La condizione postuma
Roberto Ciccarelli

1106.2022

Il testo che segue è estratto dal volume di Roberto Ciccarelli, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista (DeriveApprodi): https://deriveapprodi.com/libro/una-vita-liberata/


La condizione postuma in cui viviamo è l’esito di un conflitto tra la visione retrospettiva dell’apocalisse e quella prospettica della liberazione. È il risultato delle prassi e delle mentalità di un’apocalisse culturale, quella di un modello di vita che incastra la vita nello spettro del Capitale. Ma i pensieri e le azioni che rispondono a un determinato assetto dei poteri, dei linguaggi e delle relazioni possono essere rovesciati nella prospettiva di una vita liberata


I sopravvissuti alla fine della storia restano in attesa della fine del mondo. Sono nati nell'incredulità per i nuovi inizi e vivono nella convinzione di essere postumi. Postumo per loro è il tempo che resta prima della fine di tutte le fini, è il resto di un niente che avanza mentre attendono l’estinzione della vita. Il brutale nichilismo di questa tesi è l’esito di un’escatologia della storia coltivata da quando è stata presa l’abitudine di dichiarare la fine di tutto, tranne che del capitalismo. Non potendo batterlo sul terreno politico ed economico i postumi hanno affidato all’apocalisse la speranza di mettere fine all’oppressione. Se un giorno non esisterà più un mondo fatto di esseri umani e viventi, allora finirà anche il sistema che li sfrutta. Nell’attesa dell’apocalisse il mondo continuerà ad essere distrutto senza incontrare una significativa opposizione. Il capitalismo che agisce nell’apocalisse, e la rende verosimile agli occhi di chi la profetizza, possiede una straordinaria capacità di adattarsi a condizioni disumane. Ai subalterni, alle vittime, ai vulnerabili tocca solo sopravvivere. L’inquietudine dei gesti e delle resistenze non riesce a scuotere la ripetizione necrotizzante di una morte anticipata. Sembra essere più facile correre verso l’apocalisse che far fiorire la capacità di sentire, percepire, comprendere e immergersi in altri modi di essere vivi insieme agli altri viventi. È più vero ciò che mortifica la vita rispetto a ciò che rende viva un’esistenza nella ricerca di una liberazione.

La «vera» vita sarebbe stata quella di «prima», noi invece vivremmo quella venuta dopo una fine. Per i postumi oggi non è più possibile svolgere «veri» lavori, avere «vere» famiglie, fare una «vera» politica, praticare la «vera» solidarietà, fare la «vera» rivoluzione. Questa prospettiva moralistica idealizza l’età dell’oro nel paese della (dis)Utopia e celebra una vita antecedente a ciò che avrebbe dovuto essere ma è fallita. Nella rivoluzione passiva in corso è più forte l’evocazione di un idillio smarrito o il rimpianto del come avremmo dovuto essere e non siamo mai stati. Questi gerghi dell’autenticità alimentano fantasie politiche aberranti in cambio di un consenso verso un potere senza autorità. Nell’attesa che tutto torni al suo posto, e nel timore che nulla sia più vero né normale, si vive da sopravvissuti in un mondo dove nessuno ha qualcosa in comune. Si pensa che la società sia un non luogo perduto nell’universo e che non valga la pena di essere vissuta perché la vita è altrove, nella miseria di quella privata, specchio di ciò che si trova fuori dalla porta. Nel nulla in cui si dovrebbe galleggiare è più facile lanciarsi nei trasbordi intergalattici dei miliardari della Silicon Valley per sfuggire all’estinzione invece di cimentarsi con il superamento del capitalismo che distrugge il pianeta e avvelena la vita1.


