forma (di vita?), un “salto qualitativo dei media” (p. 79) che ha prodotto le narrazioni degli autori trattati in questo libro?

Eugeni conosce bene questi passaggi e ne descrive puntualmente gli snodi. Per esempio nella sua prefazione alla versione italiana del libro sull’archeologia dei media di Jussi Parikka scrive:

I dispositivi vengono dapprima rimediati (Bolter, Grusin) dai media digitali, che li riproducono in forma simulacrale più o meno perfetta (“leggo un libro” sul mio iPad che simula la presenza della pagina cartacea); quindi rilocati (Casetti) dal digitale (ritrovo lo schermo cinematografico su quello del mio tablet oppure, all’opposto, nel megaschermo urbano), e infine demediati, ovvero separati da usi strettamente mediali: telecamere, sensori, schermi, reti di trasmissione e processi di visualizzazione basata sul digitale non sono limitati ai media in senso stretto, ma coinvolgono “dispositivi” finanziari, militari, medici e così via (Eugeni, 2019, p. 14).

Insomma i media, come li abbiamo conosciuti e pensati, sembrano ancora una volta nascondersi, al punto che non sappiamo più “che cos’è un medium” (p. 14). In particolare entra in crisi anche un elemento che sta alla base dell’archeologia dei media e che Eugeni individua proprio nell’“effetto di presenza” che i media hanno di fatto garantito nelle diverse fasi della loro vita e che proprio l’archeologia dei media aveva enfatizzato, insistendo sulla capacità che essi hanno di presentificare e di far sopravvivere il passato. Abbiamo visto che i media producono uno spazio, ma anche un tempo (un landscape ma anche un timescape), anzi più tempi, compreso quelli immemoriali – archeologici o paleontologi – perché, come ho ricordato (Cometa 2022c) i media esistono prima dell’invenzione dei media.

Questo sfondamento verso una dimensione immemoriale ha di fatto attirato lo sguardo verso tempi non-umani, o postumani, dove è difficile individuare una funzione soggetto e una funzione oggetto e che comunque ci ha aiutato a emanciparci dal nostro pernicioso antropocentrismo. Lo abbiamo visto con gli insetti e le terre rare di Parikka, e con le nuvole di Peters.

Eugeni riconosce che l’ecologia dei media e ancor più quella che ho chiamato ecologia dei dispositivi si fonda su una “desoggettivazione del soggetto e, al tempo stesso, una possibile o parziale soggettivazione della macchina” (Eugeni 2019, p. 17). È qui che si coglie il senso profondo della critica di Eugeni alle archeologie e alle ecologie dei media che sembrerebbero reiterare all’infinito il presupposto macchinico di questi “strani strumenti!” (Nöe, 2022) che chiamiamo media.

È un pericolo che dopo quello che abbiamo richiamato studiando Parikka e Peters sappiamo di non correre. I media nella nicchia ecomediale possono anche non essere macchine, ma fluidi, vapori, aria. E dunque se di una de-soggettivazione di tratta, come giustamente osserva Eugeni, non è perché le macchine ci dominano o ci potranno dominare, ma perché abbiamo imparato a ridimensionare le nostre pretese soggettivistiche, comprendendo, una volta e per tutte, che non siamo individui, singoli e unitari, ma semmai il prodotto di energie convergenti, alcune delle quali non appartengono affatto al regno dell’umano così come l’abbiamo inteso fino a oggi. Da qui i vantaggi che ci vengono da una nuova attenzione all’animalità, anche quella che è in noi, e agli elementi, anche quelli che ci compongono, e alla materia.

Ma ci troviamo davvero in una condizione “postmediale”? Anche se la definizione di medium sembra “sfocarsi” (p. 27), la naturalizzazione dei media, così come la loro soggettivazione e persino la loro socializzazione – secondo la partizione proposta da Eugeni – non sono comunque parte di una nicchia ecomediale più complessa in cui i media non sono più semplicemente oggetti di un’“evoluzione” tecnologica?

Eugeni ci offre la storia “moderna” della vaporizzazione dei media articolandola in tre tappe: l’era dei media meccanici (1850-1915), l’era dei media elettronici (1915-1980) e l’era dei media digitali (1980 – oggi).

