19.03.2021
Arte ambientale. La città di Atlantide
Massimo Bignardi

Introduzione


La pittura e in generale l’arte in tutte le sue espressioni, parafrasando la ben nota affermazione di Picasso, è un altro modo di tenere un diario. Non è solo per l’artista, ma anche per noi che fruiamo della sua capacità di testimoniare il proprio presente. In particolare, lo è per lo sguardo della critica, quando essa si sporge nella vita, cioè si fa esperienza diretta, frontale, a tu per tu con l’autore, con l’opera e con il contesto sociale nel quale allunga il suo sguardo.

La città di Atlantide, così come è stato per una parte dei contributi sul tema ‘arte e città’ che ho dato alle stampe negli ultimi due decenni, lascia volutamente trapelare la traccia diaristica. È un libro che tiene insieme sia le esperienze spese direttamente sul campo quindi i viaggi, gli incontri con nuove realtà urbane spaziando in contesti internazionali, i dialoghi con gli artisti, appunti trascritti sul notebook, sia gli studi, gli approfondimenti bibliografici di quanto la storiografia critica dell’arte e dell’architettura contemporanea ha prodotto in questi ultimi anni. Materiali in buona parte rimasti tali e solo alcuni ripresi in saggi pubblicati in occasioni diverse, conservando il senso di una narrazione autobiografica che è proprio del diario.

La possibilità di riorganizzare di recente appunti, saggi e scritti che hanno come tema tale rapporto, è stata offerta dal progetto nato nell’estate dello scorso anno, grazie all’invito rivoltomi dallo scultore senese Renato Corsi, di tenere dei seminari, sull’Arte ambientale, all’Universidad nacional de San Antonio Abad del Cusco in Perù, ove egli insegna scultura, in programma tra ottobre e novembre di quest’anno. L’emergenza epidemiologica da Covid-19, che, dal mese di marzo tiene in scacco l’intero globo terrestre, ha vanificato il progetto, rinviandolo a un futuro senza data.

Il progetto prevedeva tre lezioni dedicate al tema che oggi vede la scultura in dialogo con l’ambiente urbano, divenuto di grande interesse e ampiamente dibattuto dalla critica d’arte. È un dibattito segnato da oscillazioni che, da opposte polarità, vanno dalla New Genre Public Art, un termine consumatissimo che permette di abbracciare l’intero repertorio di interventi nell’urbano, con i dubbi e le ambiguità che porta con sé, in particolare per l’arbitrario autodefinirsi ‘nuovo genere’, agli interventi di operatività ambientale, legati a una effettiva connessione e funzione sociale. Questi ultimi sono sostenuti da una visione rivolta a progettare luoghi per la città nel suo divenire. Prospettiva che non fa leva sulla tendenza, oggi diffusa, dell’autoreferenzialità dell’artista – ma anche delle archistar – proposto come un demiurgo il cui segno, anche se ripetitivo, diviene elemento di attrazione culturale.

Tre lezioni in forma seminariale, il cui progetto ha dato luogo alle parti che compongono questo libro: La città, un cantiere tra memoria e futuro, posta in apertura; Dialoghi sulle prospettive dell’Arte ambientale – un confronto con quattro artisti italiani di generazioni diverse, il cui impegno ha tracciato e traccia una linea portante di tali esperienze sulla scena artistica non solo nazionale – e, in chiusura, Luoghi e materie di ‘memorializzazione affettiva’. Il tentativo era, e resta tale, di presentare a un pubblico di studenti di un’altra università, nello specifico di un’altra nazione, le ricerche condotte sul campo, quindi connotate da una pratica che presuppone l’incontro diretto con l’opera, con il luogo, quest’ultimo accolto nell’accezione hillmaniana.

Contestualmente, come ho cercato di chiarire in Praticare la città, pubblicato nel 2013, che faceva il punto sulle nuove prospettive di ricerca storico critica, nonché sulle metodologie di progettazione e di operatività d’intervento ambientale, e di dare ad esse una struttura didattica, mantenendo costante, con una dialettica comparativa, l’attenzione verso altri indirizzi di studio: metodologia che ha fatto da sfondo ai corsi di “Arte ambientale e Architettura del paesaggio”, tenuti in questi anni presso il Dipartimento di Scienze Storiche e dei Beni Culturali dell’Università di Siena, che ha sostenuto questa pubblicazione e che qui ringrazio.

