Cospirazione animale
Marco Reggio

26.03.2022

Introduzione


Al fondo della mia rivolta contro i forti, anche nei miei ricordi più lontani, trovo l’orrore delle torture inflitte agli animali. Dalla rana smembrata dai contadini e lasciata a trascinarsi sotto il sole, con gli occhi orribilmente fuori delle orbite, le zampe tremanti, in cerca di fuga sottoterra, fino all’oca a cui si inchiodano le zampe, fino al cavallo stremato dalle sanguisughe o sventrato dalle corna dei tori, l’animale subisce, penoso, il supplizio inflitto dall’uomo. E più l’uomo è feroce con la bestia, più striscia di fronte a coloro che lo dominano… È così che coloro che reggono il popolo agiscono verso di lui!”

Louise Michel

Deriva – Modo di comportamento sperimentale legato alle condizioni della società urbana: tecnica di passaggio frettoloso attraverso vari ambienti. Si dice anche, più particolarmente, per designare la durata di un esercizio continuo di questa esperienza”

Internazionale Situazionista


Questo è un libro antispecista.

Come succede spesso in vista di presentazioni pubbliche, interviste o dibattiti, qualcuno ricorda: “prima di tutto dovrete spiegare cos’è l’antispecismo”. Se non ci pensano in anticipo, spesso succede in apertura, quando arriva comunque la fatidica domanda. Oppure c’è una versione più da etnologo di fronte a una tribù sconosciuta: chi siete voi antispecisti? Che cosa significa essere antispecista? Com’è la vostra vita? Le prime volte, preso dall’entusiasmo di sentirmi parte di una “cosa” nuova, un po’ esotica appunto, mi ci mettevo d’impegno e ripetevo le definizioni classiche prese dai testi sacri, come Animal Liberation di Peter Singer.

 “L’antispecismo è quel movimento o teoria che si oppone allo specismo, cioè alla discriminazione su base di specie (analogamente al razzismo che discrimina sulla base del colore della pelle, per esempio)”. Facile. Però così sembra che il problema derivi da un’idea, mentre lo sfruttamento degli animali è molto materiale e la distinzione gerarchica fra chi è umano e chi non lo è diventa solo la giustificazione, l’ideologia che segue un fatto se vogliamo economico. Un po’ più di materialismo, insomma. E poi si aggiungono altre considerazioni, sul fatto che anche la distinzione fra umani e altri animali non è così semplice, forse è uno dei tanti modi di fondare un’oppressione sulla biologia (nulla di nuovo per chiunque si batta contro qualche ingiustizia, tutto sommato).

Chi siamo, come viviamo? Facile, siamo vegan. Non mangiamo carne e derivati dallo sfruttamento animale, non consumiamo altri prodotti animali; a volte è un po’ complicato, ma non ci lamentiamo, grazie.

Ora invece queste domande mi imbarazzano. Le risposte negli anni si sono fatte via via più elaborate. Non siamo animalisti, tanto per cominciare. Quest’ultima sembra una parola orribile, di per sé non se ne vedrebbe il motivo – basta pensare alla parola “femminista”: le femministe mica la snobbano, di solito – ma ormai è compromessa perché è associata a un attivismo pietistico e trasversale, che pretende di distinguere sempre e comunque la questione animale da tutte le altre forme di ineguaglianza che attraversano la nostra organizzazione sociale. “Né di destra, né di sinistra” (che, si sa, poi significa sempre: “di destra”). Noi, che in effetti ci chiamavamo “animalistə radicali”, preferiamo a questo punto dirci antispecistə. Di più, si tratta di antispecismo politico.

Ma poi di antispecismi politici ce ne sono tanti, e per fortuna. Alcuni assomigliano a una Teoria Unificante, magari si arrogano il diritto di essere l’antispecismo politico o vengono esposti nella forma del “Manifesto”, altri hanno meno pretese e gli aggettivi che via via li qualificano sono numerosi. Ognuno di essi apre mondi, proponendo idee stimolanti.