Per raccontare l’evoluzione contemporanea dei media Eugeni si serve di una brillante argomentazione: descrive tre “fasi” (ovviamente senza irrigidimenti storicistici) rappresentandole come i tre epos dell’era postmediale. Ma a ben vedere descrive icasticamente quella che ho chiamato la svolta ecomediale. Basta un’analisi in controluce della metaforica che Eugeni adotta per rendersi conto che stiamo parlando comunque della nicchia ecomediale. I tre epos proposti da Eugeni sono, infatti, profondamente bioculturali. La dimensione biologica è costantemente presente:

Il primo dei tre grandi epos postmediali è quello della naturalizzazione della tecnologia: esso racconta l’avvento di una nuova generazione di apparati tecnologici non più opposti come nel passato alla naturalità dei soggetti che li adoperano e del mondo che li circonda, ma al contrario capaci di generare un meta-mondo natural-culturale; la stessa storia dell’evoluzione umana va dunque rintracciata come epos di una interazione ininterrotta tra téchne e bíos, che ha portato allo sviluppo simultaneo di corpi e strumenti. Il secondo epos consiste nella soggettivazione dell’esperienza e narra l’intero campo dell’esistenza in quanto rappresentazione al tempo stesso soggettiva, soggettivizzante e condivisibile: quanto vivo e sento momento per momento è “mio” e mi costituisce in quanto soggetto, ma al tempo stesso, è una rappresentazione che posso condividere con altri nello stesso istante in cui la vivo io – allo stesso modo in cui posso io stesso ri-vivere in un regime di simulazione incorporata le esperienze altrui. Abbiamo definito il terzo epos la socializzazione del legame relazionale: la condizione postmediale è attraversata e vitalizzata in questo caso dalla narrazione del farsi e disfarsi di reti, gruppi, comunità sociali, incessantemente impegnati a costruire, verificare, distruggere, ricostruire legami di fiducia e di condivisione reciproche – e, al tempo stesso, incessantemente impegnati a sentirsi vivere tali legami e tali eventi mediante una serie articolata di autorappresentazioni riflessive (Eugeni 2015, pp. 79-90, corsivi miei).

Non c’è da stupirsi per queste parole che riconducono i media ai sistemi viventi, visto che Eugeni è uno dei teorici più attenti allo sviluppo delle neuroscienze cognitive applicate ai media e, più in generale, alla creatività e muove da un’attenta formulazione del concetto di embodiment (D’Aloia, Eugeni 2015; 2017). Per esempio, quando parla di ipersoggettivizzazione dell’esperienza visuale Eugeni è consapevole che si tratta del correlato percettivo e tecnologico della radicale trasformazione che hanno subito le teorie filosofiche del soggetto e del Sé proposte dalle nuove scienze cognitive (Gallagher 2013). Queste ultime in particolare hanno, com’è noto, insistito sul soggetto vivente, incarnato, totalmente immerso in un first person shot. L’epos della soggettivazione racconta dunque del successo delle teorie cognitive basate su un soggetto embodied, embedded, enacted, extended etc.:

Radicalmente differente l’idea di soggetto e di costituzione del sé che si è fatta strada negli ultimi venti anni circa… Le scienze neurocognitive contemporanee, infatti, concepiscono il soggetto come un’entità che emerge dal vortice di esperienze, percezioni, azioni, emozioni, rappresentazioni e autorappresentazioni in cui è costituzionalmente “gettato”; tanto la unicità e la centralità del sé quanto il senso di appartenenza della propria esperienza non sono un dato originario, ma derivano dalla necessità di gestire in maniera ottimale le relazioni reciprocamente attive tra l’individuo e l’ambiente. In particolare, le attività percettive non sarebbero in alcun modo concepibili nei termini di una osservazione dall’esterno di una scena, ma dovrebbero essere pensate in quanto intimamente legate alla progettazione, esecuzione e monitoraggio di azioni, e dunque in quanto forme di relazione interne al mondo percepito. È dunque evidente il passaggio da una concezione “posizionale” stabile a una concezione “relazionale” dinamica dei processi di costituzione del soggetto. Si tratta…di un soggetto definibile in base a un modello 5EAR: si tratta di un soggetto embodied (incorporato), embedded (inserito in forma viva in una nicchia ambientale), enacted (impegnato in un’attività di rappresentazione e autorappresentazione coinvolgente), extended (pronto a proiettarsi nelle rappresentazioni dell’esperienza di altri), emerging (emergente dall’intera rete “caotica” di queste esperienze), affective (non solo cognitivo ma anche affettivo) e relational (impegnato in una serie di interazioni sia con gli oggetti che con i soggetti del mondo (Eugeni 2015, pp. 62-63).

È un’evoluzione in cui assistiamo, secondo Eugeni, a un “de-individuazione dei dispositivi” (p. 59). Ma questa de-soggettivazione corrisponde effettivamente alla loro dis-soluzione? O non si tratta semmai del fatto che i media sono tornati a essere quello che sono sempre stati prima che le magnifiche sorti e progressive della tecnologia ci convincessero che esiste solo un’ininterrotta progressione e accumulazione di hardware? Insomma i media, come ci insegna l’ecologia dei dispositvi di cui ho voluto delineare alcune tappe, sembrano essere ritornati alla loro origine, si sono trasformati in ecosistemi, in ambienti, in cui i media come li abbiamo conosciuti in età moderna vedono “sparire i loro confini” e innervare – come avrebbe detto Walter Benjamin – tutta la vita sul pianeta.