L’interesse volge, dunque, a far emergere una metodica che, se pur all’interno del settore scientifico disciplinare della Storia dell’Arte contemporanea, ambito entro il quale fino allo scorso anno accademico s’inscriveva tale insegnamento, fosse aperta alla pratica propria di sollecitazioni, attinte alle scienze demo-etno-antropologiche. Il che ha comportato l’attenzione alla complessità degli aspetti che vedono al centro l’uomo, la società e, nel caso dell’arte, il simbolo (meglio ancora l’area del simbolico) e le loro mutazioni. Centrale è stato anche muoversi tra realtà diverse sul piano culturale, ponendole tra loro in comparazione. In alcuni casi, quale ad esempio l’esperienza vissuta a Marrakech, nello specifico del commento al Jardin des Arts, il processo comparativo, oltre che con altre realtà nordafricane e in generale del Sud Medi- terraneo, è stato con le tracce vive nella mia memoria di una città visitata quindici anni fa, incontrata oggi nella dimensione di una metropoli di stampo occidentale.

Nella prima parte ho raccolto scritture dedicate a quanto ho avuto modo di osservare e studiare nel corso di recenti viaggi: dal citato soggiorno a Marrakech in occasione della terza edizione della “154 Contemporary African Art Fair”, tenutasi a fine febbraio prima che l’Italia, per la malattia pandemica, chiudesse le sue frontiere al ritorno in Sicilia tra Fiumara d’arte, con l’ascesa a 38° Parallelo, la grande pira- mide realizzata da Mauro Staccioli nel 2010 e Gibellina, con la visita al monumentale Cretto di Burri ultimato nel 2015, in occasione del centenario della nascita dell’artista umbro. I frequenti soggiorni a Lussemburgo, che mi hanno offerto la possibilità di rilevare la deriva ornamentale propria degli interventi artistici, realizzati nell’urbanizzazione del Plateau di Kirchberg.

Contestualmente è stato il viaggio a Ostenda e sul litorale delle Fiandre che affaccia sulle ultime acque della Manica, con la visita a “Beaufort2018”, triennale d’arte contemporanea, curata quell’anno da Heidi Ballet, con installazioni e sculture sparse sulla lunga spiaggia, una sorta di asse di circa settanta chilometri, che dal litorale di Veurne va a quello di Bruges: Ostenda con il fascino delle sue architetture eclettiche e liberty, fa da punto mediano e cuore della manifestazione-evento.

Nello stesso anno, e poi nel 2019, Siviglia e Malaga hanno segnato due momenti d’incontro con nuove realtà della Spagna contemporanea, poste in dialogo con due gioielli dell’architettura e della cultura moresca: la Moschea di Cordova e l’Alhambra di Granada. Città che, pur conservando l’impronta profonda della loro storia, si aprono a una visione ricca di futuro. Sono luoghi dove ho lasciato viaggiare l’immaginazione, costruendo di volta in volta un ideale ‘cantiere’, non più operativo ove concedere all’immaginazione la possibilità di farsi concreta costruzione, bensì un ‘cantiere’ fatto di incontri improvvisi, di inciampi con la creatività, insomma una conoscenza che trae materia da continui stati emotivi.

È lo stesso processo, divenuto mastice, che tiene insieme i saggi proposti nell’ultima parte, dedicati a interventi interessati ad altre modalità di operatività ambientale, tra gli ‘interni’, non solo intesi come luoghi del privato e gli inter- venti realizzati fuori del contesto urbano. Essa si apre con il testo della conferenza tenuta nell’ambito della manifestazione “Artistic Tiles from the Region of Campania”, promossa dalla The Italian Trade Commission e ospitata al Tiles West Side Loft a new York, nel novembre del 2006, nel quale pongo l’attenzione alle piastrelle maiolicate della tradizione campana, da oltre un millennio piani colorati dei nostri spazi domestici; seguono due brevi testi dedicati all’architettura e all’idea di casa che essa traduce com’è stato per le incredibili (per la dimensione) sculture di Louise Bourgeois viste a Londra nel 2000, mostra con la quale si inaugurava la Tate Modern, ma anche per l’intervento – carico di una tensione straordinaria – realizzato nel settembre del 2009, per la collezione di opere ambientate a Castello di Ama di Gaiole in Chianti. Un’idea di interno che ritroviamo nell’Peras/Apeiron di Giulio De Mitri.