Le prassi, al momento, sembrano mancare. A fronte di tanta elaborazione teorica, anche in Italia, i movimenti per la liberazione animale sono in fase di stagnazione. Eppure essi hanno prodotto, e certamente produrranno, esperienze, situazioni, metodi disparati; hanno generato conflitti e alleanze con altri movimenti; hanno incontrato vittorie (poche) e sconfitte (tante). Da queste esperienze prendo le mosse per mettere alla prova l’antispecismo con alcuni problemi. Ma, appunto, perché questo imbarazzo a rispondere alla domanda di partenza?

Perché in fondo il modo in cui mi vivo io la liberazione animale è più che altro un posizionamento. Significa anzitutto riconoscere che appartenere alla specie homo sapiens è un privilegio: non essere immediatamente sacrificabile, macellabile, mercificabile. Un privilegio che, nel mio caso, si va ad aggiungere a una lista già ben delineata (sono un maschio cisgender, adulto, bianco, normoabile). Il primo passo è dunque riconoscerlo, ma poi bisogna capire che fare con questo privilegio per schierarsi concretamente con chi non ce l’ha.

Nelle conclusioni di Gender Trouble, Judith Butler osserva, quasi di striscio, che:

Le teorie dell’identità femminista che elaborano i predicati del colore, della sessualità, dell’etnicità, della classe e dell’idoneità fisica terminano immancabilmente con un imbarazzato “ecc.” alla fine dell’elenco. Attraverso questa traiettoria orizzontale di aggettivi, tali posizioni si sforzano di includere un soggetto situato, ma immancabilmente non riescono a essere complete. Il fallimento è tuttavia istruttivo: quale impulso politico deve essere fatto derivare dall’esasperato “ecc.” che si trova così spesso alla fine di tali elenchi?

Quale che sia la risposta al quesito quando il soggetto che lo enuncia è un(’)antispecista, credo che il turbamento di questi “eccetera” andrebbe preso molto sul serio. La politica antispecista mi è parsa spesso come un tentativo, quasi obbligato, di assumere pienamente su di sé le conseguenze che tale imbarazzo può generare, fra cui un “fallimento tuttavia istruttivo”.

L’“eccetera” non umano, dell’asse della specie o, più concretamente, dello sguardo che include gli animali comporta per certi versi un riorientamento gestaltico: vedi tutto sotto una luce diversa, quasi inquietante. Una delle prime cose che scopri è che lo sfruttamento animale è ovunque, in ogni oggetto, in ogni merce, che la storia umana è costruita su di esso, poggia letteralmente sul sangue; e – aspetto forse più sconcertante – lo trovi nelle idee, nel nostro modo di pensare fin dalla più tenera età.

Lo vedi nei prodotti culturali dove quasi nessunə sembra farci caso, il che a volte è proprio una brutta sensazione, e a volte è una piacevole scoperta. Se in alcuni casi, infatti, il tuo godimento di consumatore di cultura, di libri e film per esempio, viene semplicemente rovinato, in altri si fa spazio una sorta di meraviglia.

Questa meraviglia si manifesta quando scopri che il “mostro” di Frankenstein è vegetariano e non te n’eri accorto quando l’avevi letto prima dell’“illuminazione” (che termine orribile), o che il cane di Io sono leggenda di Richard Matheson è reale, è un compagno di vita e gli sforzi del protagonista per entrare in relazione con lui sono quanto di più tenero e disperato si possa immaginare. Gli animali non sono sempre solo metafore. E poi, quando vedi che nel film di Lana e Lilly Wachowski, Cloud Atlas, a Sonmi-451, uno dei cloni sfruttati e poi letteralmente macellati in una catena di (s)montaggio di una futura Seul, lə ribelli riescono a rimuovere chirurgicamente il chip sottocutaneo, pensi agli schiavi marchiati a fuoco ma anche ai cani fuggiti o salvati che hai conosciuto cui il microchip era stato tolto per sottrarli alle sevizie.

