Un’epoca di entropia
A livello micro della società, la disintegrazione sistemica e la conseguente indeterminazione strutturale si traducono in uno stile di vita sottoistituzionalizzato, una vita all’ombra dell’incertezza, sempre a rischio di essere sconvolta da eventi inaspettati e disordini imprevedibili e in balìa dell’intraprendenza degli individui, dell’abile improvvisazione e della fortuna.
Dal punto di vista ideologico, la vita in una società sottogovernata di questo tipo può essere glorificata come una vita in libertà, non vincolata da istituzioni rigide e costruita autonomamente attraverso accordi volontari tra individui consenzienti che perseguono liberamente le loro priorità idiosincratiche. Il problema di questa narrazione neoliberale è, com’è ovvio, che trascura la distribuzione assai ineguale di rischi, opportunità, guadagni e perdite che viene dal capitalismo desocializzato, incluso l’effetto san Matteo1 del vantaggio cumulativo.
Ciò solleva la questione del perché la vita neoliberale associata all’interregno post-capitalista non sia più contrastata con forza, anzi, come possa godere di tutto il sostegno apparente che ha – una domanda che non trova una risposta soddisfacente nella frammentazione strutturale e regionale dell’opposizione anticapitalista in un regime di “globalizzazione”.
È qui che entra in gioco la “cultura”, che sembra diventare tanto più importante per l’ordine sociale quanto meno istruttive diventano le istituzioni che altrimenti normalizzerebbero i rapporti sociali. Senza istituzioni di supporto, l’onere di organizzare la vita quotidiana passa dal macro al microlivello, il che significa che l’onere di assicurare un minimo di stabilità e certezza – di creare un minimo di ordine sociale – passa al singolo2.
Il programma comportamentale della società post-sociale durante l’interregno post-capitalista è governato da un’etica neoliberale di automiglioramento competitivo, di coltivazione instancabile del proprio capitale umano commerciabile, di dedizione entusiastica al lavoro e di accettazione allegramente ottimista e faceta dei rischi inerenti a un mondo che ha superato il governo.
Che questo programma debba essere doverosamente implementato è essenziale, poiché la riproduzione della società post-capitalista lite è appesa al filo sottile di un repertorio malleabile di azioni individuali che colmano le crescenti lacune nell’architettura sistemica della società.
È probabile quindi che la critica strutturalista delle false istituzioni debba essere integrata da una rinnovata critica culturalista della falsa coscienza. Ciò che può anche diventare rilevante qui è il vecchio tema della relazione tra struttura sociale e carattere sociale, come descritto, tra gli altri, da Hans Gerth e Charles Wright Mills3. Qui, la questione è come una data struttura sociale richieda e, finché dura, produca un carattere corrispondente tra i suoi occupanti. Nel rispetto di questa tradizione, abbozzerò una prima fenomenologia del carattere sociale che corrisponde all’assenza di supporti istituzionali nell’attuale interregno, contribuendo così a prolungare la durata di quest’ultimo e fornendo una parvenza di integrazione e legittimità sociale.
Comincio richiamando l’attenzione su due termini chiave che sono divenuti recentemente di moda nel discorso politico-economico, perturbazione e resilienza, per poi passare a una breve descrizione di quattro caratteristiche fondamentali del modello comportamentale, a quanto pare necessario per ritardare il collasso finale del post-capitalismo sottogovernato.
Ciò che la perturbazione e la resilienza hanno in comune, oltre alla loro ripida ascesa come parole d’ordine che caratterizzano i tratti fondamentali della vita in un’epoca di entropia sociale, è che portano allo stesso tempo connotazioni minacciose e di buon auspicio. Mentre la perturbazione è stata tradizionalmente associata a una discontinuità imprevista, distruttiva e persino violenta – con conseguente sciagura per coloro che ne sono colpiti –, ora è sinonimo di innovazione economica e sociale radicale, è in effetti l’unica innovazione rimasta a fare la differenza, poiché attacca e distrugge in particolare le imprese e i mercati che operano per il soddisfacimento di tutti4.