Quest’ultimo intervento evidenzia un processo, suggeriva Dorfles a chi opera nella dimensione ambientale urbana, di “memorializzazione affettiva” del luogo – nel caso specifico una storica masseria pugliese – che fa da guida anche ai progetti utopici, rimasti tali, ideati da Giosé Greco per il centro storico di Taranto. Un senso utopico, che impronta le installazioni site specific, realizzate da Angelo Casciello, Enzo Cursaro, Angelomichele Risi e Sergio Vecchio, in quel che resta della storica fabbrica di conserve della Cirio a Paestum, prima dell’abbattimento, per far posto a un nuovo spazio museale della città magnogreca. Una prospettiva che si ribalta in Il lago dove cadono le stelle tra gli alberi, una proposta progettuale, rimasta tale, per un intervento di operatività ambientale per l’invaso di Ravedis, al quale ho lavorato, nel 2007, con Marco Pellizzola e nicola Salvatore.

In chiusura, la lettura della mirabile sequenza fotografica che Antonio Caporaso ha dedicato alle dieci sculture in pietra vulcanica, installate sui pendii del Vesuvio, corpo plastico dell’intervento Creator Vesevo, ideato dall’architetto Massimo Iovino con la direzione artistica dello scrittore Jeannoël Schifano, un parco di sculture inaugurato nell’ottobre del 2005. Dieci artisti della scena internazionale tracciarono punti di un percorso d’ascesa verso la montagna-mito, che la narrazione fotografica ci consegna come memoria della contemporaneità.

L’articolazione delle parti proposte in forma di spaccati monografici e la narrazione diaristica, mirano a tenere insieme le singole analisi, al fine di porre una riflessione sul senso etico (non di morale), che sottende nuove progettazioni e realizzazioni creative nell’urbano: in fondo, vera ragione che mi spinge da anni a tenere lo sguardo puntato sulla città e sul rapporto che gli artisti tessono con essa. Un interesse sociale ben esplicitato nel sottotitolo Arte ambientale tra processi di democratizzazione e ornamento urbano, che dà risposta al perché delle scelte operate: è chiaro, e non poteva essere diversamente, che a monte ci sia stata una linea guida, ossia una motivazione che va al di là degli aspetti estetici di ciascun intervento, ad ampliare di fatto l’orizzonte della ricerca storico-critica. Il lettore può ben immaginare che non sono solo le città e gli interventi, insomma gli elementi creativi dell’“inciampo”, che segnano le tappe dei miei viaggi a sollecitare tale interesse, quanto la necessità di chiarire, da ulteriori punti di vista, la nozione di ‘comune’.

Una riflessione, non palese, ma che si rinnova nel procedere del tempo, affondando lo sguardo nell’esperienza artistica, come esperienza della vita e che fonda anch’essa, accogliendo un concetto esposto da Paolo Virno, sul “Lavoro (o poiesi), Azione politica (o prassi), Intelletto (o vita della mente)”. Procedere quindi su una traiettoria che, essenzialmente, tenesse insieme tali fondamentali ambiti propri della dimensione del ‘comune’ e che, insieme, danno forma al presente, alla sua velleità di sporgersi sul futuro, quale espressione dell’intera comunità (la città) e le radici (il passato), che alimentano tale velleità.

Ha fatto da filtro un’affermazione di André Breton – richiamata in nota da Benjamin in L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica – che recita: “L’opera d’arte ha valore soltanto in quanto sia traversata dai riflessi del futuro”.
Si comprende bene che tale filtro mi ha tenuto fuori dal dibattito incorso sul concetto di monumento che conserva, nella radice monère, il valore di ricordare. A maggior ragione ho cercato di non farmi coinvolgere nella polemica sviluppatasi intorno alla prefigurazione di un “monumento temporaneo”, come dibattuto da Maurizio Cattelan, nel 2010, in occasione della XIV Biennale Internazionale di Scultura di Carrara, dedicata al Postmonument.

