La produzione della devianza
Alessandro Dal Lago

23.07.2022

Il testo che segue è tratto dalla Prefazione scritta da Alessandro Dal Lago per l’edizione del 2000 de La produzione della devianza e riedito da Ombrecorte; la sua pubblicazione su Tropico del Cancro  ci permette di ricordare l'importante figura di Alessandro Dal Lago.


1. Il saggio qui presentato è stato scritto vent’anni fa. I due decenni trascorsi dalla pubblicazione ne mettono facilmente in evidenza i difetti, tra cui le lacune bibliografiche, uno stile spesso faticoso e, come vedremo, qualche semplificazione di troppo. Perché allora ripubblicarlo, accogliendo la gentile proposta dell’editore? Perché non ho cambiato sostanzialmente idea sul tema trattato, mi riconosco nell’intenzione metateorica (politica, se vogliamo) da cui questo testo è nato e quindi ne ritengo ancora valido l’impianto. In altre parole, sono convinto, oggi come ieri, che i discorsi sociologici (e criminologici) sulla devianza non debbano essere trattati tanto come ipotesi scientifiche su certi aspetti della realtà sociale, quanto e soprattutto come dispositivi che costituiscono il proprio oggetto in base a strategie che hanno a che fare con il potere1. Un’idea tipicamente foucaultiana, che rivendico proprio in un momento in cui ben pochi parlano di potere e soprattutto tentano di riprendere le analisi storico-politiche di Foucault2.

Torniamo brevemente all’epoca in cui questo saggio è stato pubblicato, vent’anni fa. Il tema del potere era centrale nei dibattiti filosofici e politici. A partire dalla metà degli anni sessanta, in Italia come nel resto del mondo sviluppato, una conflittualità diffusa aveva investito sia le forme tradizionali e consolidate di potere politico ed economico sia diverse articolazioni degli apparati di produzione e riproduzione della società (la scuola, la medicina, la psichiatria, i sistemi repressivi, l’organizzazione della cultura). Sulla scia dei movimenti di opposizione degli anni Sessanta e Settanta, non c’era aspetto della vita sociale che non fosse sottoposto a interrogazioni radicali. Benché i tentativi allora prevalenti di ricondurre la pluralità dei conflitti a una matrice unitaria risultino oggi discutibili, è indubbio che fossero all’opera forme ed espressioni originali di “soggettività” (come si diceva allora). Il loro tratto comune era sia la riappropriazione (del reddito, del tempo, della vita), sia il rifiuto diffuso del controllo istituzionale, nelle fabbriche, nelle scuole, nella produzione culturale.

Di fronte a questa effervescenza, le teorie politico-sociali disponibili erano palesemente inadeguate. Le versioni prevalenti del marxismo (che a quell’epoca costituiva ancora il quadro di riferimento principale del dibattito teorico3) non riuscivano a dare conto di una evoluzione dei conflitti che sfuggiva alla tradizionale determinazione di classe. Ma lo stesso si poteva dire delle teorie accademiche, soprattutto sociologiche, del conflitto. Debitrici anch’esse, in qualche misura, di una versione semplificata del marxismo, applicavano ai nuovi conflitti categorie tipiche di una società industriale che cominciava già a deperire. Se si rileggono oggi le opere di Dahrendorf, Gouldner, Touraine, Adorno o Habermas dedicate al conflitto si può avvertirne sia il conservatorismo di fondo sia la riluttanza a prendere sul serio conflitti i cui protagonisti non erano più (o soltanto) i lavoratori dell’industria, ma personaggi sfuggenti e poco raccomandabili come studenti, femministe, giovani immigrati, militanti di base, carcerati o devianti4.