L’innovazione che non è in questo senso perturbante, dirompente, non è abbastanza innovativa, poiché rispetta troppo il vecchio e potrebbe persino preoccuparsi eccessivamente, o essere politicamente vincolata, di non causare troppe vittime. È quindi destinata a essere superata nelle lotte competitive del mercato contemporaneo, dove non è sufficiente che qualcosa funzioni se qualcos’altro promette maggiori profitti.
La perturbazione può essere considerata la versione neoliberale della “distruzione creativa”: più spietata, più fuori dagli schemi, e meno disposta a fare prigionieri o ad accettare ritardi per essere “socialmente compatibile”. Invece, per coloro che ne fanno le spese, l’innovazione perturbante può essere catastrofica e purtroppo devono essere sacrificati come danni collaterali sul campo di battaglia darwiniano del capitalismo globale.
Resilienza è l’altro termine in ascesa, essendo stato solo di recente importato nella scienza sociale e nella politica dalla batteriologia, dall’ingegneria e dalla psicologia5. Nella letteratura di economia politica il termine è usato, a prima vista, in modo confuso, sia per la capacità degli individui e dei gruppi di resistere all’assalto del neoliberalismo6, sia per l’abilità di quest’ultimo come ordine, o disordine, sociale a prevenire o sanare il suo stesso collasso nel 20087, nonostante la sua povertà teorica e il fallimento pratico.
Sebbene i due significati possano sembrare opposti l’uno all’altro, non è necessariamente così, poiché le prassi che consentono agli individui di sopravvivere sotto il neoliberalismo possono anche aiutare il neoliberalismo stesso a sopravvivere. Si noti che la resilienza non è resistenza ma, più o meno volontariamente, adattamento. Più resilienza gli individui riescono a sviluppare al livello micro della vita quotidiana, meno domanda ci sarà per un’azione collettiva al livello macro per contenere le incertezze prodotte dalle forze di mercato – una domanda che il neoliberalismo potrebbe e non vorrebbe soddisfare8.
La vita sociale in un’epoca di entropia è per necessità individualistica9. Poiché le istituzioni collettive sono erose dalle forze di mercato, ci si possono aspettare imprevisti in qualsiasi momento, mentre viene meno l’agire collettivo per prevenirli. Ognuno è ridotto a cavarsela da solo, con il sauve-qui-peut come principio fondamentale della vita sociale. L’individualizzazione del rischio genera l’individualizzazione della tutela, attraverso sforzi competitivi (hard work) e, all’occorrenza, assicurazioni private – o, curiosamente, per mezzo di legami sociali più antichi e premoderni come la famiglia10.
In assenza di istituzioni collettive, le strutture sociali devono essere concepite individualmente dal basso verso l’alto, anticipando e accogliendo le pressioni verticistiche dei “mercati”. La vita sociale si compone di individui che costruiscono reti di connessioni private intorno a loro, come meglio possono, con i mezzi che hanno a disposizione.
La creazione di relazioni centrate sulla persona crea strutture sociali laterali volontarie e contrattuali, il che le rende flessibili ma deteriorabili, richiedendo una continua “interconnessione” per tenerle insieme e adattarle su base attuale alle circostanze che cambiano. Uno strumento idoneo a ciò sono i “nuovi social media” che producono strutture sociali per gli individui, sostituendo le forme volontarie a quelle obbligatorie delle relazioni sociali e le reti di utenti alle comunità di cittadini11.
Cosa fa andare avanti una società post-capitalista entropica, disordinata e in stallo, in assenza di una regolamentazione collettiva che contenga le crisi economiche, limiti le disuguaglianze, garantisca la fiducia nella moneta e nel credito, protegga il lavoro, la terra e la moneta dall’uso smodato e dia legittimità al libero mercato e alla proprietà privata attraverso il controllo democratico dell’avidità e la prevenzione della conversione oligarchica del potere economico in politico?
