Governare con il terrore
Propaganda e potere nell’epoca dell’informazione globalizzata
Giorgio Bianchi

14.05.1966

Capitolo primo



Io sono il ministro della Paura e, come ben sapete, senza la paura non si vive! Una società senza paura è come una casa senza fondamenta: per questo io ci sarò sempre nel mio ufficio bianco, con la mia scrivania bianca di fronte al mio poster bianco… Aah che paura!
Ci sarò sempre con i miei attrezzi del lavoro, la mia pulsantiera, pulsante giallo, pulsante arancione, pulsante rosso rispettivamente poca paura, abbastanza paura, paurissima.
E seguendo correttamente questo stato d’animo io aiuto il mondo a mantenere ordine.
Antonio Albanese

Ognuno di noi abita simultaneamente due mondi molto diversi: il mondo reale e il mondo narrativo. Il vero mondo fisico della materia, degli atomi e delle molecole e delle stelle e dei pianeti e degli animali che vagano cercando di mordersi e accoppiarsi tra loro spesso ha ben poco a che fare con il mondo narrativo, fatto di storie e chiacchiere mentali. Le persone potenti hanno capito da tempo che se controlli le storie che le persone raccontano su sé stesse, puoi controllare le loro risorse e la loro realtà. Dai preti ai politici, dagli amministratori delegati agli architetti della guerra, tutti hanno compreso profondamente l’importanza di mantenere il controllo della narrazione.
Caitlin Johnstone

Non è essenziale che noi viviamo o meno in un mondo “oggettivamente” più sicuro di tutti i mondi precedenti – l’anticipazione inscenata delle distruzioni e delle catastrofi obbliga ad agire preventivamente.
Ulrich Beck


La globalizzazione ha determinato dei cambiamenti talmente radicali negli assetti sociali, politici ed economici degli Stati, che gli individui hanno iniziato a mostrare nei confronti del futuro un sempre maggiore sentimento di paura piuttosto che di speranza o fiducia.

Il fenomeno che forse più di altri ha agevolato il compimento di questo processo è stata la rivoluzione informatica. Lo sviluppo della comunicazione telematica ha infatti intensificato esponenzialmente la circolazione di informazioni e il trasferimento, quasi in tempo reale, dei capitali da una parte all’altra del mondo, stimolando il commercio internazionale e l’integrazione dei sistemi economici a livello globale. La possibilità offerta ai capitali finanziari di muoversi liberamente ha avuto come conseguenze immediate quella di allentare il controllo sui processi economici da parte dei governi nazionali e una rapida delocalizzazione delle produzioni dalle aree più ricche e industrializzate del pianeta alle zone più povere e depresse, nelle quali era infinitamente più basso il costo del lavoro e la coscienza di classe dei lavoratori.

Se è innegabile che la globalizzazione ha determinato un aumento generalizzato della ricchezza, consentendo a un gran numero di Paesi emergenti di incrementare notevolmente il proprio PIL e di far uscire milioni di persone dalla condizione di povertà assoluta, è altrettanto vero che nei Paesi più ricchi, oggetto del conseguente processo di deindustrializzazione, essa ha finito per alimentare, dopo una prima illusione di speranza e di progresso, un aumento costante delle paure socialmente diffuse e una condizione di crescente insicurezza.

I cittadini del cosiddetto primo mondo, soprattutto le nuove generazioni, oggi si sentono più che mai socialmente vulnerabili e per questo motivo vivono in una condizione di continua angoscia esistenziale e di sempre maggiore incertezza riguardo al futuro. Questo perché la globalizzazione è stata accompagnata da un progressivo processo di indebolimento di quei dispositivi – lo Stato, la proprietà privata, i diritti sociali – che erano stati costruiti dall’uomo occidentale a partire dal Seicento, al fine di “porsi al sicuro” rispetto alle proprie paure.

Lo Stato moderno sorge al termine delle guerre di religione del XVI secolo e viene proposto come il dispositivo politico a cui demandare la messa in sicurezza degli individui per quanto concerne la loro incolumità personale. Tali conflitti avevano dissolto l’ordine medievale fondato sull’equilibrio tra papato e impero, lasciando una società che appariva allo sguardo di Thomas Hobbes in balia di una “guerra di tutti contro tutti”, condizione che il filosofo ben descrisse attraverso il concetto di “stato di natura”.