Non è questo il luogo per stabilire se tali conflitti (e in particolare, almeno in Italia, il movimento del ’77) siano stati l’apice di un sommovimento profondo (che si sarebbe comunque concluso, con un generale arretramento, nella palude degli anni Ottanta), oppure una forma marginale di resistenza contro l’evoluzione in senso neo-capitalistico e post-industriale della società. Resta il fatto che essi, con il loro retroterra sociale, quotidiano, di forme di vita in qualche modo estranee all’indirizzo prevalente della società e della politica, costringevano il potere o i poteri a rivedere strategie, tattiche e forme di legittimazione. Mentre lo spazio politico si chiudeva (penso alla sostanziale liquidazione della sinistra non istituzionale già alla fine degli anni Settanta)5, quello sociale tentava di rimodellarsi secondo linee di moderato riformismo più vicino all’evoluzione delle società europee avanzate.

Ancora all’inizio degli anni Settanta le istituzioni della società italiana mostravano zone di arretratezza o di pre-modernità impressionanti. Un paese in cui aborto e divorzio erano proibiti, in cui i tentativi di sovvertimento autoritario erano all’ordine del giorno, in cui fabbriche, scuole, università, ospedali, carceri, manicomi erano gestiti spesso in modo ottocentesco non poteva accogliere la sfida di uno sviluppo economico a cui gli apparati sociali e istituzionali del dopoguerra stavano già stretti. Così, se lo spazio di una vera opposizione politica diventava pressoché nullo, si avviavano limitate strategie di modernizzazione e di prevenzione della conflittualità. Nella fase in cui il capitalismo italiano si trasformava, lo stato sociale celebrava il suo trionfo apparente ed effimero. Mentre l’innovazione cominciava a mettere in crisi i modelli di gestione del conflitto nella grande industria (avviando la decadenza delle rappresentanze sindacali che avevano cogestito i momenti di crisi sociale più acuta), la società italiana sembrava avviata a un futuro scandinavo, come si diceva allora, a forme di partecipazione politica più avanzata e di estensione delle garanzie sociali.

Nulla di tutto questo si è avverato. Il welfare state entrava in crisi nello stesso momento in cui la sinistra moderata, che in realtà aveva sempre partecipato in modo più o meno occulto alla gestione del potere6, si illudeva di avere vinto. A una limitata modernizzazione delle istituzioni corrispondeva, già all’inizio degli anni 80, una tendenza diffusa al liberismo in economia e all’autoritarismo democratico in politica. Con il crollo del muro di Berlino e l’apparente liquidazione della prima repubblica, questo processo, che d’altra parte si allineava alle tendenze prevalenti in tutto il mondo sviluppato, diveniva travolgente. La società italiana contemporanea è sicuramente più ricca e al tempo stesso più autoritaria di quella di vent’anni fa. Alla produzione normativa (più che altro innocua) nel campo dei “diritti”, delle “pari opportunità”, della “sicurezza”, ecc. corrispondono un disinteresse generalizzato per lo statuto reale del lavoro, soprattutto atipico e nella piccola impresa, una vera e propria restaurazione in campo penale7, l’abbandono di qualsiasi vero programma di umanizzazione delle prigioni e una politica migratoria sostanzialmente punitiva e repressiva8. Ma, su tutto ciò, avremo modo di tornare alla fine di queste pagine.

2. In breve, l’inizio degli anni Ottanta aveva alle spalle una sconfitta radicale della sinistra (le cui conseguenze si avvertono ancora oggi) in un contesto più che altro apparente di modernizzazione. È in questo quadro che si colloca esattamente il saggio qui ripubblicato. Dal mio punto di vista, si trattava di comprendere quali strategie fossero all’opera nella definizione delle nuove forme di controllo sociale, di gestione non meramente repressiva dell’ordine, con lo sguardo rivolto soprattutto alle democrazie più avanzate e moderne. Perché occuparsi di questo problema dal punto di vista tutto sommato marginale della “devianza”? Per almeno due ragioni, che ancora oggi mi sembrano buone. La prima era la spinta, innescata dai lavori teorici e storici di Michel Foucault, a studiare il funzionamento del potere in termini di “microfisica”9, cioè al livello del funzionamento concreto delle pratiche istituzionali. La seconda era costituita dall’interesse per il ruolo dei “sistemi di pensiero” (anche quelli apparentemente più specializzati e secondari) nella costituzione del mondo sociale e nella gestione dei suoi conflitti10. Verso la fine degli anni Settanta, circolava, nelle scienze umane e sociali, una salutare aria anti-positivistica, che si alimentava a diverse correnti di pensiero: dal metodo genealogico di Foucault alla svolta interpretativa in antropologia e alla nuova sociologia della scienza, dalla sociologia fenomenologica alla riscoperta del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche, con il suo interesse per le pratiche linguistiche e cognitive naturali e quotidiane11. In breve, mi sembrava interessante rileggere, alla luce di queste tendenze di ricerca e nel quadro di una trasformazione evidente della società italiana (e non solo), il capitolo apparentemente secondario delle scienze sociali dedicato alla devianza, alla sua prevenzione e alla sua repressione.

