Il paradosso antropologico e l’antiantirelativismo giuridico
Stefano Berni

11.08.2024

Recentemente (luglio 2024) la Corte di Appello di Torino ha considerato non colpevoli dei genitori di cultura rom che picchiavano, con calci e pugni, le loro figlie, perché nella loro società nomade, secondo l’interpretazione del giudice, è “normale” e funzionale all’ambiente, disagiato e difficile, seguire quei particolari metodi educativi e punitivi.

Durante le mie lezioni di antropologia giuridica di tanti anni fa, presso l’università di Siena, solevo citare un caso simile (ottobre 2007) di un signore sardo che, in Germania, dopo aver violentato una donna, ebbe le attenuanti generiche in quanto il giudice tedesco riconobbe che la sua azione, benché colposa, non si configurava come un gesto volontario e consapevole, dato che era stato spinto dalla sua cultura patriarcale di appartenenza. Un caso analogo ma opposto accadde in Svezia alcuni anni dopo: un genitore italiano fu arrestato perché aveva dato uno schiaffo a suo figlio dodicenne che si rifiutava di entrare nel ristorante (agosto 2011).

Le prime due sentenze partono da un presunto relativismo culturale riconoscendo le differenze di comportamento tra la nostra cultura e un’altra presente nello stesso territorio. Su questa base giuridica sarebbe possibile riconoscere o giustificare tutte quelle pratiche extra occidentali che noi riteniamo illecite, come l’infibulazione, il matrimonio combinato, le spose bambine, ecc.

I giudici, in realtà, sono stati mossi, non da una norma di legge ma da uno spirito relativista, ossia dal riconoscimento delle differenti identità culturali rispetto alla nostra (diritto consuetudinario). Tale posizione relativistica è da considerarsi come un tratto culturale tipicamente occidentale.

Tali giudici relativisti cadono però in un paradosso: si comportano come occidentali progressisti, condividendo la posizione relativistica dell’Occidente, ma, nello stesso tempo, annichiliscono la propria cultura, che è quella di far rispettare la legge del proprio paese e di difendere i diritti acquisiti nel corso della nostra storia. Per dirla con Adorno, «il relativismo ha sempre avuto il momento reazionario, per quanto voglia spacciarsi per progressivo».

Insomma, confermando la loro posizione relativistica, i giudici rischiano contemporaneamente di negare la propria cultura, accettando invece quella degli altri e cadendo così in una contraddizione insanabile: permettere cioè a culture altre di esprimere i propri valori assoluti proprio in Occidente, fino al punto di mettere a repentaglio lo stesso ordinamento giuridico occidentale e la sua stessa cultura relativistica. Infatti, tali precedenti, a lungo andare, potrebbero moltiplicarsi e porre le basi di una società frammentata e eterogenea, fomentando l’assolutismo di fondo di culture diverse dalla nostra ma che ormai sono ben radicate nel nostro territorio.

Come risolvere questo paradosso tipico della cultura occidentale? Il modo migliore di uscire da questa impasse sarebbe l’antiantirelativismo proposto in antropologia culturale da Clifford Geertz: in breve, sostiene l’antropologo americano, dobbiamo riconoscere che è impossibile liberarsi, anche come antropologi o giudici, dalla nostra identità occidentale, ma possiamo, grazie alla nostra stessa cultura relativistica, cercare di capire la posizione dell’altro: comprendere però non significa giustificare. Comprendere che ogni azione dipende dalle culture di appartenenza non significa accettare acriticamente l’altro, altrimenti perderemmo e negheremmo la nostra stessa identità. Ciò, di fatto, risulta impossibile anche se per qualcuno sarebbe auspicabile. Infatti, come insegnano gli antropologi più avvertiti, è improbabile potersi spogliare dai propri abiti culturali. In realtà la metafora dell’abito è poco ‘calzante’: più che un abito la cultura è una vera e propria seconda pelle.

Un buon giudice, dunque, dovrebbe provare a comprendere (fin dove è possibile) una cultura diversa dalla sua, ma nello stesso tempo non può negare la propria. In conclusione, occorrerebbe che il giudice non fosse razionale e identitario, legalista (assolutista) ma nemmeno dovremmo avere un giudice relativista estremo che di fatto accetta, all’interno dell’Occidente, un pluralismo giuridico. Il giudice dovrebbe comprendere ma alla fine ha anche il dovere di giudicare, sapendo che «ogni giudizio è sempre un pre-giudizio» e che i fatti culturali vanno e sono interpretati sulla base del suo punto di vista occidentale.

In conclusione, nel caso svedese il giudice ha applicato legalmente e duramente la legge; nel caso tedesco il giudice ha concesso delle attenuanti generiche; nel caso italiano il giudice ha riconosciuto la non colpevolezza dei genitori. Quello dei tre casi che si avvicina di più all’antiantirelativismo di Geertz, secondo me, è quello giusto.