Nella concezione di Hobbes, gli individui soggetti allo “stato di natura”, trovandosi ad avere tutti quanti gli stessi diritti su qualsiasi aspetto della vita collettiva, godono del massimo grado di libertà; ma questo comporta anche maggiori margini di insicurezza per via del fatto che chiunque – in assenza di leggi e di autorità in grado di farle rispettare – può attentare alla vita del prossimo e dei suoi familiari, e mettere le mani sulle sue proprietà. Sulla base di queste premesse Hobbes teorizzò la costituzione di un potere politico capace di ergersi al di sopra dello “stato di natura” e rispetto al quale i cittadini, rinunciando a parte delle proprie libertà, decidevano di sottomettersi, concedendogli la possibilità sia di promulgare leggi uguali per tutti sia di disporre dell’uso della violenza in modo esclusivo per farle rispettare.

Lo Stato, essendo a questo punto l’unico soggetto legittimato all’utilizzo della violenza legale, diviene garante della sicurezza dei cittadini, sia dalle minacce interne, come la criminalità e la guerra civile, sia dai pericoli esterni, come i conflitti con le altre potenze. Nella filosofia politica di Hobbes appare quindi evidente come la sicurezza sia l’altra faccia della libertà: solo un individuo la cui esistenza sia al sicuro, può essere libero di esprimere appieno le proprie facoltà.

Nelle pagine del De cive emerge chiaramente che il benessere dei cittadini, che il potere dello Stato promette di garantire in cambio di un contratto di sottomissione, non si limita alla salvaguardia della “nuda vita”, ma anche nel poter godere di un’esistenza per quanto possibile “felice”.

Ma qual è la felicità a cui sta alludendo il filosofo britannico?

È la felicità di sentirsi al sicuro.

Pertanto nel nuovo paradigma politico della modernità introdotto da Hobbes, la paura assurge al ruolo di catalizzatore, di passione primordiale ma nello stesso tempo razionale, che indica all’umanità il cammino verso l’uscita dallo “stato di natura”, dove il timore determinato dall’incertezza riguardo al proprio futuro risultava così insopportabile da dover essere scongiurato sacrificando ad esso parte della propria libertà.

La dottrina politica di Hobbes rappresenta in questo senso lo spartiacque che lega indissolubilmente l’ordine politico moderno alla paura; una relazione particolarmente salda in quanto garantita da un legame a doppio filo: da un lato abbiamo l’aspettativa di un futuro relativamente sicuro per via delle garanzie offerte dallo Stato che, in cambio della rinuncia alla libertà naturale e della stipula del contratto politico, pongono l’individuo al riparo dalla paura della morte e dall’incertezza della sua esistenza; dall’altro il potere politico assume le caratteristiche che Hobbes descrive nel Leviatano già a partire dalla figura rappresentata sul frontespizio dell’opera, ovvero diviene monopolista nell’uso legittimo della forza/violenza e attraverso di essa attira su di sé tutte le paure che i cittadini nutrivano precedentemente.

Secondo la lettura fornita da Giorgio Agamben riguardo a questa raffigurazione, i piedi del sovrano rappresentato nell’illustrazione non poggerebbero a terra e neanche su un territorio, ma sul più instabile e terrifico corpo del Leviatano.

Nel celare l’immagine mostruosa del Leviatano, la cui presenza è rivelata esclusivamente dal nome che dà il titolo all’opera, il drappo disegnato nel frontespizio comunica al lettore che i piedi del sovrano sono privi di fondamenta e che quindi esso si sostiene esclusivamente grazie alla terrifica forza del governare. Il sipario ci comunica che alla base della legittimità del sovrano (che, ricordiamolo, ha nel corpo il popolo) a governare non c’è altro se non l’atto stesso del governare, cioè l’aver il controllo in ogni momento del territorio e della popolazione, attraverso un terrore diabolico paragonabile a quello di un mostro marino.

Dunque, la percezione dei pericoli a cui è esposta la nuda vita dell’uomo produce una domanda di sicurezza, che viene soddisfatta dalla politica attraverso la costruzione dell’artificio statuale, che riveste l’individuo dell’abito “sicuro” del cittadino e si configura pertanto come il luogo della neutralizzazione razionale delle passioni o, anche, dell’uso ragionevole delle passioni umane.