In realtà, lavorando su questo capitolo, balzava subito agli occhi come la sua rilevanza fosse ben più ampia dello spazio che gli era riservato dalla manualistica sociologica. Come la ricerca storica aveva messo in luce, tutto il xix secolo è ossessionato dal crimine, dal disordine urbano e dal contenimento delle “classi pericolose”12. D’altra parte, è difficile credere che il programma scientifico della sociologia si sarebbe affermato, in modo più o meno effimero, tra xix e xx secolo, senza l’ossessione per l’ordine microfisico, per il controllo dei conflitti, per la prevenzione di quello che Victor Hugo ha chiamato un “colpo di stato dal basso”, la perenne minaccia dell’ordine sociale da parte del mondo del crimine. Ora, spostando la prospettiva dall’interno all’esterno delle scienze sociali – assumendo cioè uno sguardo neutrale o indifferente rispetto alle loro preoccupazioni fondative (ciò che in fondo Foucault realizzava con le sue proposte epistemologiche più innovative, l’archeologia e la genealogia) – veniva alla luce la sostanza “mitologica” sia della metodologia delle nuove scienze sociali, sia e soprattutto delle loro ossessioni per l’ordine. Con mitologia non si deve intendere qualcosa di simile all’ideologia o alla “falsa coscienza” (come se potesse esistere una coscienza “vera” degli stessi problemi), quanto una costruzione normativa, in modo analogo al ruolo che le narrazioni mitologiche svolgono nelle grandi religioni.

Siamo naturalmente in una dimensione infinitamente meno suggestiva dei miti religiosi millenari. In ogni modo, un’analisi dello sviluppo dei sistemi classici di pensiero sociale (e non parlo degli idéologues o di Saint-Simon, ma di Comte, Le Play, Spencer e in fondo di Durkheim) poteva mostrare come l’ordine e il disordine che essi dicevano o pensavano di descrivere era in realtà qualcosa che costruivano, utilizzando certamente materiali empirici (o che ritenevano tali) ma rimodellandoli in narrazioni la cui metafora principale era politico-morale e non scientifica13. Ciò risulta evidentissimo nella teoria sociale francese, influenzata dal socialismo utopistico, ma non è estraneo ad altre tradizioni di pensiero (basterà citare, anche se su un versante diverso, Lorenz von Stein)14. Tutto questo in fondo è noto. Lavorando però sulle teorie microfisiche dell’ordine appariva come la sociologia vera e propria, quella che si pretendeva scientifica, trascinasse con sé lo stesso bagaglio mitologico dei fondatori. Che cos’è se non mitologia il “sistema di valori condivisi” di Parsons e, in generale dei funzionalisti (le “mete culturali” di R.K. Merton), oppure l’“autoregolazione dei sistemi sociali” o anche la “comunicazione ideale” con cui Habermas ha cercato, senza grande successo, a dire il vero, di chiudere una volta per tutte il discorso sociologico?

