Immunitas e persona. Una nota sul libro di Salvatore Spina
Stefano Berni

01.07.2021

Il nuovo saggio di Salvatore Spina, Immunitas e persona. La filosofia di Roberto Esposito, Ets, Pisa, 2020, affronta l’intero percorso filosofico dello studioso napoletano chiarendo molti punti della complessa e prolifica vicenda intellettuale della sua opera. Spina è affascinato dal problema del paradigma immunitario, tema centrale in Esposito, anche perché ha permesso di comprendere e prevedere gli eventi storico-culturali, dal nazismo alla recente pandemia. Benché il filosofo napoletano utilizzi vari filosofi del Novecento per costruire la sua filosofia, Spina è convinto che la proposta di una politica della vita - affermativa, immanente, ontologica - trovi la sua radice all’interno del pensiero nietzscheano. La biopolitica affermativa, pur richiamandosi infatti alle posizioni foucaultiane, a cui Esposito fa riferimento, è andata oltre il pensiero del filosofo francese, ancora legato ad una concezione repressiva e negativa del potere. Su questi argomenti forse il filosofo calabrese avrebbe potuto insistere maggiormente soprattutto accostando il lavoro di Esposito anche a quello di Arendt, la quale comunque è debitamente trattata. Centrale invece è per Spina il confronto con Heidegger, che pur nelle sue ambiguità politiche, anzi proprio per questo, permette di comprendere meglio la critica di Esposito al nazismo.

Ma prima di concentrarsi seppure brevemente sui primi tre capitoli del libro, i quali si incentrano sulla decostruzione filosofica e politica del totalitarismo e del nazismo, soffermiamoci per un attimo sul quarto capitolo e sull’intervista in appendice che Spina fa a Esposito, per comprendere meglio la sua proposta di una biopolitica affermativa. Rispetto alla biopolitica foucaultiana, essenzialmente negativa, ma anche alla tanatopolitica nazista, la biopolitica affermativa perde “il suo carattere trascendente”. Non vi sarebbe più un diritto che “pensa la norma” sulla vita, imponendola, ma un diritto che pensa “la norma insieme alla vita, nella vita”. Questa immanentizzazione della norma permetterebbe “una possibilità di incontro e di contaminazione”; “una vita sempre normata”; “un contenuto vitale”; un’espansione della vita stessa senza più verticalità, in cui il corpo, spinozianamente, diviene centrale. Scrive Spina: “la norma non è considerata come un valore trascendente ai cui canoni l’uomo deve aderire pena l’esclusione dal rango di umanità come avveniva con gli ebrei; essa è un impulso immanente alla vita stessa, una sua forma peculiare finalizzata al potenziamento”.

Il corpo, appunto. Centrale nella concezione filosofica di Spinoza, attraverso l’analisi delle passioni, e in Nietzsche, grazie ai concetti di volontà di potenza e di grande salute. E tuttavia Esposito eseguirà nel suo libro, Bìos, un successivo spostamento: dal corpo alla carne. Riprendendo gli studi di Merleau-Ponty, egli mette in guardia dall’utilizzare l’idea di corpo che è storicamente collegato all’idea di corpo politico, di centralità, di chiusura, di limite; di una concezione insomma ancora metafisica risalente ad un paradigma personalistico. Meglio il concetto di carne, che, sebbene sfruttato anch’esso dalla tradizione cristiana, riflette la spersonalizzazione, l’attuale disidentità.

Questa spersonalizzazione, ben rappresentata anche dai quadri di Bacon, è, per usare termini deleuziani, pura schizo-analisi. Esposito, collegandosi esplicitamente alla filosofia di Deleuze, prova ad affrancare alcuni concetti chiave (corpo, carne, nascita, nazione, persona) dal dispositivo culturale e linguistico della modernità. Non si tratta solo di decostruire e smontare una certa ideologia, ma di rimontarla modificandola e depotenziandola. Il negativo diventa l’affermativo; trasformare il piombo in oro: ecco il gioco segreto dell’alchimista. Coglie molto bene questo aspetto Spina: “Non si tratta di silenziare il carattere animale del vivente uomo, bensì di ripensarlo da una prospettiva che, anziché ridurlo al negativo, ne esalti la potenza affermativa”. Esposito ‘rivitalizza’ certi concetti desueti per ridargli valore e un nuovo senso politico.