Il fantasma di Weimar

Questa rappresentazione è ricorrente in un vasto repertorio delle fini che percorrono il campo conservatore e progressista. Partiamo da quello conservatore tenendo conto che i confini con il campo culturale simmetrico sono fluidi come lo erano nel medesimo discorso tra la fine del XIX secolo e i primi trent’anni del XX secolo al tempo della cosiddetta «rivoluzione conservatrice». La riproduzione di quelle argomentazioni ricavate da una rilettura del sempreverde classico Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler2. La sua teoria è l’espressione dell’»odio per il pensiero che prende sul serio il possibile contro il reale», il prodotto «di un pensiero che celebra la metafisica del fatto compiuto», quello dei «teorici dell’estrema reazione la cui critica del liberalismo in molti punti si è rivelata superiore a quella progressista» e sono coloro che restano al servizio del «positivismo che esclude la possibilità e si attiene a ciò che è fatto così e non altrimenti». Lo splenglerismo è una «filosofia del destino che sottopone l’uomo a un cieco dominio», confonde la storia «con l’astrologia» ed è al «servizio della filosofia del potere» di turno3. Questa lettura riduce la storia a un ciclo naturale votato al «tramonto» ed evoca uno spiritualismo vitalistico superomistico che alimenta la rappresentazione angosciante della weimerizzazione del tempo storico. Con questa espressione intendo la sensazione di sentirsi sul bordo della catastrofe sociale come nella Repubblica di Weimar, alla fine della civiltà liberale e a contatto con il fantasma di un fascismo eterno, non tanto quello storico di Hitler e Mussolini «che ha saputo mobilitare e impiegare così bene il desiderio delle masse, ma anche il fascismo che è in noi, che possiede i nostri spiriti e le nostre condotte quotidiane, il fascismo che ci fa amare il potere, desiderare proprio la cosa che ci domina e ci sfrutta»4.

Tanto più si evoca la decadenza, tanto più cresce l’attrazione verso l’amore per il potere che promette sicurezza e strumentalizza la libertà dei pochi contro quella dei molti. Una simile contraddizione è la regola nelle società neoliberali e replica un equivoco ricorrente nella storia del liberalismo considerato un sinonimo di «civiltà» e «occidente», concetti essenzializzati e privati di storia, purificati dalle loro contraddizioni lancinanti (lo sfruttamento, il patriarcato, l’imperialismo, la violenza e le contraddizioni sociali ed ecologiche del capitalismo, per esempio) e assunti come archetipi di un’identità che può essere declinata nei termini di una «guerra di civiltà» in nome dei «valori occidentali» oppure in quelli di una recriminazione antidemocratica e «rivoluzionaria» perché radicalmente anti–borghese e anti–liberale in nome di un individualismo anarchico tradizionalista. In entrambi i casi il tramonto dell’«epoca» coincide con il rimpianto di un’autenticità, della qualità, della fertilità, del vigore (maschile) del mondo perduti a causa della consumazione entropica del tempo.

Sono le coordinate principali di una concezione nazionalistica e conservatrice che è stata sublimata sotto la forma di un misticismo della libertà individuale anti–egualitaria e anti–comunista da un ceto intellettuale che ha condiviso sin dagli anni Settanta del XX secolo le letture critiche e apologetiche di autori come Martin Heidegger, Carl Schmitt o Ernst Jünger e di tutti coloro che hanno dato l’impressione di criticare il liberalismo a favore di un’evocazione delle origini che coincidono sostanzialmente con la società prussiana e l’autoritarismo di Bismarck5 o con la rivendicazione del «capitale creativo» di un’aristocrazia, di una classe o di un’élite6. Questi spettri sono tornati sia a destra che a sinistra come al centro in maniera ancora più ambivalente e sono accompagnati da un’operazione di politicizzazione della nostalgia e di malinconizzazione del discorso pubblico sull’intimità e sulla società7.

Ciò di cui ci si lamenta è la perdita di un’origine al di là della storia in cui la potenza era espressione di una mitologia della forza primigenia anteriore alla nascita della civiltà, e coincidente con la pienezza dell’Essere in se stesso, una tautologia perfetta che la modernità liberale avrebbe dissolto insieme ai suoi derivati tra i quali sono stati annoverati in maniera abusiva anche gli avversari come lo stesso socialismo che in realtà hanno dimostrato l’esistenza di una pluralità irriducibile.