C’è sempre qualcosa di religioso, anche se secolarizzato e travestito con la terminologia del momento (organicista, cognitivista, comunicativa) in tutti questi tentativi di dotare di un centro morale o di un cuore quella strana e sfuggente realtà chiamata società15. Lavorando sullo sviluppo delle teorie della devianza nel nostro secolo, si può scoprire come l’ossessione sociologica per una sorta di religione sociale abbia avuto, tra gli altri scopi, la traduzione delle “deviazioni” da un comportamento standard – ovvero le forme empiriche di disordine – in “problemi” della personalità, della socializzazione o dell’educazione. In altri termini, la sociologia, alla pari di qualsiasi altro sistema di credenze secolarizzato, è una sorta di narrazione morale che tuttavia, a differenza dei sistemi di pensiero ottocenteschi, si spinge fino a precisare nei minimi dettagli il proprio catechismo16.

Nel mio saggio ho cercato di documentare, dai primordi nel xix secolo fino a oggi, questa vocazione morale (o moralistica) della teoria sociale. Al di sotto del gergo scientifico si scopre facilmente la preoccupazione, politico-morale più che scientifica, di fissare il confine tra ciò che è socialmente lecito e ciò che non lo è. Ma, a differenza della morale dei filosofi, che dopotutto hanno tentato di definire significati come “giustizia”, “equità”, ecc., quella sociologica non è mai riuscita a definire gli standard del normale o del lecito (se si prescinde da teorie che oggi suonano abbastanza bizzarre come l’“uomo medio” di Quételet). La normalità è qualcosa che la teoria sociale ha sempre presupposto senza però chiarirne i contenuti e gli ambiti. Al suo posto, ha perseguito piuttosto la “conoscenza” dell’anormalità, nelle sue varie forme empiriche (anomia, devianza, disorganizzazione, crimine, conflitti). Ovviamente, il socialmente lecito non poteva essere fatto coincidere con la “legalità”, se non altro perché le scienze sociali sapevano bene che legale e illegale sono concetti strettamente dipendenti dalle definizioni dei sistemi normativi concreti (quelli giuridici), che a loro volta sono il prodotto di deliberazioni, negoziazioni e processi tipicamente sociali. Con l’eccezione di Durkheim17, la sociologia classica ha eluso perciò il problema, o meglio l’ha dislocato, concentrandosi sulla spiegazione delle trasgressioni, delle deviazioni dall’ordine.

Non è difficile accorgersi che c’è qualcosa di tautologico in questo modo di procedere. Se la normalità non è definita esplicitamente – e non potrebbe esserlo, perché allora il senso ideologico o apologetico dell’operazione sarebbe scoperto, poco scientifico – con che diritto si qualificano come devianti un gran numero di comportamenti empirici? Con nessuno, a meno di non riconoscere che in questo caso non si fa scienza, non si scopre qualcosa, ma lo si costruisce, lo si inventa. Ecco, in poche parole, la produzione della devianza.

Scorrendo la letteratura sociologica che va, grosso modo, dagli anni Trenta alla fine del secolo xx, si trova che, volta per volta, sono stati (e sono) considerati casi empirici di devianza (al di fuori dei crimini più gravi come rapina, omicidio, stupro, spaccio di droga, ecc.): la prostituzione, ma anche il lavoro delle entrâineuses nelle taxi-dance halls o, più recentemente, in locali notturni o discoteche, il vagabondaggio e un gran numero di stili di vita marginali, i vari gradi di alcolismo e il consumo di droghe leggere, l’appartenenza a culture o sottoculture giovanili, l’accattonaggio, l’evasione dell’obbligo scolastico, innumerevoli forme di protesta urbana, le cosiddette malattie mentali e in generale i “disturbi del comportamento”. Alcuni teorici fanno rientrare nella devianza anche la non conformità alla cultura aziendale sul luogo di lavoro, dal “ritualismo” al rifiuto del lavoro o al sabotaggio passivo. Più recentemente viene fatta rientrare nella devianza anche quella che i francesi chiamano l’incivilité, che potremmo tradurre come “comportamento socialmente molesto” (dagli schiamazzi all’ubriachezza o all’urinare in pubblico). In pratica non c’è comportamento per così dire non conforme (o non conformista) che non possa essere arruolato nella devianza e quindi “spiegato” con qualche modello eziologico (in termini sociali, beninteso).