Certamente vi potrebbe essere il pericolo di assomigliare troppo al nemico che si affronta. Affacciarsi troppo sull’orlo dell’abisso potrebbe costituire un pericolo. Utilizzare per esempio certi filosofi di riferimento cari ai nazisti (Nietzsche, Heidegger, Schmitt) potrebbe rafforzare questa impressione. Spina ne è consapevole. Scrive l’Autore: “un discorso del genere presenta, naturalmente, dei rischi notevoli. Accostare bìos e zoe, umanità e animalità, spirito e corpo in un processo unico potrebbe far pensare ad una vicinanza del discorso di Esposito ai presupposti della biopolitica nazista”.

La posta in gioco di cui parla Spina nei primi capitoli è allora quella di liberare le interpretazioni del totalitarismo e del nazismo alla luce di posizioni esterne al nazismo stesso. Per smontare e decostruire il nazismo occorre impossessarsene, distruggendolo da dentro, farlo implodere sotto le sue stesse contraddizioni e aporie. È un gioco sporco, pericoloso ma l’unico possibile per neutralizzare e disinnescare certi concetti-bomba. Esposito opera sulla base dell’immanentismo fenomenologico e per certi versi arendtiano, isolando il paradigma totalitario e scollegandolo storicamente da ogni dato storico pregresso. Criticando il Foucault di Bisogna difendere la società, che mostrava una tesi continuista, la quale conduceva ad un esito storico per certi versi necessario, iniziato con la nascita della sovranità e della storia delle razze, fino a giungere al razzismo di Stato e al nazismo, Esposito riconosce invece nel totalitarismo un evento nuovo (come per Arendt) che può essere adesso analizzato iuxta propria principia.

Spina affronta con grande chiarezza espositiva anche il confronto tra il pensiero del filosofo napoletano con altri filosofi come Agamben, Deleuze, Derrida, di cui qui ovviamente non possiamo tenere conto. Il filosofo calabrese comprende che questo approccio metodologico di Esposito richiama anche certe importanti pagine del Foucault ontologo dell’attualità. Ma è proprio il paradigma immunitario che Esposito utilizza e che eredita, seppure in parte, da Nietzsche e Foucault e dal loro approccio archeologico-genealogico. Essi avevano compreso che “ogni potere è sempre al contempo sulla/della vita e potere sulla/della morte”.

Ogni organismo protegge sé stesso e la sua vita dando la morte a chi lo minaccia dall’esterno e dall’interno. Cosa è successo allora al nazismo, rispetto ad altre forme di potere, se ha seguito anch’esso un principio bio-logico basato sulla ricerca di un equilibro tra communitas e immunitas? Si può forse dire che il nazismo ha condotto all’eccesso il sistema immunitario finendo per divorare sé stesso? L’equilibrio omeostatico che è alla base di tutti gli esseri viventi si è destabilizzato, come accade a certe patologie autoimmuni che attaccano anche la parte sana del corpo? Spina conclude che “il nazismo si presenta come una forma estrema e perversa di una comunità immunizzata”. Una comunità che ha rivelato, materializzato, realizzato, portato all’eccesso questa forma immunitaria, tanto che l’Autore la definisce una biocrazia.

Di fronte alla salute dei propri cittadini ogni Stato, anche quello di oggi, interviene a curare e a garantire una vita sana, grazie alla legittimità del sapere medico su cui non si può dissentire; tutti si devono adeguare a queste norme sociali e chi non obbedisce alle leggi può essere stigmatizzato, licenziato, emarginato, sanzionato. Ma il nazismo invece si caratterizza proprio per avere spinto all’eccesso questo meccanismo immunitario, eliminando fisicamente coloro i quali erano considerati malati e incurabili o geneticamente impuri rispetto alla sua idea di perfezione razziale e finendo per autodistruggersi.