La diagnosi di Eugeni è corretta:

In altri termini, non è più possibile oggi stabilire con chiarezza cosa è “mediale” e cosa non lo è, né si può definire quando entriamo in una situazione mediale e quando ne usciamo: siamo piuttosto immersi in sistemi e ambienti di relazioni e di scambi, pronti a usare le differenti risorse che tali ambienti ci mettono a disposizione rispetto agli obiettivi che ci vengono proposti o che ci proponiamo, e ad assumere ruoli e posizioni corrispondenti a quanto implicato dall’uso di tali risorse. I media sono ovunque. Noi stessi siamo media. Ed è per questo che i media non esistono più (p. 28).

Scambi, risorse, ambienti: anche Eugeni ricorre alla metafora che ci tiene prigionieri, alla metapicture ecologica di cui parlavo all’inizio di questo percorso. Tuttavia questa trasformazione ontologica dei media, queste pratiche della mediazione, corrispondono davvero a una “vaporizzazione” del medium, come sostiene Eugeni, o sono piuttosto il risultato di un’innervazione che semmai ne moltiplica l’invadenza, la onnipresenza e la consistenza sociale e materiale?

La condizione postmediale non segna la scomparsa dei media, ma semmai li riconduce alla loro originaria ontologia, alla loro funzione di mediazione nella nicchia ecomediale che precede persino l’esistenza dell’Homo sapiens nel pianeta e di cui l’umano è solo un elemento tra i tanti, a sua volta frutto di una mediazione durante la filogenesi. La condizione postmediale è la condizione “naturale” della mediazione prima dell’avvento dei media, come avevano intuito già i filosofi greci e come hanno ribadito Parikka e Peters con la loro microfisica dei media. E uso il termine microfisica pour cause perché la vaporizzazione dei media, la loro diffusione planetaria assomiglia molto al potere che Michel Foucault vedeva come qualcosa “che nei fatti attraversa i corpi, produce delle cose, induce del piacere, forma del sapere, produce discorsi; bisogna considerarlo come una rete produttiva che passa attraverso tutto il corpo sociale, molto più che come un’istanza negativa che avrebbe per funzione di reprimere” (Foucault 1977, p. 13). I media come il potere si nascondono.

Nel suo libro, Capitale algoritmico, nel quale si ripropone di affrontare la questione postmediale a partire dall’economia e dall’ecologia, Eugeni sposa completamente l’approccio ecologico alla teoria del dispositivo per poi riprendere il discorso sull’economia, cioè sul potere reale dei media:

La seconda convinzione su cui si basa questo lavoro è che per analizzare adeguatamente i dispositivi postmediali non è sufficiente coglierne la struttura interna: occorre osservarli lavorare nei contesti in cui essi vengono utilizzati e all’interno dei processi per i quali sono progettati e in relazione ai quali vengono utilizzati, adattati o modificati. In questo senso, i dispositivi sono parte di processi più ampi, e in particolare si inseriscono nella interazione degli organismi con gli ambienti che li circondano: essi permettono di progettare, attuare e controllare l’andamento delle interazioni con il mondo (qualche volta in condizioni molto turbolente, come è il caso dei dispositivi di visione implementata usati in battaglia), come anche di modificare gli ambienti in cui si opera (sparare a un nemico nel buio o permettere l’atterraggio di un aereo in una tempesta). Il mio approccio ai dispositivi sarà dunque di tipo ecologico, riguarderà cioè l’utilizzo dei dispositivi nelle interazioni tra gli organismi e il mondo (oikos è il termine greco per indicare l’ambiente, soprattutto quello domestico). Ma c’è di più. Nel momento in cui consentono di gestire l’interazione con il mondo, i dispositivi mobilitano una serie di risorse (che possono essere materiali, energetiche o informazionali), ne guidano gli andamenti e le relazioni reciproche e le assoggettano a una serie di regole e di circuiti prefissati: a una eco-logia si lega immediatamente una eco-nomia (nomos è il termine greco che indica appunto la regola, soprattutto di tipo culturale) (Eugeni 2021, p. 9 ss.).

Tale approccio ecologico ha certamente implicazioni biologiche ma rimanda immediatamente a un orizzonte etico e politico. Eugeni sa benissimo che della sua svolta postmediale si deve dare una duplice lettura politica: la prima decostruttiva, una sorta di critica dell’ideologia come si sarebbe detto un tempo, anzi di critica dell’economia politica dei media; la seconda “strategica” – dunque non meno politica a ben vedere – che cerca di trovare nuovi equilibri, un metodo “omeodinamico” (Eugeni 2015, p. 87) – si badi bene un’altra metafora tratta dalle scienze del bíos, dalla medicina e dall’agricoltura! – che sappia pensare un possibile cambiamento. Fa dunque bene a segnalare che dietro le tre narrazioni esposte nel volume del 2015 vi sono forme di occultamento di poteri reali che incidono nelle vite di tutti gli abitanti del pianeta e in forme sempre più globali. Logiche di mercato, di controllo e sorveglianza e logiche di potere si nascondono tra le pieghe di quella che non è affatto pura spettacolarizzazione, gamification e creatività artistica.