L’antispecismo è dunque imbarazzo, meraviglia e turbamento, e non è mai un punto di arrivo, ma piuttosto uno sguardo. Errico Malatesta una volta ha detto: “Nessuno e nessuna è anarchica, ma si è per l’anarchia”. Si è per la liberazione animale, per l’antispecismo forse; si è a fianco dei soggetti ribelli di ogni specie, complici. Si cospira: si respira insieme, si conviene immediatamente su ciò che è inaccettabile e si fanno piani per sovvertire la supremazia umana. L’azione diretta, dunque, attraversa questo lavoro, lo ispira e gli dà linfa. Azione diretta che significa tante cose: una rete che si spezza, una gabbia che si apre, unə prigionierə che evade, un corteo di umani, una campagna, una performance di strada e persino un libro.

Definirsi antispecistə, al contrario, ha poco senso ed è tremendamente noioso. Ecco perché le riflessioni che ho articolato in queste pagine non pretendono di comporre una Teoria Antispecista con le lettere maiuscole ma “soltanto” di proporre un approccio.

Un approccio orgogliosamente politico e intersezionale, che presiede a un’esplorazione – o, piuttosto, a una deriva – attraverso esperienze di lotta, letture, conflitti (anche umani). Un modo di stare nel problema, a contatto con esso, mostrando che un problema esiste, eccome, anche dove l’ideologia antropocentrica impedisce ai più di vederlo.

Il primo capitolo prova a fare i conti con la figura dell’imbarazzo, prendendo le mosse da un evento tragico e dalla difficoltà dellə attivistə di prendere parola sapendo di trovarsi in un luogo molto scomodo, all’incrocio fra specismo, genere e colonialismo.

Il secondo rievoca un conflitto, a suo tempo non riconosciuto come tale, fra attivismo disabile e attivismo animalista, introducendo i temi della vivisezione e della follia, della malattia e della salute.

Il terzo prova ad avvicinarsi alla costruzione della dicotomia umano/nonumano, ipotizzando la natura performativa di entrambi i poli ed esplorando il modo in cui sembrano intrecciati, ingarbugliati, alla colonialità, all’abilismo (la postura eretta), alla norma eterosessuale. Qui ho voluto evocare le voci della rabbia transgender, dei disability studies, della mostruosità e della teoria queer1.

Il quarto giunge al problema del “parlare per altrə”, una questione già di per sé complessa, figuriamoci se l’“altrə” non è umano. Le storie della resistenza animale mi hanno aiutato, spero, a far comprendere la posta in gioco, insieme alle voci di quelle attiviste che, come bell hooks, hanno preso parola dal margine.

Il quinto capitolo, infine, inizia a fare i conti con l’antropocene, con l’altalenante rapporto fra ecologia e liberazione animale. Un dialogo, e un conflitto, che è sempre più complesso, ma al contempo non procrastinabile.

Una nota “tecnica”. Ho cercato, per quanto possibile, di utilizzare e citare fonti in lingua italiana, senza privilegiare a priori gli scritti accademici (anche l’antispecismo ha bisogno di essere descolarizzato!). Credo si tratti di una forma di resistenza a una sorta di colonialismo interiorizzato e di vicinanza a chi – come il sottoscritto – non legge speditamente la lingua dominante, quella in cui sono scritti la maggior parte dei contributi “che contano”.


1 Si tratta di una riflessione che prosegue nella scia di quella abbozzata nel 2018 per il numero monografico di “aut aut” dal titolo Mostri e altri animali (cfr. M. Reggio, A quattro zampe. Note su animalizzazione, disabilità e colonialismo, in “aut aut”, n. 380, 2018, pp. 140-155).


© Marco Reggio, Cospirazione animale, Meltemi 2022