In quella occasione, l’artista ideò un nuovo monumento a Mazzini in piazza dell’Accademia, sostituendo nel medaglione il volto del grande artefice del Risorgimento, con quello di Craxi. Oppure, da quanto scrive Fabio Dei che, nel 2004 sulle pagine della rivista “novecento” – ad appena tre anni dalla monumentale, tremenda, immagine delle torri del World Trade Center sbriciolate dalla folle strategia terroristica –, crede che monumenti, “parate militari e civili, raduni di massa, comizi nei luoghi pubblici più rappresentativi, bandiere e inni nazionali” possano essere simboli di un “coinvolgimento emotivo” che sollecita “l’immaginazione di una comunità moderna”. Un’opera di Arte ambientale, come innanzi definita, presuppone un corpo che apre una nuova “contrada” (Heidegger) e quindimanifesti la necessità di “fare spazio” per l’arrivo di qualcosa che è già nuova comunità e suo avvenire.

Il filtro bretoniano ha trattenuto numerose altre occasioni di critica e contestualmente anche i lavori che ho in corso d’opera: viene meno, tra i tanti esempi, l’impatto con quel che resta degli interventi realizzati dal progetto “Arte in Pollino”, nato come iniziativa per la conversione della realtà rurale in turistico-culturale per una parte delle comunità che vivono nel Parco del Pollino, una vasta area montana tra la Basilicata e la parte alta della Calabria, che ho avuto la possibilità di approfondire e poi di visitare, sollecitato dalle ricerche condotte da Mario Verre, negli anni della mia direzione della Scuola di Specializzazione in Beni storico artistici dell’Università di Siena.

Tale studio documenta il ‘fallimento’ di un’operazione di velleitarismo culturale, nata nel febbraio del 2008 e che registra sulle montagne di uno dei parchi naturali più belli del Mezzogiorno peninsulare, inter- venti marcatamente autoreferenziali, di Anish Kapoor, Anni Rapinoja, Carsten Holler, Claudia Losi, Giuseppe Penone, nils-Udo. Alla data del 2015, quando Verre mi sottopose la prima stesura della ricerca che accoglieva le interviste, gonfie di accenti polemici, fatte alla gente di quei luoghi, gli interventi artistici erano in gran parte, eccetto quello di Kapoor che è in cemento, distrutti dall’azione della natura. Mi colpì profondamente quello di Penone, con la gradinata di un possibile teatro di età classica, ridotta a sassi portati a valle dalle piogge intense ma anche e soprattutto dall’incuria.

Ad esso, si aggiunge il Monumento ai Caduti di nassiriya nel Parco Schuster, situato sullo snodo tra via Ostiense e il Lungotevere, non distante dalla Basilica di San Paolo fuori le Mura, con la grande installazione La foresta d’acciaio, realizzata nel 2008 da Giuseppe Spagnulo, in ricordo dei militari italiani vittime di quell’attentato, intervento poco sentito dagli abitanti del quartiere. Così anche alcune sculture collocate nello spazio urbano di Terni, in particolare quelle di Arnaldo Pomodoro, di Umberto Mastroianni e di Carlo Lorenzetti; oppure le ultime installazioni scultoree che ho visto realizzare per il progetto “Scultori a Brufa”, una piccola frazione nel comune di Torgiano, in provincia di Perugia, avviato nel 1987, con l’intervento di Massimo Pierucci seguito, nel 1988, da quello di Marcello Sforna dal titolo L’Equilibrista.

Queste prime segnavano un certo rapporto con l’identità contadina del centro – i segni di una ‘memorializzazione affettiva’ erano più evidenti –, palesata anche dagli interventi dei primi anni del Duemila, penso a quello di Giuliano Giuliani, di Gino Marotta, di Eliseo Mattiacci, del 2003, con Porta di Castelgrifone, oppure Brufa04, di Mauro Staccioli, del 2004. nelle ultime che ho avuto modo di visitare, tra il 2013 e il 2015, si avverte un minore dialogo con tale identità.

Il filtro ha trattenuto inoltre le annotazioni fatte a margine delle varie visite ai recenti interventi nel centro storico di Firenze: da quello firmato da Urs Fischer, In Florence, preceduto dalle installazioni/monumenti di Jeff Koons e di Jan Fabre con l’enorme tartaruga e, per chiudere, l’invasione (perché sparsa tra piazza Pitti e Santissima Annunziata) dei lupidi Liu Ruowang, già visti in occasione dello scorso natale, in piazza Municipio, a Napoli. Interventi di temporaneo ornamento urbano, che fanno leva unicamente sull’autoreferenzialità degli artisti, a loro volta interessati al richiamo internazionale che la capitale del Rinascimento italiano ancora oggi esercita fortemente.