Si comprende pertanto che il modello implicito e mai dichiarato di “conformità” (nella teoria struttural-funzionalista, che ha dominato la scena sociologica per gran parte del xx secolo) ad altro non rimanda che all’“uomo in grigio”, l’abitante dei suburbs. Costui infatti è definito precisamente dal non cadere nella tentazione o nella pratica dei comportamenti devianti citati sopra. Non credo che sia necessario grande acume sociologico per scoprire che il cittadino conforme è quello che non partecipa ad alcun tipo di conflitto, non si mescola a culture marginali, alternative o antagoniste, non soffre di problemi personali, mentali o di comportamento, è insomma definito in tutto e per tutto da quello stile di vita che un certo cinema americano ha diffuso con successo fino all’avvento del fatale ’68 (di qua e di là dall’Oceano Atlantico). Un personaggio altrettanto irreale del protagonista di Truman Show. Con la differenza che questo, insieme al suo spensierato mondo di favola, è l’esplicito risultato di una fabrication televisiva mentre l’attore conforme di Parsons (e in generale delle teorie della devianza e del controllo sociale) è un pallido profilo o tutt’al più l’immagine idealizzata che le mamme americane, prima della guerra del Vietnam, potevano accarezzare per i loro figli.

Tutto ciò è stato spazzato via, in America come in Europa, dai conflitti dagli anni Sessanta. La stessa sociologia americana (in un clima di radicalismo teorico di cui oggi sono rimaste poche tracce) ha decostruito l’immagine del controllo sociale e della devianza che la teoria sociale aveva elaborato scolasticamente. Senza essere esplicitamente politicizzati, un gran numero di teorici e ricercatori sovvertivano gli stessi presupposti della teoria sociale conservatrice. In poche parole, cercavano di rimettere con i piedi per terra la sociologia, ripartendo, anche loro, dalle pratiche quotidiane, lavorando come etnografi delle istituzioni giudiziarie e del controllo sociale, mostrando l’inconsistenza di quei valori o “orientamenti normativi” che la sociologia aveva fin lì messo alla base di qualsiasi analisi dell’ordine e del disordine. Da un gran numero di ricerche risultava, in breve, che era un certo ordine a produrre il disordine, il controllo sociale (come già aveva compreso Durkheim, nonostante tutto) a produrre la devianza.

Non che questa nuova sociologia negasse l’esistenza o l’esigenza di un ordine sociale (come appare per esempio da recenti interpretazioni di alcuni sociologi divenuti classici come Goffman)18. Ma i meccanismi di gestione dell’ordine erano smontati fino a mostrare come, in ultima analisi, fosse l’etichettamento (labelling) di certi comportamenti a creare la devianza. Non necessariamente intenzionale, ma effetto del funzionamento quotidiano, normale, degli apparati amministrativi e di controllo (scuole, tribunali, ospedali, prigioni) e dell’azione degli “esperti” (psichiatri, avvocati, giudici, assistenti sociali, ecc.), l’etichettamento veniva definito come un processo circolare in cui alla fine il “deviante”, indipendentemente dalle sue reazioni, o adattamenti, personali (l’acquiescenza, la ribellione, il rifiuto, ecc.) era in tutto e per tutto il prodotto finale di un sistema di fabbricazione della realtà. Gli studi più importanti di questa tradizione di ricerca19 e di altre affini (di Sudnow sulla difesa d’ufficio, di Goffman sugli ospedali psichiatrici, di Becker sulla stigmatizzazione delle sottoculture, di Cicourel sulla giustizia minorile, di Schur sulle pratiche giudiziarie, di Scheff sulla carriera dei malati mentali, di J.D. Douglas sulla moralità quotidiana, e così via) mettevano in scena in altri termini una vera e propria microfisica del potere alternativa alle vacue manipolazioni concettuali della sociologia accademica.


1Diciamo che si tratta “anche” di ipotesi scientifiche. Sul concetto foucaultiano di dispositivo vedi ora Gilles Deleuze, Che cos’è un dispositivo, in Divenire molteplice. Nietzsche, Foucault ed altri intercessori, a cura di U. Fadini, ombre corte, Verona 1999, pp. 67 sgg.

