04.08.2024
È aperta dal 13 aprile la mostra al MAMbo FRONTIERA 40. Italian Style Writing 1984-2024, curata da Fabiola Naldi, che vanta un lungo percorso di ricerca nell’ambito dell’arte urbana e che prende le mosse dal percorso intellettuale di Francesca Alinovi (Parma, 1948 - Bologna, 1983), in relazione soprattutto all’esposizione Arte di frontiera. New York Graffiti, dalla cui ideazione corre il 40° anniversario. Come ricercatrice e critica militante attenta ai fenomeni artistici sperimentali negli anni ’70 e ’80, le si è voluto riconoscere il merito di aver portato il fenomeno spontaneo dei writers a New York in Italia, sebbene non abbia potuto curare e inaugurare ella stessa la mostra, a causa della sua prematura scomparsa per femminicidio. La mostra curata da Fabiola Naldi ha quindi il grande pregio di riuscire a condensare la complessità storica della figura di Francesca Alinovi e delle sue ricerche, rendendole un caldo omaggio, e tuttavia con profonda originalità mostrando la contemporaneità di quel fenomeno per come si è sviluppato in Italia nel corso di questi quarant’anni. In questa intervista ho cercato con la curatrice Fabiola Naldi di far emergere le stratificazioni e il fondamentale valore culturale che emerge dalla mostra FRONTIERA 40. Italian Style Writing 1984-2024.
Buongiorno, innanzitutto mi sembra necessario iniziare chiedendole del ruolo della figura e della ricerca di Francesca Alinovi nell’economia della mostra Frontiera 40. Italian Style Writing 1984-2024, per come sembra essere centrale da un punto di vista così personale per lei, ma anche certamente storico-artistico.
FN:
Io studio e scrivo di Francesca Alinovi da molti anni. Dove c'è
Francesca Alinovi spesso c'è anche Fabiola Naldi, da una parte per
combinazione di percorsi accademici simili e dall’altra per
collaborazioni, seppur in decenni diversi, con i suoi colleghi (fra
cui Renato Barilli). Io mi sono laureata e specializzata con Renato
Barilli in Fenomenologia degli Stili. Francesca Alinovi non si è
laureata con Renato Barilli, bensì con Francesco Arcangeli ma si è
poi specializzata con lui poco prima di essere assunta in università
come ricercatrice. Per ricerche mie personali, per passioni personali
che stavo maturando immediatamente dopo la laurea, durante gli anni
della specializzazione ogni volta che cercavo un libro alla
biblioteca Igino Benvenuto Supino dell’Università di Bologna,
scoprivo che questo era appartenuto a Francesca Alinovi ed era stato
donato dalla famiglia Alinovi. Ho iniziato ad appassionarmi agli
stessi ambiti di ricerca e, senza rendermene conto, ho sviluppato poi
molti degli argomenti che lei aveva precedentemente trattato. Nel
frattempo sono cresciuta, sia come ricercatrice, sia come critica
indipendente, riconoscendo nei suoi testi un’incredibile
lungimiranza: la sua attuale contemporaneità critica, a distanza di
40 anni, riguarda tutte le ricerche sviluppate attorno lo spazio
pubblico, lo spazio artistico e lo spazio occupato da giovani
operatori culturali in maniera spontanea. È importante ricordare che
Francesca Alinovi nel 1979 cura con Renato Barilli una mostra a
Palazzo Reale dal titolo Pittura-ambiente
e, in qualche modo, dà vita a una riflessione sul fatto che la
pittura, quando si relaziona con uno spazio, tenta un rilancio fuori
dal supporto bidimensionale della tela. Quelli sono anche gli anni in
cui inizia a viaggiare da Bologna a New York. Allora era impossibile
non vedere quello che stava capitando: a partire dai primi anni
Settanta, New York viene letteralmente attaccata da questa nuova
generazione di autori (non li chiamerei artisti, se non a partire
dalla prima metà degli anni ’80) che prendono coscienza di che
cosa significa autorappresentarsi attraverso l'occupazione di spazio,
seppur in maniera non autorizzata. Tra l'82 e la prima metà dell'83
Alinovi scrive due importanti articoli, “Arte di frontiera” e “Lo
slang del Duemila”, pubblicati entrambi su Flash Art, in grado di
identificare ed intensificare l'attitudine di questa nuova
generazione di autori attivi per le strade di New York.