Resta fuori, inoltre, la ricostruzione dell’acceso dibattito che ha accompagnato la grande Goccia di Tony Cragg, acquisita nel 1998 dal Comune di Siena e classificata come “opera d’arte pubblica”. Questa classificazione dovrebbe spiegare il perché l’opera è stata completamente rimossa dai senesi e fatta traslare dall’area antistante la chiesa di Sant’Agostino all’Orto dei Tolomei, ove ha assunto il ruolo di appartato ‘orinatoio pubblico’.

Sono aspetti che ci inducono a riflettere e a chiederci quanto oggi l’arte sia o meno concreta esperienza di un processo, tanto acclarato, di ‘democratizzazione’. V’è la tendenza, la si scopre smuovendo il velario pubblicitario che sorregge le grandi kermes d’arte contemporanea, e non sono indifferenti anche i rituali inaugurali delle gallerie private, a una sorta di liturgia dietro la quale si cela la tendenza di programmate ideologie, perché tali si possono definire, in quanto prevaricanti, pretestuose, solo effetto di strategie della comunicazione.

Liturgie che, accogliendo il punto di vista dell’antropologo Marco Aime, trovano nel multiculturalismo, nell’intercultura, negli “eccessi di culture”, la strategia per affermare preesistenti ed attuali confini culturali. L’arte deve tendere ad agire sulla vita e “qualificare la dimensione comune, per costruire un senso”, facendo mia oramai da tempo una riflessione posta da Tony Negri. Voglio dire che essa è per me una necessità, un modo di essere per dare senso ai giorni che trascorro. Scrive Schopenhauer in L’arte di conoscere se stessi, piccolo prezioso suo ‘vademecum’:

Ciò che tra le cose esterne è più vicino alla mia persona, come la camicia al corpo, è la mia indipendenza: essa non ammette che io sia costretto a dimenticare chi sono e assuma il ruolo di un altro, per esempio quello di una musa prezzolata, o di un professore – per il quale il proprio sapere e il proprio pensiero sono ciò che per il bottegaio è la merce che espone in vetrina –, o il ruolo di un consigliere relatore, o di un maggiordomo.

Resta da chiarire come è nato il titolo, La città di Atlantide, che richiama la leggenda dell’isola di Atlantide inabissatasi, secondo quanto Platone affida alla parola di Crizia nei dialoghi Timeo e Crizia, “un dí e una notte molto terribili” nelle profondità del mare al di là delle Colonne d’Ercole. Un’isola governata da un potente impero, che gli ateniesi riuscirono a sconfiggere per “virtù e prodezza” dei suoi governanti e dei suoi guerrieri. Platone costruisce tale metafora per commentare quanto la perdita dei valori democratici abbia, nei suoi anni, segnato il destino della Grecia e del mondo. non nascondo che tale immagine risuona come un’eco, spingendomi a guardare oltre l’utopia di una ritrovata democrazia che, in parte, segnò con grandi contraddizioni, deviazioni e stragismo, la straordinaria stagione culturale che attraversò l’Italia tra la gli anni sessanta e la metà dei settanta, periodo, quest’ultimo, nel quale mi sono formato.

Una democrazia che rimetteva al centro l’uomo, i suoi diritti, le sue attese come valori dell’“essere”, subito zittita dalla furia terroristica. In tale stagione includo anche parte degli anni ottanta, animati dalle trasformazioni che hanno segnato il passaggio dalla società industriale a quella tecnologica e poi digitale, affidando il futuro alla scienza, alle scoperte, alle invenzioni che hanno rivoluzionato i processi produttivi, estraniando, però, i bisogni primari e i diritti sociali. Un avvenire riposto nella scienza che specchia la profezia utopistica, inaugurata nei primi decenni del Seicento, dal pensiero di Francis Bacon nella Nuova Atlantide, prefigurazione di una società ideale e completa, “fondata sulla scienza – segnala Giuseppe Schiavone che, nel 2009, ha tradotto e curato l’edizione italiana –, l’industria, la fratellanza, per il bene dell’umanità e la gloria di Dio”.