Malinconia di sinistra

Nel campo progressista risuona una frase consolatoria valida anche per il suo antonimo: «È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Non è chiaro come il capitalismo possa sopravvivere alla distruzione del pianeta, né il modo in cui la natura possa farlo crollare come se si trattasse di un soggetto capace di punire una volontà che ha superato ogni limite. In realtà queste opzioni ribadiscono il senso comune dominante: anche se tutto finisce, nulla potrà mutare il dominio del capitale. La frase in questione, espressione della subalternità diffusa alla rivoluzione passiva neoliberale, è diventata oggetto di un dibattito storiografico. Prima è stata citata dal critico americano Fredric Jameson8, poi è stata attribuita al teorico Mark Fisher. In realtà è stata coniata dal critico Bruce Franklin che ha scritto un saggio sull’opera dello scrittore James Ballard9.

Per Franklin, Ballard non ha spiegato che i rapporti sociali di produzione sono all’origine dell’alienazione. Pur avendo mostrato gli effetti deliranti della violenza nel racconto di una classe media autodistruttrice non è riuscito a definire un modo di vita differente. È un’osservazione calzante, ma ingiusta. Con onesto e spietato realismo Ballard ha colto l’incapacità della cultura contemporanea di immaginare il superamento del capitalismo. L'impossibilità di trovare oggi una soluzione non esclude che possa darsi in altri termini. Il problema è comprendere in che modo questo possa accadere. E operare di conseguenza. La difficoltà di ricongiungere il momento della critica con quello dell’azione, il racconto dello sfruttamento con il pensiero della liberazione, è il problema della politica contemporanea.

Un desiderio della liberazione si riflette in questa contraddizione ed è generato dalla possibilità di ricongiungere i momenti conoscitivi, catartici e politici nella singola vita in cui possono manifestarsi. Questo desiderio ha alimentato l’immaginazione utopica che si è formata nell’ambito del pensiero socialista tra il XIX e il XX secolo e ha dato un corpo al desiderio e un orizzonte alla trasformazione nella science fiction del Secondo Dopoguerra scritta da Ursula LeGuin, Stanislaw Lem, Evgenij Zamjatin10. Oggi le distopie capitaliste hanno rovesciato l’impulso utopico verso la liberazione nell’opposto di un pericolo mortale proiettato verso l’estinzione. Potenziando la negatività del presente hanno coltivato la speranza di identificare un farmaco che cura il corpo politico11.

Il potente immaginario delle serie Tv da Westworld, Handmaid’s Tail a Black Mirror o Squid Game diffuse sulle piattaforme digitali hanno esteso questa attitudine a livello di massa e hanno reso popolare la previsione di un totalitarismo che trasforma gli esseri umani in sopravvissuti. Questi racconti evocano un’opposizione organizzata contro un potere apparentemente indistruttibile. Tuttavia l’aspirazione al conflitto resta limitata all’esemplarità di un apologo. La liberazione è intesa come un caso eccezionale, ma la promessa dei nuovi mondi resta condizionata dalla maestosità della fine di tutto.

Le difficoltà a immaginare, e praticare, una prospettiva di liberazione non sono intese come problemi politici, ma come gli effetti di una presa invincibile del potere sull’essere umano. Si è così consolidata un’idea totemica della condizione postuma che ha colonizzato la vita pubblica e quella privata ed è considerata uno stato irreversibile. La condizione di subalternità e oppressione è stata destoricizzata, mentre l’individuo è stato spogliato del suo ruolo sociale e la sua condizione è ridotta all'identità di una vittima. La remota speranza che la veglia in vista del collasso finale possa produrre un sussulto di dignità è stata tradita. È avvenuto l’opposto: il blocco dell’immaginazione, l’inazione, il risentimento.