Nel frattempo, di ritorno dall’ennesimo viaggio americano propone all’allora direttore della Galleria d'Arte Moderna di Bologna Franco Solmi, un nuovo progetto espositivo che diventerà, seppur postumo, Arte di Frontiera. New York Graffiti. La sua morte nel giugno del 1983 porterà un gruppo ristretto di amici a realizzare quel progetto nel marzo del 1984 prima a Bologna e poi replicata a Milano e a Roma. Arte di frontiera viene poi chiusa nel cassetto, con molti ricordi, un catalogo (edito da Mazzotta) divenuto introvabile e molto prezioso, alcune opere attualmente in collezione al MAMbo Museo d’Arte Moderna di Bologna donate sempre dalla generosa Brenna Alinovi. Questo è l'aspetto storico che l'anno scorso mi ha portato a riflettere sulla possibilità di poter ricordare Francesca attraverso questa mostra fondamentale. Tuttavia, è importante ricordare che quella mostra non fu curata dall’Alinovi, seppur ci fossero gli appunti, i suggerimenti, una ipotetica lista degli artisti, ma il suo omicidio ha reso impossibile tutto quanto avrebbe potuto fare. Io ho quindi utilizzato quel pretesto per ricordarla e omaggiare la sua ricerca. La mostra si apre con il video che avevo ritrovato nel 2009 quando Gianfranco Maraniello mi incaricò di digitalizzare l’archivio video della GAM. Ho così scoperto questo filmato amatoriale dove si vedono Futura 2000, Crash, Daze, Toxic intenti a dipingere sulla terrazza della Galleria d’Arte Moderna. Il video riporta sostanzialmente la fase preparativa della mostra in cui i quattro realizzano le tele per la mostra. Oltre questo non c’è volutamente altro della mostra del 1984.
Non ho voluto esporre le opere del 1984 come non ho voluto realizzare il solito progetto in cui i cimeli, i ricordi e le varie documentazioni fotografiche prevaricano l’idea stessa. Sono partita dal 1984 e sono andata oltre nell’unico modo che conosco: rileggendo la storia e operando la critica d’arte allo stesso tempo.
Emerge in modo evidente dalla mostra la sua profonda conoscenza del movimento del writing e degli autori che ne fatto parte, non solo dalla scelta di esporre lavori di 178 artisti, ma anche dalla scelta dei materiali per l’esposizione. Vorrei chiederle quindi quale sia stato il percorso curatoriale e critico per cui è arrivata a proporre la ricognizione del movimento e a compiere determinate scelte, che appaiono chiaramente frutto di un lungo lavoro di ricerca e di impegno sul campo.
FN: Io conosco intere generazioni di writers grazie alle quali ho saputo unire lo studio storico alla comprensione del movimento: ho usato la strada come territorio di ricerca e non sono mai stata un’operatrice culturale appartenente direttamente al movimento. Ritengo però opportuno anche eliminare un classico stereotipo che da sempre aleggia nel movimento: non serve aver dipinto in strada per conoscere la disciplina e portarla a essere espressione museale. La “vecchia” riflessione che se non sei un writer non ti puoi occupare di writing è ora inutile e a volte strumentale.
Mi hanno aiutato alcuni compagni di strada (come Spice, Rae, Rusty, Moe, Enko, Trota, Reser, Giose), l'idea era di ragionare su che cosa fosse successo a partire da Arte di frontiera. È importante ricordare che alcuni graffitisti americani erano già in Italia a partire dalla fine degli anni Settanta, grazie a gallerie, agenzie di comunicazione, etichette musicali, ma l’impatto istituzionale del museo ancora tardava ad arrivare.
Le gallerie sapevano perfettamente che molti di questi autori dalla seconda metà degli anni ‘70 si erano “trasformati” in artisti e quindi avevano un “peso” espositivo e commerciale differente dalla loro stessa presenza in strada.
Partendo da questo, si apre un tema generazionale che prevede di fatto, oggi, una compresenza di varie figure, anche da un punto di vista anagrafico. Così dall'84 fino al 2024 noi abbiamo assistito a diverse evoluzioni stilistiche che hanno saputo modificare, sofisticare, ampliare gli stilemi dei pionieri americani. La prima è la generazione di coloro che hanno visitato la mostra Arte di frontiera, a Bologna come a Milano o a Roma: stiamo parlando dei primi ragazzi dei muretti milanesi o delle crew di prima periferia, dei primi treni romani o dei muri bolognesi che, sappiamo, “parlano” da sempre. Si può osservare una seconda generazione, che non è anagrafica, ma è stilistica, con uno scarto di età di 5-10 anni rispetto a quella sopracitata, che vede la propria presenza più massiccia nel passaggio tra ’80 e ‘90, per poi giungere a quelli che iniziano a lavorare nella seconda metà degli anni 90. Infine, chiamiamoli i più giovani, coloro che sono attivi dalla seconda metà del 2000 fino ai giorni nostri.
Ovviamente queste generazioni si sovrappongono perché continuano a dipingere, a lavorare, sono assolutamente attivi e quindi non c'è una reale divisione cronologica, quanto invece un aspetto sincronico in cui le varie figure si accavallano, si sovrappongono, collaborano, si sfidano, si aiutano, si cancellano. In poche parole, fanno crescere esponenzialmente il movimento.
