Il "ritorno" della religione: un approccio filosofico e teologico
Elisabetta Giovanna Lapolla La Vista
08.09.2024

Contrariamente a quanti, sulla scia di un “quasi” inesorabile processo di secolarizzazione, ne prevedevano il declino, la religione costituisce ancora oggi, nella società contemporanea, un importante fattore di aggregazione e di integrazione sociale, anche se assistiamo, come si è visto, ad una loro «radicalizzazione fondamentalistica» e ad una «strumentalizzazione politica dei loro potenziali di violenza», fenomeni che, secondo il filosofo Jürgen Habermas, accentuano «l’impressione di stare vivendo una resurgence of religion» ((J. Habermas, Rinascita delle religioni e secolarismo, Morcelliana, Brescia 2018, p.17).

Come afferma lo studioso Jonathan Sacks nel testo Non nel nome di Dio. Confrontarsi con la violenza religiosa, «il XXI secolo sarà più religioso del XX secolo», e una delle ragioni è il «fallimento delle società occidentali dopo la seconda guerra mondiale nell’affrontare il più sostanziale dei bisogni umani: la ricerca di un’identità». Le grandi fedi-sostiene l’A.-rispondono a tale esigenza, «offrono significato, direzione, un codice di condotta e una serie di regole per la vita morale e spirituale» (J. Sacks, Non nel nome di Dio, p.29). La scienza, la tecnologia, il libero mercato, lo stato democratico liberale ci hanno permesso di ottenere risultati importantissimi a favore della civiltà, in termini di conoscenza, di libertà, di aspettativa di vita, ma non sono capaci di rispondere alle tre fondamentali domande esistenziali: «Chi sono? Perché sono qui? Come devo vivere?». Dunque, secondo J. Sacks, «la religione è ritornata perché è difficile vivere senza significato» (Ivi, p.24). Solo che è ricomparsa non nel suo aspetto «dolce, mistico, irenico ed ecumenico» che ci aspettavamo, ma in una forma violenta e aggressiva, «pronta a dare battaglia ai nemici del Signore, a causare l’apocalisse […]» (Ibidem). Nella forma, afferma J. Sacks, della «malvagità altruistica», cioè del «male perpetrato nel nome di una causa sacra, nel nome di nobili ideali», che «può trasformare delle persone normali […] in spietati assassini a sangue freddo di studenti, operatori umanitari, giornalisti e fedeli in preghiera» (Ivi, p.20).

Soprattutto nella nostra epoca, pervasa dalla globalizzazione, dal declino dei legami tradizionali e delle istituzioni sociali, i vuoti creati sono colmati dalla solidarietà e dai sentimenti religiosi che hanno principalmente, come si è visto, una funzione aggregante.

Mentre alcuni studiosi si concentrano sull’aspetto violento e polemogeno delle religioni, proponendo la loro eliminazione dalla sfera pubblica, altri, sottolineandone il potenziale positivo e “umanizzante”, auspicano che le società si pongano in dialogo costruttivo con esse. È questa, ad esempio, la prospettiva di «apprendimento complementare» sostenuta dal filosofo Jürgen Habermas e dal teologo Joseph Ratzinger durante uno stimolante confronto tenutosi il 19 gennaio 2004 presso l’Accademia Cattolica di Baviera a Monaco.

J. Habermas sostiene che le società moderne secolarizzate devono aprirsi al dialogo con la religione, in quanto non potrebbero dirsi liberali e democratiche se non accogliessero e tutelassero i contributi di tutti i suoi componenti, compresi quelli religiosi. La secolarizzazione della società può essere compresa, infatti, come «un processo di apprendimento complementare» in cui «entrambe le parti possono prendere sul serio reciprocamente anche dal punto di vista dei fondamenti cognitivi il loro contributo a temi controversi nella sfera pubblica» (J. Ratzinger/Benedetto XVI-J.Habermas, Etica, religione e Stato liberale, Morcelliana, Brescia 2022, p.37).