Per mezzo di questa autorità datagli da ogni particolare nello Stato, è tanta la potenza e tanta la forza che gli [al Leviatano] sono state conferite e di cui ha l’uso, che con il terrore di esse è in grado di informare le volontà di tutti alla pace interna e all’aiuto reciproco contro i nemici esterni (Leviatano, II, XVII).

È in questo passaggio che è possibile individuare il momento fondativo in cui la coscienza moderna sente per la prima volta la necessità del potere politico, ovvero di un potere terrificante che si esprime nella veste dell’artificio rappresentativo della sovranità; vale a dire la necessità di un potere che da quel momento in poi appaia come una forza sovrumana che raccolga su di sé tutta la violenza naturale, rimanendone così l’unica depositaria, costituendo finalmente una società ordinata e pacificata, cioè razionale, e ciononostante fondata sulla paura dell’enorme potenza del Leviatano.

Accanto allo Stato, la globalizzazione ha messo in crisi anche il secondo dispositivo al quale si sono affidate le società avanzate per mettersi in sicurezza rispetto alle proprie paure, ovvero la proprietà privata.

La proprietà è lo strumento atto a garantire l’indipendenza economica di ciascun individuo. Secondo il paradigma introdotto da Hobbes, per essere libero, cioè sicuro, in una società nella quale l’attività economica è regolata dai mercati e quindi per sua natura soggetta a eventi accidentali, il cittadino deve poter disporre di mezzi che lo rendano libero di sopravvivere, indipendentemente dagli altri individui.

Quindi lo Stato, per mezzo delle leggi, non dovrà garantire soltanto la sicurezza dell’individuo, ma anche la sicurezza dei suoi beni, cioè la proprietà. Le proprietà sono le risorse a partire dalle quali un individuo può esistere senza dipendere da un padrone o dalla carità altrui. Per dirla con Castel: “è la proprietà che garantisce la sicurezza di fronte agli imprevisti dell’esistenza, alla malattia, all’infortunio, alla miseria di chi non può più lavorare”.

Con l’avvento della Prima Rivoluzione Industriale Stato e proprietà privata, non riuscendo più a garantire un’adeguata messa in sicurezza della società civile, entrano progressivamente in crisi; a partire poi dalla seconda metà del XIX secolo, con l’allargamento dei mercati e l’incremento esponenziale dell’accumulazione capitalistica, emerge con sempre maggior rilevanza il problema sociale della condizione del proletariato, ovvero di tutti quegli individui che non dispongono di altri beni al di fuori del proprio lavoro e della propria famiglia. Per questa classe sociale infatti, la proprietà privata non risulta essere uno strumento sufficiente a garantirne una condizione di vita dignitosa. Per i proletari, il diritto fondato sulla proprietà risulta di fatto essere soltanto formale.

Pertanto a un certo punto, per garantire la tenuta sociale dello Stato e quindi la sua messa in sicurezza, si rende necessaria l’estensione dei diritti di cittadinanza a tutti i soggetti produttivi, ivi comprese le masse di proletari. È necessario garantire protezioni non solo per il soggetto proprietario ma anche per il semplice lavoratore.

Il Novecento vede la nascita del terzo fondamentale strumento per la messa in sicurezza delle classi meno abbienti ma lavoratrici, e con loro di tutto l’apparato statuale. A fianco dei diritti civili individuali si vengono pertanto progressivamente ad affermare i diritti sociali. Come sottolinea Castel “il lavoro è diventato l’impiego, cioè una condizione dotata di uno statuto che include garanzie non commerciali, come il diritto al salario minimo, le protezioni del diritto del lavoro, la copertura degli infortuni, della malattia, il diritto alla pensione, etc.”. Quindi accanto alla proprietà privata emerge la cosiddetta “proprietà sociale”, ovvero un tipo di proprietà a cui possono accedere tutti coloro che erano esclusi dalle protezioni garantite dalla proprietà privata.

Ovviamente questo terzo dispositivo aveva comunque lo scopo di garantire la messa in sicurezza degli altri due, ovvero lo Stato e la proprietà privata, dal rischio di sommosse e tumulti. Da quel momento in poi le società occidentali cominciarono a reggersi su questi tre pilastri.