In un mondo senza integrazione di sistema, l’integrazione sociale deve portare tutto il peso della strutturazione, fino a quando non comincia a stabilirsi un nuovo ordine. Il capitalismo desocializzato dell’interregno è imperniato sulle prestazioni improvvisate di individui strutturalmente autoreferenziali, socialmente disorganizzati e politicamente depotenziati.
Quattro ampie tipologie di comportamenti sono richieste agli “utenti” delle reti sociali post-capitaliste per la riproduzione precaria della loro vita sociale entropica, conferendo resilienza sia a se stessi che a un capitalismo neoliberale altrimenti insostenibile, tipologie da identificare sommariamente e provvisoriamente in coping, hoping, doping e shopping12.
In sintesi, e senza necessità di ulteriori elaborazioni, il coping si riferisce al modo in cui gli individui rispondono con improvvisazioni e rimedi sempre nuovi alle emergenze loro inflitte da un ambiente sociale sottogovernato e dalle loro fluttuazioni imprevedibili e ingovernabili – emergenze che devono considerare normali e alle quali devono imparare a rassegnarsi come cose della vita13.
Mentre il coping può comportare uno sforzo individuale a volte estremo, non implica tuttavia l’organizzazione in azioni collettive, poiché percepite come inutili e, anche e sempre più, roba da perdenti, sfigati14. Il coping si accompagna a una costruzione sociale della vita come prova continua della propria resistenza, inventiva, pazienza, ottimismo e fiducia in se stessi – in sostanza, della capacità individuale ammestrata di dimostrarsi all’altezza di ciò che è divenuto un obbligo sociale, ovvero lottare con le avversità da soli e in eterno buon umore.
Il successo del coping è affiancato da una speranza (hoping) fiduciosa. Sperare è qui definito come il tentativo mentale individuale di immaginare e credere in una vita migliore che ci aspetta in un possibile futuro non così lontano, indipendentemente dal nostro destino già prestabilito.
Si potrebbe anche parlare di “sogno” nel senso in cui la parola è usata nel discorso politico e culturale americano, in cui avere un sogno per se stessi è un dovere morale che viene dall’essere un membro della comunità, forse l’ultimo dovere rimasto sotto l’individualismo liberale, a prescindere dalle circostanze in cui si viva attualmente. I sogni vanno coltivati e sostenuti, anche e soprattutto se irrealistici; cercare di dissuadere qualcuno dal suo sogno è considerato scortese, rozzo e socialmente inaccettabile, per quanto irrimediabilmente ingenuo possa essere quel sogno.
Negli Stati Uniti, la natura sacrosanta dei sogni, che non devono mai essere valutati criticamente, può essere il più potente ostacolo alla radicalizzazione politica e all’azione collettiva15. Sperare e sognare richiede una visione ottimistica e la vita nell’entropia sociale eleva l’ottimismo allo status di virtù pubblica e responsabilità civica.
In effetti, si può dire che, ancor più del capitalismo nel suo periodo d’oro, la società entropica del post-capitalismo disintegrato, destrutturato e sottogovernato dipenda dalla sua capacità di coniugarsi col naturale desiderio umano di non sentirsi disperati, poiché il pessimismo è visto come una carenza personale socialmente dannosa.
Ed è qui, in terzo luogo, che entra in gioco il doping. Il doping sostiene sia il coping che lo hoping e assume molte forme. Quando coinvolge l’uso e l’abuso di sostanze, si distinguono due tipologie, quelle che migliorano le prestazioni e quelle che le sostituiscono.
Le droghe che migliorano le prestazioni sono assunte ogni volta che vi sono in ballo elevate ricompense per il successo, ovviamente nei mercati dello showbusiness di oggi, compreso lo sport. Sono tuttavia anche assunte ai gradini più bassi della scala di reddito per l’esercizio di professioni della classe media, dove le pressioni competitive si sono intensificate per decenni, nonché nelle istituzioni educative in cui i risultati dei test possono decidere la futura carriera di una persona e le sue prospettive di guadagno.