2 Tra questi pochi vorrei ricordare Stefano Catucci, Introduzione a Foucault, Laterza, Roma-Bari 2000.

3 Nei primi anni Ottanta si assisterà a uno spettacolare abbandono, da parte di un gran numero di intellettuali di spicco, della terminologia marxista a favore di quella liberale (e, in una minoranza, teologico-politica). Solo un lavoro storico specifico potrebbe documentare le ragioni profonde (non sempre nobili e disinteressate) di questo cambiamento. Mi limito solo a notare che il dogmatismo con cui molti ripetevano la lezione marxiana venti o venticinque anni fa si ritrova facilmente nella nuova doxa liberale.

4C’è naturalmente qualche eccezione, anche in Italia, benché l’interesse sociologico si sia rivolto soprattutto alle espressioni culturali e artistiche dei nuovi movimenti più che a quelle politiche. All’atteggiamento di sufficienza con cui la sociologia accademica ha trattato i movimenti non istituzionali e i loro protagonisti si può contrapporre l’opera di un ricercatore atipico come Danilo Montaldi. Oltre ai suoi classici Autobiografie della leggera, Einaudi, Torino 1972 (seconda ed.), e Militanti politici di base, Einaudi, Torino 1971, si veda ora Bisogna sognare. Scritti 1952-1974, Cooperativa Colibrì, Milano 1994.

5 Su questo passaggio si vedano ora le osservazioni di Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, trad. it. di S. Perini e M. Flores, Einaudi, Torino 1998.

6 Si veda, su questo punto, la riflessione di Alessandro Pizzorno in Le radici della politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli, Milano 1994.

7 Nel momento in cui termino queste note (luglio 2000), la stampa ha diffuso due sentenze esemplari comminate a Bologna ad alcuni immigrati. Due sono stati condannati a 15 anni di prigione per aver spacciato 1 grammo di eroina e altri due a 14 mesi per rissa.

8 Per chi considerasse eccessivi questi giudizi conviene ricordare che gli osservatori internazionali sul rispetto dei diritti umani (che ricorrono a indicatori come la durata dei processi penali, i processi per reati d’opinione, situazione delle carceri, ecc.) pongono l’Italia all’ultimo posto nella classifica dei paesi Ocse, cioè sviluppati. E questo dopo un decennio circa di governi di centrosinistra, con la breve parentesi del governo Berlusconi. Sulle politiche migratorie nell’Italia dell’ultimo decennio, e soprattutto sulla stigmatizzazione dei migranti, cfr. Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano 1999.

9 Michel Foucault, Microfisica del potere, a cura di A. Fontana e P.Pasquino, Einaudi, Torino 1977. Cfr. anche Id., Dits et écrits, Gallimard, Paris 1994, 4 voll. Gli scritti di Foucault degli anni Settanta, cruciali per la comprensione della “microfisica”, sono ora tradotti, a mia cura, in Archivio Foucault, Vol. II: Poteri, saperi, strategie, Feltrinelli, Milano 1996.

10Anche in questo caso, l’insegnamento di Michel Foucault era fondamentale. Cfr. il suo Le parole e le cose, trad. it. di E.A. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1966.

11 Si potrebbero unificare queste scuole o correnti di pensiero con l’etichetta, un po’ riduttiva ma non falsificante, di “costruttivismo”. Alle pratiche di costruzione della realtà tipiche del mondo sociale corrisponde l’attività teorica ed empirica nelle scienze sociali come svelamento di tali pratiche e non come conoscenza “oggettiva”. Cfr. Malcolm Spector e John Kitsuse, Constructing social Problems, Chicago University Press, Chicago 1987. In sociologia, la corrente più radicale del costruzionismo è sicuramente l’etnometodologia (cfr. il classico H. Garfinkel, Studies in Ethnomethodology, Prentice-Hall, Englewood Cliffs (N.J.) 1967.