Oggi a causa della globalizzazione assistiamo ad un indebolimento simultaneo di tutti e tre questi strumenti di controllo sociale. Gli Stati stanno inesorabilmente cedendo terreno alle strutture di potere sovranazionali per ciò che riguarda il controllo sull’economia e sulla società; la proprietà è oramai una facile preda per i grandi capitali finanziari; mentre le delocalizzazioni, il dumping salariale e il controllo dell’inflazione, a discapito della piena occupazione, stanno progressivamente erodendo i diritti sociali.

La globalizzazione in pratica sta demolendo contemporaneamente tutti e tre questi pilastri di tenuta sociale. Si sta determinando da anni un processo di continuo e costante svuotamento del ruolo degli Stati Nazionali a vantaggio di soggetti politici trans-nazionali, che va di pari passo con il progressivo smantellamento dei diritti sociali sostituiti dal progressivo allargamento dei diritti civili alle minoranze.

La stampa, o più in generale il mondo dell’informazione, che avrebbe dovuto svolgere un compito di vigilanza su questi processi, ha subito anch’esso un processo di globalizzazione, concentrandosi sempre più nelle mani di pochi soggetti, spesso legati al mondo del grande capitale o della finanza.

Questo fenomeno ha fatto sì che il ventaglio delle sorgenti primarie delle notizie sia andato nel tempo sempre più restringendosi, fino a giungere alla situazione attuale, dove le notizie si avvicendano senza sosta, sospinte dalla necessità di arrivare per primi, e senza dare il tempo ai soggetti posti alla base della piramide dell’informazione di verificarle adeguatamente o commentarle, o di metterle in relazione con altre riguardanti gli stessi argomenti. Al punto in cui siamo le informazioni vengono il più delle volte semplicemente inoltrate ai propri lettori attraverso un processo di copia-e-incolla delle fonti primarie. Il risultato di questo processo è un flusso ininterrotto di informazioni che girano per il mondo alla velocità di Internet, il più delle volte senza che ci siano giornalisti in grado di verificarle sul posto, o anche solo di analizzarle e metterle in relazioni con le informazioni date in precedenza.

È chiaro quindi che una volta erosi due dei tre pilastri che reggono le società contemporanee, al 'sovrano' non resta altro che puntare tutto sul terrore e sull’offerta di sicurezza nei confronti della minaccia che la narrazione ufficiale tende a enfatizzare in quel determinato momento. In questo senso la deriva verso una società autoritaria diventa quasi una scelta obbligata.


RIFLESSIONI DI FILOSOFIA DEL DIRITTO SU "LIBERTA' E POTERE AI TEMPI DELLA PANDEMIA"

Al di là del pensiero di Carl Schmitt, dunque, per una concezione storica della Sovranità, nei rapporti tra Popolo e Potere.

Nelle Repubbliche, al tempo dell’emergenza epidemica, i Governi si sono fatti Sovrani. Quindi dichiarano l’esistenza di uno stato di eccezione e lo disciplinano comprimendo ogni altra garanzia costituzionale, piegata alla determinazione del Sovrano che interpreta autonomamente ciò che è “bene o male” per il Popolo. Il Popolo vive solo di ciò che il Sovrano ritiene che sia necessario per la sua vita. Chi non accetta di vivere secondo le regole, i divieti e gli obblighi, è di per sé asociale, ponendosi al di fuori del Popolo… è Homo Sacer.

Occorre chiedersi che cosa accomuni Svezia, Norvegia e Danimarca, Stati a cui aggiungerei la Spagna. In questi Regni, gli obblighi e le restrizioni sono minimi, se non assenti. In Spagna le Corti hanno ripetutamente dichiarato illegale ogni divieto. Sono i Regni, dove esiste un Sovrano costituzionale, a garantire le libertà. Non è un paradosso. Nessuno può farsi Sovrano laddove un Sovrano legittimo esiste.

E non è casuale la fortissima oscillazione che ha segnato il comportamento del governo inglese: è forte la tensione per la successione alla Corona tra il figlio Carlo e i nipoti della Regina che hanno il sangue degli Spencer.

Italia e Francia sono i due Stati dove incombono le elezioni al più alto livello Presidenziale. Qui le restrizioni e i divieti sono fortissimi. Qui, la sfida della legittimazione è enorme, esistenziale: il potere ha bisogno di mostrarsi illimitato.