In questo mondo non esiste solo il disincanto. La postumità è attraversata da una malinconia che non si limita a piangere l'utopia perduta e coltiva la possibilità di liberarsi da un proibitivo rapporto di potere12. Il lavoro sulla perdita possiede effetti trasformativi su chi non intende restare in una posizione subalterna. C’è chi ha declinato questo lavoro rispetto alla storia delle «nuove sinistre» tra gli anni Sessanta e Ottanta13. Nella condizione postuma in cui si afferma la fine della storia la memoria è diventata il terreno di un conflitto politico, non solo l’arena dove si affrontano le interpretazioni divergenti sull’antifascismo o sullo sterminio nazi–fascista degli ebrei. La riaffermazione di una verità storica risponde all’esigenza di contrastare le strategie discorsive concepite per svuotare di senso i criteri di una convivenza democratica14.

Nella postumità è presente anche una tonalità tragica. In questo caso il lavoro del lutto riguarda le ultime generazioni nate dopo la sconfitta della rivoluzione comunista in occidente avvenuta tra la fine degli anni Dieci e gli anni Venti del XX secolo quando prima furono uccisi Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht in Germania e il «Biennio rosso» fu sconfitto in Italia. Questi eventi traumatici avrebbero portato alla fine della «grande politica». Se invece ci fosse stata la forza di rovesciare la storia, il socialismo in Europa avrebbe potuto stimolare la Russia sovietica a evolvere verso un governo democratico del comunismo15.

Questa tesi vincola la possibilità di una rivoluzione alla creazione di forze politiche capaci di reggere l’urto colossale delle potenze che si scaglierebbero contro il loro avvento. Allo stesso tempo non esclude l’esistenza di una chance rivoluzionaria che potrebbe fiorire in un deserto. Il realismo utopico di questa posizione si ammorbidisce quando la sua malinconia di fondo è insidiata dalla nostalgia per la grandezza del progetto comunista di trasformazione del mondo. Rispetto a questa grandezza la storia delle «nuove sinistre», del femminismo o dei movimenti di liberazione anti–coloniali sarebbe stata «piccola». In questo bilancio compiutamente postumo si sottovalutano almeno tre elementi: l’istanza comunista è stata l’esito di almeno un secolo di piccoli e grandi tentativi spesso tragicamente sconfitti; la «grande storia» del leninismo e del bolscevismo è stata criticata dal punto di vista comunista da molti movimenti che tuttavia non sono riusciti a coniugare l’uguaglianza con la libertà, i diritti sociali e civili con quelli del lavoro, la liberazione politica con quella sociale16.


Il «mondo del dopo»

Il postumo non è solo una condizione malinconica o nostalgica. Durante un evento sconvolgente come la pandemia del Covid si è manifestato sotto la forma di un desiderio di trasformare il mondo, rompere con la vecchia «normalità» oppure ripristinarla. Questa tensione verso il futuro si è manifestata nel tempo sospeso tra una quarantena e l'altra ed è stata definita il «mondo del dopo». Nel «dopo» non è stata identificata la fine, ma il desiderio di una discontinuità rispetto al «prima». Il postumo ha acquisito un doppio significato: da un lato, ha indicato l’essere sopravvissuti, lo stare e il venire dopo una catastrofe; dall’altro lato, ha implicato la coscienza di chi non vuole, né può, tornare al mondo vivendo una normalità peggiore di quella che è stata bruscamente interrotta.

Il sentirsi postumi implica la consapevolezza che si può uscire dalla catastrofe del mondo di prima, ma che l’altro mondo desiderato non è necessariamente migliore di quello presente, così come il mondo del prima non è sempre preferibile a quello successivo. Tanto il prima, quanto il dopo, possono restare nello stesso mondo della mercificazione della salute, della predazione della natura, della guerra e dello sfruttamento. Si rischiano di peggiorare le condizioni che esistevano prima, trasformando ciò che può guarire i postumi di una catastrofe in uno strumento che aggrava l'oppressione dei posteri. L’auspicio del «mondo del dopo» è stato tuttavia utile per vivere la prossima crisi nel modo in cui non si è vissuti in quella precedente.