La profezia scientifico-utopica di Bacon vede la sua realizzazione: il sopravvento della tecnologia, alimentata con grandi flussi dalle ricerche scientifiche, spazia in ogni direzione, ora più che mai anche nel mondo dell’arte. In fondo la nuova Atlantide tracciata dal pensiero baconiano affermava, in sintesi, il “sapere è potere” che, nell’era del 5G, assumerà il carattere di effettivo dominio: v’è, però, da riconoscere che in Bacon il sapere era conoscenza ‘illuminata’ ma anche fratellanza e non informazione manipolata, pura comunicazione propria dei social con le loro incursioni in ogni istante della nostra quotidianità.

Infine, l’immagine di un’isola dispersa nella memoria e nella fantasia che il capitano Nemo mostra al professor Aronnax, nel romanzo di Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari, capolavoro della letteratura fantascientifica della seconda metà del XIX secolo. L’illustrazione che Alphonse de Neuville ed Edouard Riou realizzarono per la prima edizione del 1870, posta in chiusura del nono capitolo, descrive la città sommersa, illuminata dai bagliori di esplosioni vulcaniche sottomarine, con le colonne, i templi, le rovine immerse nel “profondo limo – annotava Platone –, il quale, al nabissare dell’isola, si scommosse”.

Perché questa immersione verso la città di Atlantide se non per rinnovare, nella Parigi assediata dalle truppe prussiane e i pochi mesi della Comune, la vera identità del mito classico, la democrazia? Verne fa dire ad Aronnax: “Mentre io fantasticavo il capitano Nemo, appoggiato con i gomiti a una stele muschiosa, rimaneva immobile e a sua volta come pietrificato in un’estasi. Qui egli usava forse venir spesso a ritemprarsi fra le immagini d’una storia estremamente antica, lui che si era negato alla vita moderna?”. È, o così l’avverto, l’isola non trovata che, nel 1970, cantava Guccini: “svanì di prua dalla galea come un’idea. Come una splendida utopia è andata via e non tornerà mai più”.

Prefigurazioni, quelle offerte da Platone, da Bacon e da Verne ritrovate, come suggestioni, in due opere che mi hanno accompagnato nel lavoro di ordinamento dei saggi: la prima è Les Jardins de Babel, realizzata nel 2019 dall’artista Eric de Ville, una fotografia abilmente elaborata in digitale stampata a pigmenti in pochi esemplari su carta Hahnemühle Ultrasmoothe incollata su dibond che ho avuto modo di ammirare in originale nello stand della MOB-ART studio, in occasione della Luxembourg Art Week, dello scorso anno.

L’altra è A right place#3, un piccolo dipinto a olio su legno del 2005, donatomi da Michele Attianese, nel corso dei nostri incontri al suo studio nei primi mesi del 2019. Esse riassumono esperienze poste in perfetta antitesi: da una parte la strabiliante carica surreale del lavoro di Eric de Ville, soprattutto nella serie che ha come figura centrale l’impronta della Torre di Babele, consegnata, a metà del Cinquecento, da Pieter Brueghel il Vecchio alla storia dell’arte; dall’altra la monumentale fragilità della pittura a olio che sostiene, con una visione contemporanea, il lavoro di Attianese.

Se nella prima la gestione della tecnologia consente all’artista di valicare ogni limite del reale, gestendo la luminosità che equilibra il confronto di una natura primigenia e la costruzione a spirale della torre con piccole tessere fotografiche che riproducono facciate di case, di palazzi di una città dei primi del novecento, nel dipinto di Attianese è il gioco di velature a disperdere le rovine di architetture della modernità, in quel “profondo limo” di cui parlava Platone. Le ho assunte come metafore del mio doppio approccio ai temi posti dal rapporto arte-città, della prospettiva democratica che si disperde in quel ‘limo’ sempre più denso.


Al giorno d’oggi – scrive Marc Augé nelle prime pagine del suo Futuro, apparso nell’edizione italiana nel 2012 –, le vere difficoltà della vita democratica dipendono dal fatto che le innovazioni tecnologiche, di cui si serve il capitalismo finanziario, hanno sostituito i miti di ieri nella definizione di felicità per tutti, e diffondono un’ideologia del presente, una definizione dell’avvenire avvenuto che, a sua volta, paralizza il pensiero del futuro.

Novembre, 2020


©Massimo Bignardi, La città di Atlantide. Arte ambientale, processi di democratizzazione e ornamento urbano, Meltemi 2021.