19.01.2025
Occorre dire che a dispetto di tanti commenti, più o meno allarmati (e spesso assai giustificati nel loro allarmismo), sull’ascesa politica della variabile-Musk (ma dovremmo forse dire della sorpresa di questa ascesa), l’articolo di Giuliano Ferrara su il Foglio di domenica 12 gennaio (Se la politica non è più calcolo e passione ma un’esplosione di energia) ha il merito di leggerne l’enigma sgombrando il campo da ogni lettura moralistica, così come da quelle pseudo-psichiatriche del “fenomeno Musk”, che sembrano ridurre a un non ben precisato difetto insieme razionale e morale la deriva politica di quello che, fino a non molto tempo fa, era comunque annoverato tra i campioni del capitalismo tecnologico in cui le sinistre di governo (tanto in America come nella scimmiottante Europa) riconoscevano le magnifiche sorti del progressismo liberista contemporaneo.
Potremmo aggiungere alla puntuale lettura di Ferrara, che vede nell’ascesa politica di Musk e nel suo passaggio da Biden a Trump, l’abbandono di qualsivoglia vecchia e nobile concezione della politica, una lettura su che cosa questa ascesa ci racconta del capitalismo attuale? O, meglio, di cosa si agita all’interno di esso e quali fratture il capitale e le sue società stiano vivendo? Perché è soltanto in ragione di un conflitto interno al capitale che il fenomeno Musk appare pienamente leggibile. O, comunque, qualsivoglia lettura sul passaggio (altrimenti incomprensibile, o interpretabile soltanto come opportunismo o, appunto, come irrazionalismo) di Musk alle posizioni della destra estrema non può non tenere conto dello scontro interno al capitalismo che questo passaggio implica e descrive.
Non c’è dubbio infatti che, al di sotto del suo mutamento di fronte politico, dell’attacco a capi di stato, primi ministri, nonché alle posizioni che Musk esprime e mette in atto, compreso il suo sostegno (che non può essere il nostro) ai partiti di estrema destra, c’è certamente e prima di tutto il prendere forma di un conflitto interno al capitalismo mondiale e al modo in cui questo ha definito e sostenuto, attraverso il suo sistema produttivo, l’assetto delle società occidentali più avanzate e dei suoi poteri fino ad oggi.
Per anni, più che i suoi atteggiamenti personali da giovane star dell’universo liberal degli anni 60, le aziende di Musk e i suoi obiettivi hanno infatti marciato allineati con un certo pensiero che si affermava progressista in termini di sviluppo sostenibile, ecologico, di parità di genere, eccetera. Che immaginava trasformazioni sociali e produttive senza precedenti, dall’abbandono dei combustibili fossili, a un’interazione uomo-macchina che doveva permettere di ridurre o superare limiti fisici e patologie, fino al sogno per eccellenza di tutte le tribù nerd del mondo: la colonizzazione di Marte, l’ipotesi di un nuovo inizio in una natura completamente artificiale, depurata il più possibile di ogni forma negativa d’esistenza, di cui fosse possibile definire artificialmente i principi, in funzione di una possibilità di convivenza e cooperazione fondate finalmente sui valori di merito e giustizia, amen!
Sogno di libertà futura dopo la fine del marxismo e dei movimenti politici degli anni 60 e 70, e che a partire dagli anni 90 si era appunto ricreato come promessa di liberazione immaginando (utopia delle utopie) di liberare le dinamiche dello sfruttamento ereditate dal XIX secolo nello spazio del capitale grazie a una doppia idea. Che lo spazio fisico non fosse più quello che doveva definire il campo della lotta politica, poiché questa si sarebbe sempre più spostata nello spazio tecnologico virtuale; e che quest’ultimo sarebbe stato più facilmente contendibile da parte di un nuovo attivismo tecnologico, con risvolti positivi sul piano sociale e politico. E se un capitalismo dei social ha potuto svilupparsi è certamente perché ha avuto dietro di sé il sostegno di una ingenua ideologia della rete quale spazio finalmente libero da ogni forma di controllo, in cui la libertà avrebbe permesso di dare vita a nuovi rapporti sociali e politici.