Focalizzandoci
quindi sulla scelta dei materiali per l’esposizione, cioè disegni,
bozzetti, sketches, vorrei approfondire con lei l’argomento della
differenziazione stilistica nel movimento del writing, per cui, come
fruitori della mostra, si è effettivamente in grado di osservare la
complessità sincronica delle forme di stile…
FN: La mostra Frontiera 40 ha un sottotitolo, Italian Style Writing, che denota una specifica attenzione al lettering, alla lettera, tralasciando volutamente l’aspetto più figurativo del graffiti writing un po' perché non mi interessa particolarmente, un po' perché le grandi consapevolezze, le grandi crescite stilistiche sono avvenute nell’evoluzione delle singole lettere rappresentate. Continuo a ripetere che ne mancano moltissimi anche se coloro che non potevano assolutamente mancare ci sono, ritengo quindi di aver comunque svolto il mio ruolo. Fammi anche aggiungere che il dispositivo scelto, ovvero la teca museale, non è “strumento” semplice e in questa precisa occasione ho utilizzato tutto ciò che il MAMbo poteva permettermi di utilizzare. La riflessione sul bozzetto parte da un interrogativo che ha pervaso la mia ricerca fin dai primi passi, come avrei potuto realizzare una mostra museale sul movimento più impattante degli ultimi 50 anni nel panorama visivo. Ad un certo punto ho ritenuto che, per indagare la disciplina dovevo far riferimento a quel momento molto intimo, concettuale, mentale nel quale l’autore si concedeva il tempo, lo spazio, la possibilità singola di far evolvere il proprio stile. Ecco perché il disegno non va inteso come solo atto preparatorio o documentario, bensì come elemento proprio. A volte alcuni di quei bozzetti che io ho esposto sono stati realizzati al di là del foglio, ma altre volte assolutamente no. Fanno parte, perciò, di quel percorso continuativo che investe molti di loro, a partire dal momento in cui si usa la carta come palestra di lettere, spesso nella dimensione del quaderno, piccolo o grande che sia, ovvero ciò che solitamente viene identificato con book (fino al black book, un preciso supporto con fogli senza righe o quadretti normalmente utilizzati dai writer di tutto il mondo): per questo motivo la dimensione spesso utilizzata è in A4.
E per quanto riguarda la questione dello spazio a disposizione del museo?
FN: Io non volevo usare le pareti, ma lo spazio-ambiente ribaltando l’aspettativa del visitatore e, allo stesso tempo, autorizzando e istituzionalizzando la loro presenza in un museo tramite l’allestimento di un preciso dispositivo. L’utilizzo della teca museale (seppur ora sdoganata anche nelle istituzioni artistiche che si occupano di contemporaneo) è prevalentemente utilizzata nei gabinetti delle stampe e dei disegni dedicati all’epoca medioevale e moderna, luogo preposto allo studio delle fasi preparatorie dei grandi autori del passato. Ho utilizzato undici teche, sparse per le sale del MAMbo, nel foyer o nel mezzanino per raggiungere la collezione. Tutto lo spazio si fa museo e i visitatori sono chiamati a fare uno sforzo di attenzione nel cercare, e trovare, tutto il materiale esposto scontrandosi con queste invasioni di campo. L'idea che si irrompa nel museo con queste undici teche, un po' al piano terra, un po' nel mezzanino, un po' in collezione, è stata ispirata dalla volontà di mettere in scena una specie di disturbo di frequenza – per citare in parte un’altra mostra curata da Francesca Alinovi.
Mi piaceva molto questo ribaltamento espositivo-museale che crea consapevolmente un po' di confusione: mostrare i 181 bozzetti uno di fianco all'altro, per chi non conosce tutti gli artisti e i nomi, può risultare un po' complesso, ma il QR code che rimanda al sito web e ai miei testi e a quelli di Francesca Alinovi dovrebbe aiutare nella comprensione. Non ho predisposto tuttavia molte altre informazioni, se non quando arriverà la pubblicazione, che sarà certamente densa di materiale sia visivo che testuale.
In sintesi, ho pensato a una mostra che invadesse fisicamente, ma anche concettualmente, un tempo espositivo da qui fino ai prossimi anni. Penso infatti che il libro avrà una lunga gestazione, per evidenziare le molte parti che hanno composto il progetto. In particolar modo il mio testo avrà una forte impronta fenomenologica, vicina ai cultural studies di stampo anglosassone, così da tenere in considerazione non le specificità legate ai singoli stili, ma proprio la trasversalità inerente al territorio italiano che si esplica attraverso quegli stili.