Del resto noi sappiamo che le critiche del dispositivo così come sono state discusse dagli autori trattati in questo libro hanno tutte una base politica. Non a caso W. J. T. Mitchell ha sempre insistito sul fatto che anche le magnifiche sorti e progressive della ecologia delle immagini, degli sguardi e dei dispositivi, vanno sottoposte a una critica serrata, perché comunque nascondono interessi, forme di potere e di dominio. Una teoria della nicchia ecomediale non solo non va mai disgiunta da un’analisi puntuale di ciò che accade sul pianeta, ma è di per sé un antidoto alle derive antropocentriche e distruttive della proliferazione dei media. Una teoria della nicchia ecomediale ci costringe a considerare tutto il pianeta e non solo i viventi.

Se ho scelto il termine ecologia piuttosto che biologia, pure pertinente quando si parla di vita delle immagini e dei dispositivi, è perché credo che la nicchia ecomediale non è abitata solo dai viventi, ma anche dalla materia inerte, come ci ha insegnato Parikka. Perché credo che il prefisso “eco-“ non ci fa mai distogliere lo sguardo dalle implicazioni disastrose della proliferazione dei media, che non sono solo forme di dominio economico, ma svelano anche la facies hippocratica delle tecnologie e del loro indiscriminato accumulo. Nel suo brillante libro sull’ecologia delle immagini, Peter Szendi, ha scritto in modo inequivocabile:

Diversi studi recenti hanno confermato quanto il mondo apparentemente immateriale in cui vengono scambiate le immagini formattate come .jpg o .mp4 abbia in realtà un impatto materiale, ecologico e geopolitico allarmante. I data center devono essere raffreddati, i cavi sconvolgono gli ecosistemi che attraversano, il riciclaggio degli schermi è spesso tossico, l’estrazione dei metalli necessari alle batterie o a chip dirotta o contamina le riserve d’acqua, distrugge i fondali marini e esacerba la logica dello sfruttamento coloniale… Tra le immagini delle fuoriuscite di petrolio (come quelle della Guerra del Golfo) e il mare luminescente delle immagini digitali che proliferano continuamente, il progetto di un’ecologia delle immagini, se estendiamo l’intuizione di Andrew Ross, dovrebbe spingersi fino a prendere in considerazione il “tempo profondo” (deep time) di ciò che Jussi Parikka chiama una “geologia” o un ”geofisica” dei media: iconomia contemporanea sarebbe impossibile senza i metalli e i metalloidi come il litio utilizzato per le batterie, l’indio per gli schermi a cristalli liquidi o il germanio per la fibra ottica (Szendi 2021, p. 34 ss.).

L’iconomia – il neologismo proposto da Peter Szendi – va intesa come un’economia politica, anzi come una critica dell’economia politica dell’immagine, alla quale dobbiamo subito associare una critica dell’economia politica dei dispositivi. Per questo parlare di ecologia ha tra gli altri vantaggi quello di non farci mai dimenticare che in gioco, anche quando si parla di media, non c’è affatto la soggettività e le sue derive antropocentriche, ma il pianeta stesso.

Per comprendere i cambiamenti della nicchia ecomediale nella quale tutti, umani e non-umani siamo immersi abbiamo bisogno insomma della biologia, della teoria dell’evoluzione, ma anche della critica dell’economia politica e di quella che un tempo avremmo chiamato critica dell’ideologia la quale ci aiuta a svelare le bias dei nostri ragionamenti, compresi quelli ecofriendly. Tanto più se vogliamo pensare a una ecomedia literacy che non si limiti solo ad analizzare l’uso che i media fanno della questione ecologica (Rust, Monani, Cubitt 2016; López 2021) e a promuovere una nuova educazione ecomediale, ma comprenda la natura bioculturale dei media e dunque le loro profonde implicazioni ecologiche, ovverossia il dare e l’avere di questa relazione (D’Aloia, Rasmi, 2022).

Si tratta, da un lato, di sfuggire al catastrofismo dei profeti del post-antropocene – per altro figlio del suprematismo dell’Homo Sapiens che s’immagina di poter distruggere il pianeta, mentre in realtà distruggerà solo se stesso – e, dall’altro, di riconsiderare i tempi lunghi di un’evoluzione che – come ha icasticamente scritto Telmo Pievani (2011) – “non ci aveva previsto” e potrebbe nuovamente fare a meno di noi.