Certamente, questo implica uno sforzo reciproco da parte sia della religione sia della ragione. Habermas dice chiaramente che la religione, per poter esercitare la propria influenza nella sfera pubblica, deve abbandonare il dogmatismo: se essa nasce originariamente come « “immagine del mondo” o “comprehensive doctrine” anche nel senso che essa pretende l’autorità di strutturare interamente una forma di vita», deve oggi «rinunciare a questa pretesa di un monopolio interpretativo e di una strutturazione complessiva della vita», riconoscendo l’autorità delle scienze, l’autonomia dello Stato e rispettando il pluralismo delle fedi religiose (Ibidem).

Questo rapporto tra religione e società secolare non può essere unilaterale perché pure la ragione secolare deve rimanere «sempre disponibile ad imparare e a tenersi osmoticamente aperta -senza per questo sacrificare la propria autonomia-su tutti e due questi fronti» (J. Habermas, Fede e sapere in J. Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L. Ceppa, Einaudi, Torino 2002, p.103).

Pertanto, nella società post-secolare in cui «il confine tra ragioni religiose e ragioni secolari è in ogni caso fluido», entrambe le parti sono chiamate ad accogliere in maniera cooperativa, avvalendosi di un «common sense democraticamente illuminato», «anche la prospettiva della parte avversa» per la costruzione di una «sfera pubblica polifonica» (Ivi, p.107).

Questa prospettiva di «apprendimento complementare» tra religione e ragione è condivisa dal cardinale Joseph Ratzinger. Egli rileva che, accanto alle «patologie della religione», tra cui si possono senz'altro citare quelle di movimenti religiosi che alimentano la violenza e il terrorismo, vi sono però anche le «patologie della ragione», come quelle che hanno portato alla costruzione di terribili armi di distruzione (J. Ratzinger-J. Habermas, Etica, religione e Stato liberale, p.55).

La fede deve porsi in dialogo con la ragione perché, sostiene Ratzinger, esiste una «necessaria correlatività tra ragione e fede, ragione e religione, che sono chiamate alla reciproca purificazione e al mutuo risanamento, e che hanno bisogno l'una dell'altra e devono riconoscersi l'una l'altra» (Ivi, p. 56). Ratzinger ricorda come la ragione debba essere «ammonita sui suoi limiti ed esortata a imparare una disponibilità all’ascolto verso le grandi tradizioni religiose dell’umanità» (Ivi, p.55). Egli descrive l’età contemporanea come caratterizzata dall’enorme sviluppo delle possibilità dell’uomo: se con la fine della Seconda Guerra Mondiale abbiamo scoperto di essere in grado di distruggere noi stessi e il nostro pianeta grazie all’invenzione della bomba atomica, il terrorismo è una minaccia costante per l’umanità, che arriva persino a presentarsi «come difesa della tradizione religiosa contro l’empietà della società occidentale» (Ivi, p.47). Inoltre, mentre la religione stessa sembra coltivare in sé i germi dell’intolleranza e dell’estremismo, la scienza ci ha reso capaci di «fare» gli esseri umani, di utilizzarli per esperimenti e di scartarli. In questo panorama, in cui si manifestano le patologie sia della religione sia della ragione, si rende più che mai urgente un’«evidenza etica efficace» (Ivi, p.48) che risponda alle nuove sfide della società e al bisogno di “senso” ritenuto necessario di fronte al processo di globalizzazione. Quest’ultimo, infatti, se da un lato ha aperto interessanti prospettive «in termini di creatività umana, mobilità, progresso individuale», dall’altro ha introdotto «nuovi elementi di divisione» e «nuove pulsioni che spesso si traducono in violenza».(R. Toscano, Il potenziale violento delle identità in V. Ianari, Religioni e violenza, Mondadori, Milano 2014, pp.147-148).

Nel nostro mondo globalizzato non solo sul piano culturale ma anche religioso, in cui i conflitti non nascono solo per cause economiche o politiche, ma pure per un uso “distorto” delle religioni, è necessaria una nuova e diversa autocomprensione di queste ultime, recuperandone la valenza umanizzante e pacifica. Bisogna riconoscere in ogni confessione religiosa un sentimento di umanità, di compassione che ci accomuna, «una parola forte» che-sostiene P. Ricoeur-ci spinge a dire: «No, non ammazzate, dite la verità, siate giusti, rispettate i deboli»(H. Küng-P. Ricoeur, Il lato oscuro della fede. Religioni, violenza e pace, Medusa, Milano 2021, p.52).