La prospettiva del postumo non è estranea ai governanti. La politica neoliberale è abituata ad anticipare il futuro – prospettando il «mondo del dopo» a partire dal presente – per orientarlo rispetto agli scopi dell’accumulazione. Chi ha parlato del mondo del dopo dalla prospettiva dei governati ha rovesciato questo modo di pensare. In questo caso il «dopo» è stato inteso in discontinuità con la «normalità» precedente, come una rottura con la previsione che vincola il vivente agli scopi dell’accumulazione. Questa azione non coinvolge solo l’immaginario e il suo rapporto con la rappresentazione del mondo. È il risultato della conoscenza delle cause che hanno istituito questo mondo e la prefigurazione della sua trasformazione attraverso la prassi.

In questa idea del postumo emerge un elemento trascurato: il divenire. In esso la conoscenza entra in contatto con la sua condizione materiale, riscopre una dimensione storica e collettiva nella quale è possibile riscoprire il significato profondo di sperimentazione. Non sappiamo cosa viene «dopo», ma possiamo scoprirlo insieme quando riusciamo a realizzare ciò che viene nella vita che conduciamo. Nel postumo si allarga la concezione dell’infinita variazione dei modi che compongono una vita. Da essa nasce la possibilità di usare una potenza non ancora compresa e tuttavia agente. Perché questo sia possibile abbiamo bisogno di tempo, spazio, risorse. Elementi, a dire il vero, piuttosto rari e riservati a pochi. Ma è a questa possibilità che tende chi cerca un dopo che non assomiglia al prima e esprime l’altrimenti che sopravviene. Vivere così la condizione postuma spinge a mantenere l’apertura verso ciò che non è determinato senza restare ipnotizzati da ciò che è conosciuto.

L’evocazione del «mondo del dopo» permette di comprendere una caratteristica costituente della condizione postuma: la fine si trova in un rapporto ricorsivo con l’anticipazione del futuro. Tale rapporto si dà in maniera diversa nel corso della vita, oltre la stessa vita. Il postumo non è uno stato, ma un movimento. Non è un soggetto, ma una relazione che collega un postero a un postremo, ciò che viene dal futuro a ciò che arriva da un passato, il finito con l’infinito. Il momento ultimo e quello ulteriore indicano condizioni specifiche all’interno delle quali è possibile distinguere una continuità nella discontinuità, una disgiunzione connettiva e una connessione disgiuntiva tra temporalità diverse e molteplici modi di vita. L’anticipazione retrospettiva della storia è collegata a una retrospezione prefigurante del divenire. La fine fa parte di una vita, per questo può essere anticipata; il futuro è vissuto nel divenire, per questo è concretamente praticabile. Il postumo è la conquista di un rapporto generativo con il tempo che fa emergere una dimensione inconclusa e sorgiva nella vita.

Questi esempi permettono di rappresentare la condizione postuma come un campo di battaglia all’interno del quale si affrontano un nichilismo che misura il tempo in base alla perdita dei giorni e della distanza che separa la vita dal suo annientamento e un’etica della potenza dove il postumo è il momento di un divenire. La distinzione tra queste interpretazioni non esclude il fatto che possano essere vissute insieme. Lo stesso soggetto si dilania tra la convinzione di vivere alla fine dei tempi e l’annuncio di una rivoluzione che ha esaurito le sue possibilità17. Questa contraddizione è il frutto di un’esperienza materiale in cui non riesce a connettere in maniera adeguata la conoscenza a un desiderio, le idee alle azioni, le menti ai corpi, le potenze del pensare a quelle dell’agire. Ciò non toglie che possa cambiare il suo rapporto con la potenza a disposizione e connettere diversamente gli elementi che la esprimono nel mondo. In questo modo il soggetto si libera dall’ordine in cui è incastrato, di solito considerato come una necessità naturale, aprendosi in un processo che non è dato nel quale sperimenta molteplicità eterogenee e concatenamenti imprevisti.