Pensare la nicchia ecomediale significa considerare il profondo entanglement (Barad 2007) tra ciò che esiste; tra l’Homo sapiens e gli altri viventi, e i non-viventi (la materia), significa pensare la nostra capacità di distruggere ma anche, nel contempo, la nostra capacità di creare. Significa sperare che le cose possano andare ben diversamente da quanto previsto dai facili catastrofismi della vulgata ecologista; che è possibile agire con il pianeta – come ci ha proposto Donna Haraway con la sua idea di simbiogenesi – piuttosto che semplicemente sul pianeta. Ovviamente mettendo da parte ogni superomismo; essendo fino in fondo consapevoli che siamo solo un organismo tra i tanti in una nicchia in cui le interazioni sono complesse e attraversano gli spazi materiali ma anche quelli immateriali (Grosz 2017). Questa complessità è anche la cifra di un’apertura (openness) in cui è possibile trovare spazi nuovi di convivenza, nuove forme di mediazione e di entanglement. Da questo entanglement del resto proveniamo filogeneticamente come ci ha spiegato l’archeologo Ian Hodder, non nascondendosi le implicazioni di questa co-evoluzione che è anche una co-dipendenza (Hodder, 2012, p. 15 ss.):

Definisco l’entanglement come la somma di quattro tipi di relazioni tra umani e cose: gli umani dipendono dalle cose (UC), le cose dipendono da altre cose (CC), le cose dipendono dagli umani (CU), gli umani dipendono dagli umani (UU). Quindi entanglement = (UC) + (CC) + (CU) + (UU). In questa definizione si accetta che gli esseri umani e le cose siano prodotti relazionalmente. Ma l’attenzione alla dipendenza piuttosto che alla relazionalità attira l’attenzione sui modi in cui gli esseri umani rimangono intrappolati nelle loro relazioni con le cose. Gli umani vengono presi in un doppio legame, dipendendo da cose che dipendono dagli umani. È utile distinguere due forme di dipendenza. Il primo e più generale focus sulla dipendenza riconosce che l’uso umano delle cose è abilitante. L’uso umano delle cose permette all’uomo di essere, vivere, socializzare, mangiare, pensare. Uso il termine dipendenza nel senso di “affidarsi a”. Ma la dipendenza porta spesso anche a un secondo punto focale: l’essere dipendenti implica una qualche forma di vincolo, come si vede in varie teorie sull’essere dipendenti e sulla co-dipendenza, dalla Teoria dei Sistemi del Mondo alla psicologia. Gli esseri umani sono coinvolti in varie dipendenze che limitano le loro capacità di sviluppo, come società o come individui. La dipendenza e l’essere dipendenti creano una lotta dialettica all’interno dell’entanglement (Hodder 2014, p. 19 ss.).

È questa consapevolezza che ci ha fatto intravvedere la pericolosità di cose che chiamiamo media e anche i rischi ecologici che i media implicano. Ma questa inter-dipendenza non è un fenomeno che possiamo esorcizzare – se non nell’immaginario – o eliminare del tutto, semplicemente perché l’entanglement è anche ciò che ci “abilita” alla vita e all’evoluzione. In questo Hodder si avvicina alla riflessione di Heidegger che vede nella tecnica una forma dell’inveramento dell’umano, non limitata per altro all’epoca dell’immagine del mondo, ma costitutiva del determinarsi storico dell’esserci, dell’uomo (Agnello 2023, p. 120).

L’epistemologa femminista Karen Barad ci ha spiegato che senza questa co-evoluzione non potremmo neanche esistere come Homo Sapiens, né come soggetti:

Essere entangled non significa semplicemente essere intrecciati con un altro, come nell’unione di entità separate, ma mancare di un’esistenza indipendente e autosufficiente. L’esistenza non è una questione individuale. Gli individui non preesistono alle loro interazioni; piuttosto, gli individui emergono attraverso e come parte del loro intricato intra-relazionarsi. Il che non vuol dire che l’emergenza avvenga una volta per tutte, come un evento o un processo che si svolge secondo una qualche misura esterna di spazio e di tempo, ma piuttosto che il tempo e lo spazio, come la materia e il significato, vengono all’esistenza, vengono iterativamente riconfigurati attraverso ogni intra-azione, rendendo così impossibile differenziare in senso assoluto tra creazione e rinnovamento, inizio e ritorno, continuità e discontinuità, qua e là, passato e futuro (Barad 2007, p. IX, corsivi miei).