Anche in Germania il tema è riconducibile alla sovranità distribuita, visto che i Länder rivendicano una legittimazione che risale a ben prima della Repubblica federale. Basti vedere i privilegi della Baviera, vero Stato nello Stato.

E non è casuale il conflitto enorme che caratterizza la materia negli Usa, con gli ordini presidenziali dichiarati illegittimi dalle Corti dei singoli Stati e i legislatori di singoli Stati che deliberano di “vietare ogni divieto”. È un tema di rapporti tra libertà e Potere, laddove le monarchie costituzionali se ne fanno garanti. Esistono Sovrani legittimi e non c’è spazio per chi si fa Sovrano dichiarando e disciplinando lo Stato di eccezione. Laddove nelle Repubbliche, in cui il potere popolare è l’unica fonte di legittimazione del governo, questo si fa Sovrano del Popolo, dunque “libero di non rispettare i principi di libertà” che non hanno più un Garante.1


In un contesto del genere l’individuo, essendo stato oltretutto privato dei legami sociali capaci di rassicurarlo, si sente sempre più solo e come tale si ritrova a essere più vulnerabile alla propaganda e a guardare al futuro alternando sensazioni di speranza a quelle di paura.

Per questo motivo la narrazione politica oggi fa un discorso che si richiama costantemente a queste due pulsioni. Abbiamo guardato al futuro con speranza quando i promotori della globalizzazione ci hanno prefigurato, dopo il crollo del Muro di Berlino, un avvenire di progresso e prosperità. Non appena gli effetti collaterali di questo processo hanno cominciato a manifestarsi nelle nostre società, abbiamo cominciato a guardare all’avvenire con crescente paura.

Oggi che tale promessa di un benessere perpetuo sembra essere definitivamente tramontata, senza rendersene conto, la nostra società ha prodotto una specie di ideologia della crisi, un’ideologia dell’emergenza, che in modo impercettibile ma inesorabile, si è insinuata ad ogni livello, dallo spazio pubblico alle sfere più intime e private, fino a costituire in ciascuno di noi un nuovo modo di pensarci come persone.

Le nostre società appaiono sempre più regolate da un’azione di governo basata sulla prevenzione e sulla neutralizzazione del rischio (da non confondere con il pericolo) come requisito fondamentale richiesto a ogni livello e in ogni contesto nazionale e internazionale, pubblico e privato.

Nella modernità il rischio — di attentati terroristici, di pandemie, di catastrofi ambientali dovute al cambiamento climatico, di crisi del mercato finanziario — non è più un evento ipotetico che ha un certo grado di probabilità di accadere in presenza di determinate condizioni; il rischio ora va in scena nel presente, diventando quasi reale e contribuendo alla crescita di una condizione di perenne incertezza, precarietà e insicurezza. Il rischio dipende infatti da fattori che, pur appartenendo al futuro e pur essendo meramente probabilistici, vengono però avvertiti e tematizzati nel presente.

In questo senso la paura che prefigura una eventuale catastrofe non è meno reale della catastrofe stessa.

La scienza in questo modo finisce col perdere la sua posizione esterna rispetto ai rischi. Non è più fonte ispiratrice delle soluzioni ma si colloca all’interno del rischio, diventa contraddittoria, scettica sulle sue stesse possibilità conoscitive e, infine, fonte stessa del problema.

Le nuove istanze securitarie sorte a seguito della crisi dei meccanismi di tutela sociale, in particolare del sistema del welfare, si stanno mostrando sempre più preminenti rispetto alle tradizionali priorità secondo le quali le istituzioni sociali andrebbero organizzate.

Data la necessità di offrire soluzioni alla condizione di incertezza esistenziale in cui versano i paesi occidentali, i governi si mostrano sempre più inclini a considerare come “normali”, risposte autoritarie che agiscono a discapito delle garanzie costituzionali e che vengono legittimate in ossequio al principio di precauzione, il principio che ha assunto negli ultimi tempi un ruolo centrale nei dibattiti pubblici nazionali e internazionali in tema di sicurezza, rischi ambientali, strategie militari e politiche sanitarie.