Qui, come altrove, il doping è strettamente connesso alla corruzione. La maggior parte delle sostanze utilizzate per migliorare le prestazioni in un modo o nell’altro è costituita da prodotti legali altamente redditizi dell’industria farmaceutica. Le droghe che sostituiscono le prestazioni, invece, consumate dai vinti della società, sono perlopiù illegali, fornite da operatori criminali legati a reti commerciali mondiali16.
I consumatori delle classi basse finiscono spesso in prigione e muoiono in numero relativamente elevato per overdose17. I consumatori della classe media, e in particolare i top performer, non solo hanno una migliore assistenza medica ma possono anche aspettarsi un trattamento più indulgente da parte delle forze dell’ordine.
Ciò è probabilmente dovuto al fatto che l’uso di droghe, anche illegali, per aumentare la produttività personale – a differenza del generare una felicità immeritata negli emarginati del sottoproletariato –, è più facilmente condonato in un mondo che dipende per l’accumulo di capitale da uno sforzo individuale sempre maggiore. Infatti, se i musicisti pop e gli attori fossero imprigionati per abuso di droga allo stesso ritmo dei consumatori di eroina all’angolo delle strade, molti film e registrazioni musicali dovrebbero essere prodotti dietro le sbarre; lo stesso potrebbe applicarsi al commercio di beni finanziari.
Incrociare la distinzione tra l’uso di droghe che migliorano le prestazioni e quelle che vi suppliscono costituisce, per inciso, la fornitura quotidiana di felicità sintetica a un numero sorprendentemente grande di clienti per mezzo della musica pop estatico-euforizzante, consegnata e consumata individualmente con l’aiuto della tecnologia informatica avanzata.
Infine, lo shopping. Non c’è bisogno di ripetere che, nei ricchi paesi capitalisti, i mercati odierni dei beni di consumo sono perlopiù saturi, il che rende essenziale per la redditività capitalista far sì che gli individui, i cui bisogni sono già coperti, sviluppino desideri che danno origine a ulteriori desideri nel momento in cui sono soddisfatti18.
Il design dei prodotti e la pubblicità sono strumentali a ciò19, ma anche i prezzi bassi, resi possibili dai moderni “sweatshop” (o fabbriche sfruttatrici), fuori dalla vista dei consumatori finali e dalla portata della solidarietà collettiva. Il consumismo competitivo, sotto i dettami di standard adeguati di consumo, in continuo cambiamento e crescita, fornisce anche la motivazione che spinge a lavorare sempre più sodo20, anche solo per un reddito costante o addirittura decrescente, e per sottomettersi alla rigida disciplina del mercato del lavoro e del processo lavorativo contemporaneo.
Questa pressione si intensifica quando i consumatori usano il credito per acquistare, per esempio, una nuova TV a schermo piatto o l’ultimo modello di SUV. A questo punto le banche si uniscono ai datori come esecutori della disciplina del lavoro capitalista. Le relazioni sociali sono ridefinite come relazioni di consumo quando lo shopping diventa occasione di scelta per socializzare con amici e familiari e lo status di un individuo nella società è definito dal suo status di consumatore nell’economia.
La differenziazione del prodotto, in particolare, resa possibile dalla nuova tecnologia di produzione nonché dalle nuove modalità pubblicitarie, soprattutto nei nuovi media presumibilmente “social”, produce un tipo di integrazione sociale che combina singolarità individuale e identità collettiva in una comunità di clienti, uniti nel consumo di beni individualizzati continuamente aggiornati.
In sintesi, la vita sociale e l’accumulazione di capitale nell’interregno post-capitalista dipendono da individui-consumatori che aderiscono a una cultura dell’edonismo competitivo, che fa virtù della necessità di dover lottare da soli contro le avversità e l’incertezza.