Ian Hodder ha più volte sottolineato che non potremo smettere di produrre cose che ci stringono in un universo di relazioni, perché “come umani siamo implicati in una danza con le cose che non può essere fermata poiché siamo umani solo attraverso le cose” (Hodder 2014, p. 34). Tuttavia oggi va presa in considerazione la possibilità che si possa cambiare la nostra “naturale” propensione a risolvere i problemi che le cose ci procurano producendo altre cose. L’illusione che la crisi ecologica possa essere risolta inventando nuove “cose”, cioè nuove tecnologie, rischia di rivelarsi esiziale. Proprio la dimensione planetaria delle nostre strategie di contenimento – ammesso che si faccia sul serio – potrebbe avere come effetto, come sappiamo almeno sin dai tempi del dibattito sull’energia nucleare, un’estinzione di massa che per altro non sarebbe una novità e difficilmente comprometterebbe (tutta) la vita sul pianeta.

Il compito di una teoria della nicchia ecomediale, non è certamente quello di intervenire sui massimi sistemi, ma semmai di correggere alcune presunzioni che sono tipiche della nostra filosofia della tecnica e del nostro agire sociale. Atteso che quando parliamo di media non parliamo affatto delle magnifiche sorti e progressive dell’Homo faber e che possiamo, anzi dobbiamo soffermarci su forme di mediazione che siano nel contempo forme di negoziazione tra le diverse componenti del pianeta, ciò che ho proposto con questa ricostruzione genealogica della transizione da un’ecologia dei media a una teoria della nicchia ecomediale, si lascia riassumere in poche frasi.

In prima istanza i tratta di avere uno sguardo bioculturale che sappia introiettare l’idea di un tempo profondo dei media e della mediazione che coinvolge anche tempi non-umani. A questo ci ha allenato a dire il vero una disciplina apparentemente “storica” come l’archeologia dei media che certo si è interrogata sui media che si sono succeduti nella storia, soprattutto moderna, e che hanno, altrettanto certamente, determinato la più ampia storia sociale e culturale. Tuttavia proprio l’archeologia dei media ci ha insegnato che la storia dei media è solo un’illusione, almeno se la si considera ingenuamente come una storia teleologica di progressi unidirezionali e cumulativi. Ci si è dovuti invece rendere conto che l’archeologia dei media non poteva occuparsi solo di “rovine” casualmente recuperate nei sotterranei e nelle caverne delle civiltà, ma anche di “fossili” che, proprio in quanto tali, ci rivelano origini e traiettorie immemoriali e non antropocentriche che determinano ancora oggi la vita sul pianeta.

Jussi Parikka, maestro indiscusso dell’archeologia dei media, ha opportunamente scritto:

L’archeologia dei media è un termine per l’ampio campo in cui le rovine rimangono in prima linea, turbando l’urgenza del presunto nuovo con i molteplici altri tempi che ancora persistono: il tempo del vecchio, dell’obsoleto, della dissolvenza, del lento emergere, del parallelo, del ritorno, del tempo profondo, del tempo che non è riducibile a una storia lineare. Così tanti tempi (Parikka 2018, p. 10).

Si tratta insomma di studiare il tempo delle sopravvivenze, delle asincronie che ci fanno comprendere che siamo solo gli epifenomeni di una storia più grande, più profonda appunto, quando ancora non ci eravamo costituiti come Homo sapiens. Questo fa sì che il soggetto, se mai sarà possibile definirlo ancora così, è solo il precipitato, o meglio, il sedimentato di una storia che ci comprende ma che proprio per questo travalica i confini tra l’umano e il non-umano, tra l’organico e l’inerte, tra il bíos e la zoe.

Se questo è valido per l’evoluzione del pianeta in generale e ancor più valido per la storia dei media che è quella che ci interessa in questa sede. Gli autori che ho chiamato a raccolta hanno descritto con le loro opere proprio questa sopravvivenza che è cosa ben diversa dalla dissolvenza o dalla vaporizzazione. Semmai sono stati in grado di farci scoprire questi tempi multipli che coesistono in tutto ciò che abita il pianeta, e dunque anche i media, almeno quelli che l’archeologia dei media ci ha abituato a individuare. Tuttavia il percorso, proprio per la sua dimensione spaziale e temporale ha finito per mettere in gioco questioni più ampie.

Quando Hans Belting, in un saggio fondamentale e precoce anche rispetto ai successi dell’archeologia dei media, metteva in relazione medium e immagine attraverso il corpo umano, di fatto apriva la strada per la svolta ecomediale. In quel celebre saggio Belting scriveva:

Immagine e medium sono entrambi legati al corpo, che deve essere considerato come un vero e proprio terzo parametro. Il corpo è rimasto sempre lo stesso e, proprio per questa ragione, è stato soggetto a un costante cambiamento sia nel modo in cui lo si pensa sia nel modo in cui esso si percepisce… I corpi sono profondamente modellati dalla loro storia culturale e perciò non hanno mai smesso di essere esposti alla mediazione per mezzo del loro ambiente visivo… Ma i corpi sono più che semplici recipienti passivi di quei media visivi che li plasmano. La loro attività è necessaria per utilizzare questi stessi media visivi. La percezione da sola non spiega l’interazione tra corpo e medium che ha luogo nella trasmissione delle immagini. Le immagini… accadono o sono negoziate, tra i corpi e i media. I corpi censurano il flusso delle immagini con la proiezione, la memoria, l’attenzione o l’oblio. I corpi privati o individuali agiscono anche come corpi pubblici o collettivi in una data società. I nostri corpi esprimono sempre un’identità collettiva… I corpi che rappresentano sono quelli che esibiscono se stessi, mentre i corpi rappresentati sono immagini indipendendti e separate che raffigurano dei corpi. I corpi esibiscono delle immagini… tanto quanto essi percepiscono delle immagini dall’esterno. In questo doppio senso, essi sono media viventi che oltrepassano le capacità dei loro media aventi funzioni di protesi artificiali (Belting 2009, p. 85 ss.)

A rileggere oggi questa pagine non si può non pensare che Belting concepisse i corpi e i media come dispositivi in cui appunto accadono e sono negoziate immagini (ma proprio Belting avrebbe da lì a poco concentrato il suo sguardo anche sugli sguardi). Ed è certamente significativo che, riferendosi proprio a McLuhan, Belting insista sul fatto che corpi e media tendono a occultarsi fino a quando altri corpi e altri media non ne svelano la consistenza: “un medium diventa oggetto di attenzione solo dopo che è stato sostituito da un medium più recente, che retrospettivamente ne svela la vera natura… I media attuali dissimulano la loro vera strategia dietro una loro apparente immediatezza” (p. 90).

Avere riscoperto la relazione tra corpo e medium ha di fatto costretto la teoria ad allargare i propri ambiti di ricerca in direzione delle scienze del bíos: la biologia, le scienze cognitive e l’ecologia.

Corpi e media intessono, negoziano relazioni e ogni teoria dei media è ipso facto un’indagine sugli ambienti che permettono queste relazioni. Il passo successivo non poteva che essere un’analisi dei mediascape nel senso indicato da Casetti, o, come nella critica femminista che deriva dalla caosmosi deleuziana, un’analisi del territorio ecomediale su cui avvengono le negoziazioni di cui parlava Belting e che non temono di confrontarsi con processi complessi al limite del caotico. Elisabeth Grosz ci viene in aiuto per determinare una relazione ampia fra tutte le componenti di una nicchia ecomediale che lei utilizza per una teoria della musica, ma che si lascia facilmente estendere ad altre forme di espressione dell’Homo sapiens:

Abbiamo già accennato alle relazioni tra le arti, le scienze, la filosofia e il caos: la nostra immersione nel caos e i vari tentativi che l’umanità ha intrapreso per organizzare, strutturare e mappare gli elementi di questo caos hanno portato solo di recente all’elaborazione e allo sviluppo di queste conoscenze e pratiche sociali. Più primitivamente, il caos si è articolato, attraverso l’elaborazione della vita, proprio nelle unità darwiniane che definiscono la variazione individuale (l’individuo vivente, le sottospecie variabili e le specie eterogenee) e la selezione naturale (l’ambiente, la nicchia ecologica, l’ambiente, un territorio). Tuttavia, come ci ha mostrato von Uexküll, le operazioni di elaborazione evolutiva implicano che l’organismo della variazione individuale contenga già in sé qualcosa della partitura o della risonanza che l’ambiente ha scelto di evidenziare ed eseguire attraverso questo organismo (Grosz 2018, p. 46).

È infatti chiaro che la nicchia ecomediale è lo spazio di queste risonanze che le varie componenti performano. E giustamente Casetti, come abbiamo visto, preferisce parlare di mediascaping.

Un ulteriore approfondimento è quello che ci ha proposto Jussi Parikka con la sua nozione di medianature che lui stesso riconduce al concetto di naturecultures di Donna Haraway (2003, p. 1 ss.). Parikka estende le nozioni di cartografia e di geografia fisica per così dire in profondità, cioè tenendo conto della sostanza minerale del pianeta:

Medianature intende incorporare una spinta simile (a quella delle naturecultures di Haraway, nda) ma con un’enfasi specifica sulla cultura dei media (tecnica). È un concetto che cristallizza il “doppio legame” di media e natura come sfere co-costituenti, dove i legami sono intensamente connessi in realtà materiali non-umane tanto quanto nelle relazioni di potere, economia e lavoro. In effetti, è un regime costituito tanto dal lavoro di microrganismi, dai componenti chimici, dai minerali e i metalli quanto dal lavoro di lavoratori sottopagati nelle miniere o nelle fabbriche di produzione di componenti per dispositivi di intrattenimento high-tech, o persone in Pakistan e Cina che sacrificano la loro salute con i rottami di componenti elettronici dismessi. Medianature è un concetto utile solo quando si riduce alle istanze specifiche di eventi discorsivi materiali (Parikka 2015, p. 14).