Zygmunt Bauman ritiene che la caratteristica principale della paura oggi è quella di essere una “paura di secondo grado”. “Una paura che, indipendentemente dalla presenza immediata o meno di una minaccia, orienta il comportamento dell’essere umano dopo aver modificato la sua percezione del mondo e le aspettative che ne guidano le scelte”. La paura di secondo grado è uno stato d’animo che può essere sintetizzato come una sorta di ansia fluttuante unita ad una ipersensibilità al pericolo. In quest’ottica la paura si stacca dalla sua potenziale origine e si trasforma in un senso paranoide di minaccia costantemente avvertito. Questo processo ha moltiplicato a tal punto le possibili cause del sentimento della paura, che essa ha finito per distaccarsi dalle sue sorgenti per trasformarsi in una sensazione generalizzata che data la sua natura aspecifica, può facilmente essere ricondotta ad origini diverse da quella che l’hanno realmente generata.

La tendenza a coltivare e a dirottare scientemente la sensazione di paura generalizzata è ampiamente utilizzata per fare fronte alla crisi apparentemente irreversibile di credibilità della politica e del mondo dell’informazione. Infatti tra i prodotti più venduti attraverso lo sfruttamento di sensazioni di angoscia e di paura, ci sono sicuramente il “prodotto politico” e il “prodotto giornalistico”. In pratica questi particolarissimi “beni di consumo” alimentano quella che possiamo tranquillamente definire come una vera e propria “economia della paura”.

Giovanni Arrighi usa spesso il termine di “grande inganno” per definire la strategia utilizzata dagli apparati di governo e di intelligence statunitensi per diffondere paura tra le popolazioni civili, al fine di attirare consenso verso di sé mediante la diffusione di un sentimento di ostilità verso presunti avversari o nei confronti dei nemici geopolitici che si intende colpire: Al –Qaida, Russia, Siria, Iran, Cina…

La disillusione del tutto post-novecentesca riguardo alla possibilità che la politica sia uno strumento efficace per ottenere un reale cambiamento del mondo dominato dalla globalizzazione, sta determinando da un lato una totale alienazione delle classi dirigenti dal proprio corpo elettorale, mentre dall’altro sta provocando una crescente diffidenza nei confronti della politica, che di conseguenza è sempre più costretta ad invocare continue situazioni di emergenza per legittimare il proprio potere.

Per lo stesso motivo anche gli organi di informazione cercano di mantenere alta l’attenzione del pubblico attraverso un richiamo costante alla sfera emozionale e uno stimolo continuo della soglia di allarme.

Il risultato è quello di una sensazione di paura indistinta che può in molti casi portare alla percezione della presenza del nemico di turno ovunque: dalla persona dai lineamenti mediorientali che sale in treno o in aereo (che potrebbe essere un terrorista), fino al passante che viene incrociato sul marciapiede senza mascherina. Il punto non è quanto questi soggetti siano realmente un pericolo per la nostra incolumità; la questione è con quali lenti cognitive stiamo guardando il mondo.

Il rischio infatti è che la paura cessi di essere un sentimento soggettivo e che divenga sempre più un vero e proprio strumento di governo capace di regolare i rapporti e le divisioni sociali.

Oltre a un sentimento coltivato e scientificamente diffuso attraverso i mezzi di comunicazione di massa al quale la politica attinge al fine di legittimarsi e ottenere consenso, oggi possiamo ipotizzare la paura come un vero e proprio strumento di governance.

Le esigenze securitarie sono quelle che attualmente dettano i criteri di organizzazione delle più importanti istituzioni presenti nella società.

In un clima del genere il leader politico ha facile gioco nel vendere alla collettività l’immagine del buon padre di famiglia responsabile e protettivo, cosciente dei pericoli e della necessità di prevenirli prima ancora che si manifestino, ma che al contempo sa essere inflessibile e duro contro chiunque possa mettere a rischio la sicurezza e la salute pubblica.

In quest’ottica i terroristi e i dissidenti, rispetto alle forme di governo securitarie, finiscono per costituire il terzo vertice del triangolo del potere: pur essendo considerati un pericolo per la sicurezza e la salute pubblica, risultano comunque essere perfettamente funzionali alla narrazione che legittima la paura delle vittime e la conseguente risposta autoritaria da parte dei governanti, che si sentono a quel punto legittimati a rivestire il ruolo di protettori.



1  urly.it/3h-xb l.

©Giorgio BianchiGovernare con il terrore. Propaganda e potere nell’epoca dell’informazione globalizzata, Meltemi 2022