12 Basterà citare un classico della storiografia come Louis Chevalier, Classi laboriose e classi pericolose. Parigi nella rivoluzione industriale, trad. it. di S. Brilli Cattarini, Laterza, Bari 1976. Un’ossessione letteraria e giornalistica prima che “scientifica”, cioè sociologica e criminologica. Wolf Lepenies, Le tre culture. Sociologia tra letteratura e scienza, trad. it. di G. Panzieri, il Mulino, Bologna 1987, ha messo in luce lo scambio reciproco tra immaginario letterario e immaginario sociologico nel xix secolo.

13 Credo che gli sviluppi contemporanei delle scienze sociali abbiano ampiamente confermato questa tendenza fondativa. Certamente, le scienze sociali hanno sviluppato raffinati metodi empirici, qualitativi e quantitativi, e possono vantare oggi un patrimonio di conoscenze tecniche e “neutrali” imponente. Quando però tentano di formulare ipotesi teoriche generali, non rinunciano alla loro vocazione politico-morale. Si pensi al ruolo di teorici come Giddens, Habermas, ecc.

14 Per ragioni che qui sarebbe troppo lungo discutere, il solo Weber, tra i cosiddetti padri fondatori delle scienze sociali non rientra in questo modello. Ma cfr. il mio L’ordine infranto. Max Weber e i limiti del razionalismo, Unicopli, Milano 1983.

15 C’è quasi sempre un movimento tautologico nella pretesa della teoria sociale di stabilire un sistema normativo capace di regolare, ai vari livelli, l’organizzazione sociale. Prima si presuppone l’esistenza di un sistema ideale, traendolo o dall’evoluzione della società così come si è espressa nella storia delle idee (Parsons) o dall’“evidenza” (Habermas), e poi gli si attribuisce la capacità effettiva, concreta, di regolazione. Da questo punto di vista, il passaggio a una teoria sistemica basata sul funzionamento delle procedure sociali e amministrative, come in Luhmann, è senz’altro un tentativo di uscire da questa storica impasse della sociologia.

16 È quasi superfluo aggiungere che questo vale anche per altri saperi, come la psicologia, la psicanalisi, la pedagogia e, in fondo, anche l’economia. Il gergo scientifico e il metodo più o meno formalizzato riescono a nascondere raramente la retorica morale che li sottende. Se non altro, la filosofia morale, che oggi sopravvive rigogliosamente nella produzione di lingua inglese, ha il merito di chiamare le cose con il loro nome.

17 Come vedremo più avanti, Durkheim è il solo sociologo classico ad aver compreso – grazie alla sua sensibilità antropologica, probabilmente – le funzioni rituali del reato e della sua punizione, della devianza e della sua stigmatizzazione. Per alcune considerazioni sull’attualità delle sue posizioni, cfr. il mio La tautologia della paura, in “Rassegna italiana di sociologia”, 1, 1999.

18 Cfr. Pier Paolo Giglioli, Presentazione a Erving Goffman, L’ordine dell’interazione, trad. it. a cura di P.P. Giglioli, Armando, Roma 1997.

19 Per un’utile presentazione di queste tendenze, limitata comunque alla sociologia criminale, cfr. Stephen Hester e Peter Englin, Sociologia del crimine, trad. it. a cura di M. Strazzeri, Pietro Manni, Lecce 1999. Per avere un’idea del significato metodologico delle ricerche in questione, dei loro antecedenti e delle correnti affini è ancora utile Margherita Ciacci (a cura di), Interazionismo simbolico, il Mulino, Bologna 1983: cfr. anche Alessandro Dal Lago e Pier Paolo Giglioli (a cura di), Etnometodologia, il Mulino, Bologna 1983. La migliore introduzione ai metodi “naturalistici” in questo campo di ricerca resta David Matza, Come si diventa devianti, trad. it. di M. Petacchi, il Mulino, Bologna 1969. Molto meno incisivo Antthony Giddens, Le nuove regole del metodo sociologico, trad. it. di M. Baldini, il Mulino, Bologna 1976.


©Alessandro Dal Lago, La produzione della devianza, Ombrecorte 2022