La microfisica dei media di Parikka potrebbe dare l’impressione di perdere di vista la complessità delle interazioni tra gli elementi della nicchia ecomediale, mentre invece proprio questo focus su elementi semplici come le terre rare, i metalli o la polvere ci ricorda che si tratta di fenomeni planetari, così come onnipervasiva è l’esistenza dei media elementali su cui ha attirato l’attenzione John Durham Peters quando parla dei quattro elementi: aria, acqua, terra e fuoco. L’istanza empedoclea non comporta, come sarebbe potuto facilmente accadere, uno spostamento verso un’opzione metafisica. Al contrario Peters ha indagato, come abbiamo visto, sulla consistenza e, appunto, pervasività mediale dei singoli elementi che, seguendo McLuhan e Belting, si disvela proprio nella relazione con un altro medium. Il mare e la nave sono stati gli esempi più evidenti.

L’ultimo inevitabile passaggio è quello introdotto da Richard Grusin che pone l’accento sulla relazione stessa e cioè sula mediazione. Del resto anche il mare e la nave di cui ci ha parlato Peters possono essere interpretati come esempi archetipici, o elementali, di ri-mediazione perché di fatto ogni imbarcazione non fa altro che sfruttare (cioè rimediare) i movimenti delle onde come fanno gli animali marini, dai cetacei ai calamari. Il mare e la nave sono esempi di quella ri-mediazione che permette a un medium più recente di disvelare l’esistenza del medium più antico. Gli esempi di Peters possono essere facilmente ricondotti al concetto di ri-mediazione che Grusin e Bolter hanno elaborato nel loro seminale primo lavoro. Il concetto di mediazione radicale apre uno scenario del tutto nuovo per l’ecologia dei dispositivi perché in un certo senso racchiude in un solo termine le tesi che abbiamo via via svolto in queste pagine e che adesso riassumo:

1) si tratta di spostare il focus dell’indazione mediologica dagli elementi alla relazione, all’atto del mediare, al processo – l’ing del becoming – enfatizzando la vocazione metamorfica di una teoria evolutiva dei media, ma riducendo al minimo, da un lato, le tentazioni antropomorfizzanti della mediologia e, dall’altro, anche le derive naturalistiche cui potrebbe esporci una teoria bioculturale dei media;

2) si tratta inoltre di studiare la complessità della nicchia ecomediale che va scomposta di volta in volta, tenendo conto degli elementi, ma anche delle affettività – come suggerisce Grusin – e, aggiungerei, anche degli aspetti performativi, rituali, quell’agentività che non a caso è oggi al centro degli studi di cultura visuale (Cometa 2021);

3) si tratta, infine, di estendere le temporalità dei media alla storia immemoriale che riguarda in prima istanza le scelte mediali dell’Homo sapiens nel Paleolitico, ma, risalendo all’indietro, anche le prime forme di vita sul pianeta. Opportunamente Peters ha scritto:

I media non sono solo tubi o canali. La teoria dei media ha qualcosa di ecologico ed esistenziale da dire. I media sono più delle istituzioni audiovisive e della stampa che si sforzano di riempire i nostri secondi vuoti con la programmazione e lo stimolo pubblicitario; sono la nostra condizione, il nostro destino e la nostra sfida. Senza mezzi non c’è vita. Siamo mediati dai nostri corpi; dalla nostra dipendenza dall’ossigeno; dall’antica storia della vita scritta in ciascuna delle nostre cellule; dalla postura eretta, dal legame di coppia sessuale e dall’addomesticamento del fuoco; dalla lingua, dalla scrittura e dalla lavorazione dei metalli; dall’agricoltura e dall’addomesticamento di piante e animali; dalla creazione di calendari e dall’astronomia; dalla stampa, dalla rivoluzione verde e da Internet. Non siamo solo circondati dai manufatti ricchi di storia dell’intelligenza applicata; anche noi siamo tali artefatti. La cultura fa parte della nostra storia naturale (Peters 2015, p. 52. Corsivi miei).

Insomma il dato che mi preme sottolineare in chiusura è che forse dobbiamo abituarci a rivedere la nostra storia come parte di una storia più grande. Il che ci indurrebbe, probabilmente, a un rispetto per quell’initerrotta catena dell’essere di cui facciamo parte nel quadro di un’interpretazione bioculturale di ciò che abita il pianeta. Come ci ha ricordato Grusin, citando un profetico Charles Sanders Peirce, la mediazione esisteva ed esisterebbe sul pianeta anche solo perché un girasole si rivolge al sole e trasmette questo suo comportamento ai suoi discendenti.

Un’immagine ci tiene prigionieri: ed è, sicuramente, un’immagine ecologica.



© Michele Cometa, La svolta ecomediale, Meltemi 2024