Questo ribaltamento dello spazio museale mi sembra di grande attualità per quanto riguarda il ruolo delle istituzioni nello sviluppo delle pratiche culturali in Italia, soprattutto laddove si esplica la necessità di definire percorsi espositivi come esito di processi di ricerca così strettamente focalizzati sulla nostra contemporaneità.
FN: Ritengo che in questo momento storico sia necessario essere estremamente critici nei confronti dei più recenti progetti espositivi che riguardano l’arte urbana e non solo.
Lavorare nei musei adesso non è facile, sebbene, in Italia solo i direttori abbiano delle occasioni espositive: oggi la figura del curatore indipendente pare non esistere quasi più, a meno che non sia legata a connivenze politiche.
Spesso mi chiedo se valga ancora la pena lavorare entro la cornice di un museo e non provare a ridefinire i luoghi e i paradigmi che li caratterizzano: ho sempre inteso la cultura visuale come una palestra del possibile nel quale l’idea stessa di museo, nella sua radice storica ed espositiva, chiedeva di essere costantemente messa in discussione. Ragionare attorno Arte di Frontiera. New York Graffiti, 40 anni dopo, partendo dalla mostra ma costruendo qualcosa di completamente diverso richiedeva un’ulteriore discussione. Inoltre, per omaggiare Francesca Alinovi attraverso il progetto del 1984 non potevo che pensare agli stessi spazi espositivi, seppure la Galleria d’Arte Moderna sia stata molto diversa da ciò che ora è il MAMbo.
Infine, siamo riusciti a trovare, grazie l’Ufficio Toponomastico, una piccola strada che è stata intitolata a Francesca Alinovi e che abbiamo inaugurato il giorno dell’apertura della mostra.
Pur appartenendo a un’altra generazione e non avendola conosciuta, Francesca di Alinovi ha silenziosamente accompagnato i miei percorsi di ricerca, professionali e personali. Sentivo il dovere di restituirle qualche cosa, rispetto a ciò che lei aveva dato a me nel corso degli anni, attraverso le sue intuizioni, le sue parole, le opere e le ricerche che aveva toccato.
Come ha già messo in luce, il rapporto tra spazi istituzionali e museali e il mondo del writing e dell’arte urbana negli ultimi anni si è caratterizzato per essere foriero di numerose controversie, che riguardano anche le caratteristiche e la specificità del movimento stesso. Come è stata accolta, quindi, da parte degli autori coinvolti, la sua proposta espositiva così calata dentro gli spazi del museo?
FN: Il progetto è stato subito accolto con entusiasmo e ha visto la partecipazione diretta degli autori; alcuni, pochissimi in realtà, si sono permessi di avanzare delle libertà “stilistiche ed espressive” legate al progetto. Ci sono state piccole invasioni di territorio, brevi appunti su come avrei dovuto fare o non fare, chi avrei dovuto chiamare e chi non avrei dovuto chiamare (i suggerimenti sono avvenuti in entrambe le direzioni). In parte il tutto è accaduto anche perché intrinsecamente legato alla disciplina stessa (che ricordo essere molto unidirezionale e alquanto “maschile” nei modi e nei termini di trattare la disciplina). Tutto questo ha portato spesso all’autoreferenzialità degli ambienti stilistici trattati. È stato difficile spiegare che non volevo costruire un’esposizione didascalica, che non mi interessavano le modalità espositive a cui avevo assistito in molte occasioni.
Vorrei a questo punto chiederle un approfondimento sul ruolo delle figure femminili nel mondo del writing, in relazione alla sua esperienza diretta nella lunga attività di ricerca e relazione.
FN: Le ragazze presenti in mostra sono otto, nove con me. Non smetterò mai di affermare che la presenza femminile nella disciplina, fin dalle sue origini, è stata importante e non ha nulla da insegnare alla massiccia presenza maschile. È un argomento emerso anche con Nemo e Dafne negli appuntamenti di + Public - Program, svolti al MAMbo nel maggio scorso. Io, tuttavia, continuo a pensare che un elemento di riflessione importante sia come alla figura femminile non sia concessa la stessa libertà di attraversamento e di movimento nei luoghi indispensabili alla disciplina stessa. La ricaduta legale per tutto ciò che fa parte del movimento, nelle sue pratiche indiscutibilmente non autorizzate è decisamente no-binary, ma ci sono anche altre forme di ricadute che sulla figura femminile sono sicuramente più ingerenti che non su quella maschile. Questo te lo potrebbero confermare anche le mie amiche di CHEAP con le quali mi capita di collaborare. Sono sempre stata interessata a tutto ciò che non è normato e che ora reclama la propria libertà di espressione, di azione, di esistenza.
Se, ancora nel 2024, attraversare un preciso spazio, di giorno e soprattutto di notte, risulta complesso o peggio pericoloso, le questioni che si aprono sono ben altre.