Se il capitale è in sé divenire, espropriazione e trasformazione forzata di spazi, corpi, istituzioni, rivoluzione inarrestabile di ogni definizione data e di ogni identità, allora le stesse aziende di Musk e lo sviluppo tecnologico che esse esprimono, compreso il sogno a lungo termine della creazione di un mondo nuovo al di là e al di fuori del Mondo, potevano essere lette come l’affacciarsi di un futuro in cui lo sviluppo tecnico di un capitale rivoluzionario avrebbe trasformato in positivo ogni definizione sociale stabilita, insieme a ogni struttura produttiva, economica, eccetera. Le sinistre riconvertite al liberismo avevano quindi trovato in Musk, dopo averne cercato espressione in altri campioni del capitalismo tecnologico (rivelatisi presto ancor più rapaci del modello di capitale che avevano in molti settori contribuito a mettere in crisi), la personificazione di un’ideale di modernità in cui la libertà trovava espressione all’interno e per mezzo del capitale stesso (con tutto ciò che questo ha comportato sul piano dell’involuzione riformatrice di cui quella sinistra è stata artefice).
Cosa faceva sì che questa posizione, comprese le innovazioni dello stesso Musk, non creasse problemi di assetto di potere all’interno del capitale e delle società occidentali? Il fatto, per esempio, che lo sviluppo dell’auto elettrica fosse diventato a un certo punto competizione tra tutte le aziende del settore riducendo, in questo modo, il potere di Musk e contendendone il primato in molti settori. I governi europei e quello americano, così come quello cinese, sembravano infatti aver definito un modello industriale in cui le intuizioni di Musk (all’inizio considerate spesso con una certa superficialità, se non con ironia, come appunto l’auto elettrica) sarebbero diventate naturalmente un nuovo modello di sviluppo costituito da più attori in competizione tra di loro.
Una serie di crisi a catena (che ora è inutile qui ripercorrere) ha però cambiato il gioco in corso, scoprendo che le carte dello sviluppo tecnologico erano distribuite ormai diversamente, e tutte o quasi a vantaggio di Musk.
L’industria occidentale dell’auto è improvvisamente apparsa incapace di tenere fede alla riconversione produttiva che l’elettrificazione comportava, e la trasformazione è andata incontro al suo parziale fallimento. Lasciando perdere le ragioni per cui questo è avvenuto (tutte in capo ai vari governi e all’industria tradizionale), quello che sembra esserne seguito è che Musk si è ritrovato a quel punto isolato in una posizione di vantaggio tecnologico e di potere obiettivamente inediti. E l’isolamento si è ampliato agli altri settori delle sue innovazioni, che insieme alla ricerca sull’auto elettrica le aziende di Musk hanno saputo nel frattempo (a differenza di molte altre) sviluppare. Questo vantaggio non ha soltanto isolato Musk in termini di qualità ma anche, appunto, in termini di potere. Che da economico, scientifico e tecnologico (avendo Musk raggiunto il primato quasi assoluto in molti ambiti e settori “sensibili”) si è fatto immediatamente politico, dandogli ormai la forza di interferire e di esercitare la sua influenza sull’intero assetto economico-sociale delle società liberali occidentali.
Tuttavia sembra mancare ancora un passaggio a questa rilettura. Perché quanto appena descritto non spiega in realtà come e perché il ruolo di Musk sia diventato a quel punto anche politico, con il tratto di aggressività e irruenza che in alcuni casi lo contraddistingue. Per arrivare a questo occorre forse tenere prima conto di quello che la crisi dell’auto (e il sostanziale fallimento del passaggio all’elettrificazione del trasporto di massa privato) ha a quel punto significato per i governi e gli organismi sociali in Occidente. Ovvero, la presa d’atto che l’evoluzione economico-sociale del capitale, che ha portato l’Occidente dagli anni 50 al quarto di secolo del nuovo millennio, dipende ancora tanto strettamente dai vecchi assetti produttivi, più di quanto le utopie tecnologiche e della rete lasciavano immaginare o si auguravano che fosse.