Affinché l’accumulazione di capitale continui nel post-capitalismo, questa cultura deve rendere obbligatori speranze e sogni, mobilitandoli per sostenere la produzione e alimentare il consumo nonostante la bassa crescita, l’aumento della disuguaglianza e il crescente indebitamento. Deve anche fornire un’assistenza tecnica che consenta alle persone di mantenersi irrazionalmente felici e, allo stesso tempo, generare un flusso di incentivi e soddisfazioni che le motivi a intensificare costantemente i propri sforzi lavorativi, a prescindere dalla stagnazione o dal declino dei salari, dagli straordinari non pagati e dal lavoro precario21.
Il capitalismo senza integrazione di sistema richiede un mercato del lavoro e un processo lavorativo capaci di sostenere un’etica del lavoro neoprotestante accanto al consumismo edonistico socialmente obbligatorio. Il duro lavoro condotto con entusiasmo deve essere culturalmente definito e riconosciuto come prova e dimostrazione del valore individuale, corrispondente a una visione del mondo meritocratica che spiega l’ineguaglianza in base a differenze di sforzo o abilità.
Affinché l’edonismo non mini la disciplina produttiva, come nientemeno che Daniel Bell22 era convinto che sarebbe successo, le attrattive del consumismo devono integrarsi alla paura della discesa sociale, mentre le gratificazioni non consumistiche, disponibili al di fuori dell’economia monetaria, devono essere scontate e screditate.
Tutto ciò presuppone la presenza di un’ampia classe media disposta a ricercare l’integrazione sociale entro i confini del mercato del lavoro, accettando come conseguenza naturale le aspettative dei datori di una piena identificazione con qualsiasi lavoro venga loro assegnato e dando per assodata la necessità che la vita sociale rispetti il primato del lavoro devoto e il perseguimento, si spera, di carriere su cui strutturare la propria vita23.
L’accumulazione di capitale dopo la fine dell’integrazione del sistema capitalista è appesa per un filo sottile: all’efficacia, finché dura, dell’integrazione sociale degli individui in una cultura capitalista del consumo e della produzione. Col sostegno istituzionale ormai precipitato nel caos, l’accumulazione post-capitalista di capitale dipende dall’arretramento della cultura rispetto alla struttura o dalla sostituzione di una struttura che si è dissolta da tempo, nonché dalle difficoltà di sviluppo di una cultura alternativa sotto le pressioni combinate di concorrenza frammentata e accesso precario e confuso ai mezzi di produzione e di consumo.
L’ideologia, in particolare l’esaltazione di una vita nell’incertezza come vita nella libertà, è qui di importanza focale. Le narrazioni ideologiche neoliberali offrono una reinterpretazione eufemistica del collasso dell’ordine strutturato, come avvento di una società libera costruita sull’autonomia individuale, e della deistituzionalizzazione come progresso storico da un impero della necessità a un impero della libertà.
Affinché l’interregno continui, coloro che lo abitano devono essere continuamente esortati a sperimentare le macerie di quella che era una volta la società capitalista, come un parco avventure in cui dimostrare la loro personale intraprendenza e, con buona fortuna, diventare ricchi. Con le istituzioni collettive ormai disabilitate, il disordine deve apparire come un ordine spontaneo, basato sulla scelta razionale del singolo e sui diritti individuali, libero da regole e obblighi collettivi.
È solo quando la fabbricazione dell’entusiasmo ideologico per un’esistenza neoliberale in cui ognuno pensa a sé non funzionerà più, forse nel corso di una grande crisi dell’occupazione della classe media, come previsto da Collins, o in generale quando il disordine prevalente prenderà piede su larga scala e comincerà sul serio a frustrare i progetti e le ambizioni individuali, che l’interregno post-capitalista potrebbe giungere alla fine ed emergere un ordine nuovo.
© Wolfgang Streeck , Come finirà il capitalismo?, Meltemi 2021