Catarsi

L’idea della condizione postuma è comprensibile a partire dalla storia della medicina e dai suoi rapporti con l’etica e la politica. In questo caso il postumo è composto da una pluralità di situazioni, non è più uno stato unico e acquisito una volta per tutte dopo la fine di tutto. In una vita si vivono tanti postumi. La liberazione dai postumi di una malattia, di un incidente, di un’umiliazione o di un’offesa è il risultato di una resistenza della vita alla morte e della creazione di una nuova potenza dell’agire e del pensiero. In questa prospettiva l’idea apocalittica del postumo è il risultato di un’idealizzazione del sano, del razionale e del normale. La vita è un lutto per la perdita di questo stato ideale ed è destinata allo snaturamento. Questo è il racconto della Caduta dal Paradiso. Alla fine dei tempi, dopo il ritorno del Regno, la Grazia sarà ripristinata.

Se invece consideriamo la condizione postuma in maniera generativa allora le passioni afflittive e la cognizione del morboso o dell’errore sono parti di un divenire in cui la morte è un’esperienza materiale e ideale, non la destinazione o il fondamento dell’esistenza. L’essere postumi è l’esperienza materiale di una catarsi dove una potenza si perde, si riacquista e si moltiplica. Una simile esperienza è replicabile in tutte le attività della mente e del corpo. La teologia cristiana della resurrezione attraverso la quale di solito rappresenta il rapporto con ciò che viene dopo una fine riduce la liberazione all’uscita dal «calvario» della sofferenza, alla fine della «via crucis» di una malattia o all’attesa di una vita oltre la morte. Noi invece stiamo scoprendo una filosofia pratica basata sulle transizioni e le trasformazioni delle potenze che arricchiscono la vita mentre scopriamo nuove dimensioni prima inesplorate. Questo discorso è intrinsecamente politico.

Nessuno può autorizzare qualcuno a guarire, è chi vive una malattia a cercare e nel caso a decidere di superare ciò che lo separa dalla salute. Lo stesso ragionamento vale per chi è oppresso. Nessuno lo autorizza a sottrarsi al suo oppressore. La libertà, in qualsiasi forma, non può essere legittimata da un soggetto esterno: un potere, un medico, un Dio. Emerge dalle forze del corpo e della mente, nelle relazioni con gli altri, nel divenire attivi dopo essere stati passivi. La beatitudine, la guarigione e la liberazione non sono stati oggettivi misurabili secondo criteri prestabiliti. Sono le conseguenze di un conflitto condotto da chi vive i postumi della privazione, del dolore e dell’oppressione, prende le distanze dalla reificazione del corpo e della mente, cerca il modo di vivere un’altra vita.

Più che a rimpiangere il mondo che non c'è più noi pensiamo che un mondo solo non sia sufficiente per contenere la liberazione possibile di cui può essere capace una vita. La liberazione è un esercizio che dura tutta la vita, perché ci vuole una vita per liberarsi e non si finisce mai di farlo e pensarlo. La possibilità di una liberazione non è generata dall’escatologia paradossale della fine di tutte le fini, ma dall’espressione di una potenza inscritta nella storicità immanente dell’esistenza comune, dentro i rapporti sociali di produzione in cui facciamo esperienza della trasformazione della vita e del suo corpo–mente. Una liberazione è garantita solo quando il più grande numero di persone conviene sul fatto che il proprio utile non esiste senza quello desiderato per sé dagli altri. Nulla è più utile all’essere umano che l’altro essere umano che agisce nella conoscenza delle sue cause e delle sue potenze. Così intesa la condizione postuma è il risultato delle prassi e delle mentalità che rispondono a un determinato assetto dei poteri, dei linguaggi e delle relazioni e sono vissuti nella prospettiva di una vita liberata.