Il teologo Hans Küng ci ricorda che «la vera umanità è il presupposto di una vera religione», perché l’umano (il rispetto della dignità umana e dei valori fondamentali) è un bisogno minimo per ogni religione; allo stesso tempo, «la vera religione è il compimento della vera umanità» perché, se si vuole realizzare «l’umanità come dovere veramente incondizionato e universale», «deve esserci proprio la religione», in quanto espressione di valori supremi e di un senso complessivo (H. Küng, Progetto per un’etica mondiale, Rizzoli, Milano 1991, p.121).

Affinché ciò avvenga, come ha intuito lo stesso Küng, «abbiamo bisogno di un più intenso dialogo filosofico-teologico sia tra i teologi sia tra gli studiosi delle religioni, che consideri seriamente dal punto di vista teologico la pluralità religiosa, raccolga le sfide delle altre religioni e ne studi il significato per la propria religione»(Ivi, p.173).

«La filosofia come attitudine umana, prima ancora che come una disciplina», ha il compito di «riattivare le coscienze» rispetto alla riflessione su queste tematiche, deve aiutare a «discernere», ovvero «distinguere le cause, gli effetti, le tendenze», ma anche «cercare tenacemente gli spiragli di miglioramento e di liberazione latenti» nel divenire della realtà (R. Mancini- B. Salvarani, Oltre la guerra, Effatà Editrice, Torino 2023, p.98). «Un’autentica riflessione filosofica […] ha il compito di riconoscere, di volta in volta, le migliori potenzialità latenti nella storia e nella nostra stessa umanità […]. È esercizio dell’intelligenza della responsabilità e della speranza […] eticamente orientata alla ricerca del bene comune»(Ivi, p.100). Questo pensiero critico, proprio della filosofia, è importante per superare un approccio intellettuale troppo rigido che ritenendo, ad esempio, la natura umana immutabile, considera la violenza come l’unica soluzione, e per contrastare un atteggiamento esclusivo e fazioso che tende a dividere, in maniera manichea, l’umanità in «noi» e «loro»(Ivi, p.99).

Dal canto suo, soltanto una teologia, dialogante, interreligiosa, volta a promuovere l’intesa e la collaborazione tra le religioni, può aiutare ad arginare tale settarismo, come ha suggerito H. Kung nel saggio Progetto per un ethos mondiale: «Non c’è convivenza umana senza un ethos mondiale delle nazioni; non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni; non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni» (H. Küng, Progetto per un’etica mondiale, p.174).

Il dialogo con le altre religioni, infatti, purifica la fede che cessa di essere «esclusivista o ecclesiocentrica, come spesso è stata nella storia la religione cristiana nei confronti delle altre» (R. Mancini- B. Salvarani, Oltre la guerra, p.80).

Questa breve disamina ha cercato di mostrare come la riflessione filosofica e quella teologica possano contribuire al superamento di certi comportamenti intransigenti, in cui si nascondono le radici della violenza e del fanatismo religiosi. È auspicabile, dunque, da una parte fare appello alla ragionevolezza, secondo la prospettiva di «apprendimento complementare» tra religione e ragione prospettata da J. Habermas e da J. Ratzinger, dall’altra far emergere, come propongono P. Ricoeur e H. Küng, quel fondo di umanità che ci lega in maniera nascosta, basato su un imprescindibile «imperativo categorico», su una «regola aurea»-«una norma, non soltanto ipotetica, condizionata, ma categorica, apodittica, incondizionata», di cui l’imperativo categorico di Kant potrebbe essere «una attualizzazione e secolarizzazione» (H. Küng, Progetto per un’etica mondiale, p.82) . Questa regola aurea, attestata già in Confucio («Quello che tu stesso non desideri, non farlo neppure agli altri uomini») e presente in tutte le grandi tradizioni religiose(Ibidem), può costituire il cardine di una società fondata sulla cooperazione, sul dialogo e su solidi legami di solidarietà.