Per due motivi. Perché la produzione dell’auto elettrica riduce a dismisura la filiera produttiva dell’auto tradizionale, con ripercussioni sociali di ampio impatto sull’occupazione; e dall’altro perché essa interpreta il sempre più evidente disinteresse delle nuove generazioni per il possesso di un’automobile dando a questo disinteresse l’idea di un utilizzo sociale differente del mezzo privato, che ne abolisce nel medio-lungo periodo la proprietà. Ma l’arretratezza dell’industria occidentale dell’auto rispetto a ciò che il suo sviluppo elettrico permette di prevedere si rivela soprattutto in questo, nell’aver interpretato lo sviluppo dell’auto elettrica ancora con le vecchie categorie del consumo individuale di massa.
La guida autonoma che il veicolo elettrico è in procinto di sviluppare toglie infatti al possesso dell’auto ogni aspetto egotistico e lo rende a sua volta obsoleto; ed è quindi in grado di affrontare l’attuale perdita di interesse per il possesso di un’automobile da parte dei consumatori. Non sarà infatti più necessario acquistare un’auto quando sarà sufficiente prenotarne una e farsi trasportare dove occorre quando occorre. Un colpo mortale all’industria tradizionale dell’auto e al sistema sociale che con essa si è nei decenni sviluppato.
Al netto di tutte queste questioni, il vecchio assetto economico-politico ha deciso che l’innovazione si doveva fermare a un grado intermedio, o doveva comunque rallentare. I sindacati, i governi, i partiti della sinistra prima impegnati a intestarsi la bandiera dello “sviluppo sostenibile” hanno aperto alla revisione della produzione, avviando a quel punto anche un conflitto interno allo stesso capitale. Come se all’alba del XX secolo la produzione di carrozze avesse deciso di fermare la produzione dell’auto e ci fosse riuscita. Marxianamente: il morto ha afferrato il vivo. E a farne innanzitutto le spese sembra stata, non a caso, proprio l’autorizzazione al sistema di guida autonoma dell’auto elettrica che Musk si attendeva (senza aggiungere le altre questioni che Musk ha dovuto comunque affrontare sul piano finanziario, a partire dalla sostanziale imposizione all’acquisto di Twitter).
Questo conflitto interno al capitale è forse senza precedenti nell’epoca recente e per questo difficile da definire anche nei suoi sviluppi. Tuttavia ha già dato luogo a qualcosa di altrettanto inaspettato e inquietante, l’alleanza di Musk con tutto ciò con cui le sue innovazioni sembravano in precedenza in competizione: prime fra tutte, l’industria del petrolio e le forze politiche che ne sono sempre state garanti. E dopo la vittoria di Trump alle politiche americane, questo passaggio è stato presto replicato dalle altre aziende tecnologiche e della Silicon Valley che, come quelle di Musk, erano state arruolate negli ultimi decenni nel ruolo della nuova economia progressista. Ma anche qui, occorre aggiungere una precisazione, perché questo improvviso cambio di fronte da parte di alcune delle più importanti aziende tecnologiche non è avvenuto in ossequio a Musk, ma alla nuova amministrazione americana. O, se vogliamo, per non perdere la competizione con Musk e con la sua nuova egemonia.
Che questo allineamento esprima una contraddittoria alleanza tra modelli industriali e sociali paradossalmente inconciliabili, anche quando il gioco degli opportunismi li rende vicini, è ciò che lascia ancor più nell’indeterminatezza il nostro futuro. Perché non c’è dubbio che il potere che queste alleanze concentrano determina oggi un rischio evidente per la sopravvivenza dello stesso sistema democratico. O, per lo dirlo più chiaramente di un certo moralismo giornalistico, ne prefigurano il superamento in un sistema indefinito, fondato unicamente sulla forza, tanto privo di garanzie quanto di pensiero e di chiarezza politica. Con istituzioni infinitamente più deboli del potere e degli interessi in gioco all’interno di qualsivoglia ordine costituzionale – che, a quel punto, rischia di diventare puramente decorativo, obsoleto come il suo vecchio sistema economico.