1Le considerazioni del fisico S.Hawking, Abandon Earth – Or Face Extinction, citate in C.Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi, Torino 2021, p. 65. Sulle teorie cosmologiche di Hawking, P.Virilio, Polar Inertia, cit., pp.72–86.

2 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Guanda, Parma 1999.

3 T. W. Adorno Spengler dopo il tramonto, in Id., Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 2018, pp. 37–60. Per una discussione sull’attualità dello «spenglerismo» nella rivoluzione conservatrice neoliberale, G. Merlio, Le Début de la fin? Penser la décadence avec Oswald Spengler, Puf, Paris 2019.

4 M. Foucault, Préface alla traduzione americana del libro: G. Deleuze–F. Guattari, L’Anti–Oedipe : capitalisme et schizophrénie, Viking Press, New York, 1977. Ora anche in M. Foucault, Dits et Écrits II, 1976–1988, Gallimard, Paris 2001, pp. 133–136. Il testo è noto con il titolo Introduzione alla vita non fascista.

5 Sulle origini anti–comuniste della rivoluzione conservatrice di cultura tedesca nel dibattito storiografico tra gli anni Settanta e Ottanta del XX secolo durante la controrivoluzione neoliberale, E. Traverso, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Feltrinelli, Milano 2012.

6 T. W. Adorno, Critica della cultura e società, in Id. Prismi, cit., p. 11.

7 L. Joseph, La chute de l’intime. La malinconisation du discours, Hermann, Paris 2021.

8 F. Jameson, Future city, «New Left Review», n°21, May–June 2003.

9 H. B. Franklin, What are we to make of J. Ballard’s apocalypse? in AA.VV. Voices for the future, Green popular press, 1979, p. 82.

10 D. Suvin, Defined by a Hollow. Essays on Utopia, Science Fiction and Political Epistemology, Peter Lang, Berna 2010.

11 Ibid., p. 408.

12 J. Butler, Violenza, lutto, politica in Id., Vite precarie. Contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo, Meltemi, Roma 2017, pp. 57 e ss.

13 E. Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Feltrinelli, Milano 2017.

14 Id., L’histoire comme champ de bataille. Interpréter les violences du XXe siècle, La Découverte, Paris 2010, pp. 251–282.

15 M. Tronti, Il tramonto della politica, Einaudi, Torino 1998; A. Cerutti, G.Dettori, a cura di, Saggio in forma di intervista a Mario Tronti, in Idd., La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 327–350. In un’intervista il filosofo ha reso più problematica la prospettiva: «Basta demonizzare il Novecento, lasciamo stare il grande e il piccolo Novecento, magari ci capitasse ora la fortuna di un nuovo Sessantotto!» in R. Ciccarelli, Mario Tronti: Che fare?, «Alias–Il manifesto», Roma 24 luglio 2021, pp. 2–3.

16 R. Finelli, Una libertà post–liberale e post–comunista, in Tra moderno e postmoderno. Saggi di filosofia sociale e di etica del riconoscimento, Pensa, Lecce 2005, pp. 319–345; Id., Dal bisogno al riconoscimento, in Id., Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014, pp.12 e ss.

17 F. Berardi «Bifo», Futurabilità, Nero, Roma 2018; Id., Il secondo avvento. Astrazione, apocalisse, comunismo, DeriveApprodi, Roma 2018; Id., Fenomenologia della fine, Nero, Roma 2020; Id, A poco, a poco Apocalisse! La fine del mondo «spiegata» ai ragazzi... e il mondo reinventato, Momo, Roma 2020.


©Roberto Ciccarelli, Una vita liberata. Oltre l’apocalisse capitalista , DeriveApprodi 2022