30 gennaio 2021
Apocalissi
digitali e micropolitiche di resistenza
Tiziana Villani
Les écrans sont la nouvelle peau du monde, me dis-je en bougeant son image avec mon doigt pour la faire coïncider avec la mienne. Ils sont la peau d’une nouvelle entité collective radicalement décentrée et en processus de subjectivisation. (Paul B. Preciado, Un appartement sur Uranus, 2019)
La trasformazione digitale delle esistenze non è una sottrazione di realtà, piuttosto è una moltiplicazione di piani di esperienza che interagiscono tra loro innervando variazioni importanti nei processi di configurazione delle soggettività e del sociale del nostro tempo.
In che modo e con quale intensità queste variazioni possano prodursi, dipende da una molteplicità di fattori non sempre facilmente individuabili. Gli individui per quanto sospesi nella dimensione virtuale sono forgiati e forgiano comunità a distanza, spesso proiettive, che diventano rapidamente ambienti utili alle nuove forme di comando.
La percezione del tempo è accelerata e questo rimanda a una frammentazione sempre più convulsa delle capacità di attenzione, elaborazione, ascolto: non c’è mai abbastanza tempo. La velocità di cui parlava Virilio si trasforma in un dispositivo violento, in un imperativo che rileva la costante inadeguatezza dell’animale che siamo rispetto al cyborg cui tendiamo. Scrive Virilio: “alcuni ideologi del Progresso, come Hans Moravec, per affermare che grazie alle nuove performance della robotica e delle nanotecnologie, ‘l’uomo biologico si troverebbe naturalmente spinto fuori dall’esistenza, poiché raramente una specie sopravvive a una specie rivale che presenta un grado di evoluzione superiore’ […] Questa sarebbe, l’autonomia annunciata dal nuovo pensiero bioetico, e i nostri eminenti esperti avrebbero il solo incarico di preparare con sollecitudine la specie umana alla sua ineluttabile sparizione”(Virilio P., Ce qui arrive, 2002).
Il “rischio digitale” sarebbe dunque da inserirsi nel più complessivo rischio tecnologico. Dal momento in cui la tradizionale e ormai arcaica distinzione tra tempo di lavoro e tempo vita è saltata l’accelerazione, transita dall’ambito più direttamente lavorativo alle nuove modalità di messa al lavoro della vita. L’inadeguatezza si trasforma così in meccanismo debitorio, in dipendenza stretta dalle proprie capacità di adeguamento alla macchina, o alla mega-macchina sociale per dirla con Gorz. “Il lavoratore individuale non è che ‘un accessorio vivente di questo marchingegno’ la sua ‘capacità di lavoro sparisce in quanto infinitamente piccola, allo stesso modo in cui sparisce nel prodotto in rapporto al bisogno immediato del produttore e dunque del valore d’uso immediato’” (Gorz A., Ecologica, 2008).
Questa riarticolazione dei modi e delle forme di esistenza è la transizione che stiamo attraversando, una transizione piena d’incertezze e priva di contesti di riferimento affettivi solidi e di condizioni materiali di vita degne. La virtualizzazione delle esistenze è speculare all’atomizzazione delle vite, alle nuove solitudini, a movimenti di deriva senza creazione come avrebbe voluto invece Debord.
Riprendendo il pensiero di Donna Haraway possiamo notare come riguardo al quadro prima delineato, Haraway abbia voluto riconsiderare in parte i concetti proposti in Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo (1985), non a caso oltre all’alleanza di specie, segnatamente quella canina (Compagni di specie. Affinità e diversità tra esseri umani e cani, 2003), un’altra figura ha fatto irruzione nel suo pensiero, quella di Medusa l’unica tra le Gorgoni a essere mortale, Medusa figura degli Inferi, delle profondità oscure prive di “ironia”, figura del potere tellurico. In un’intervista rilasciata a F. Caeymaex, V. Despret e J. Pieron, intitolata Il riso di Medusa, Haraway descrive Medusa come una figura “della morte, del potere e della possibilità” poiché il suo potere non è divino ma terrestre, il suo rifiuto dell’immortalità ha a che vedere con un sapere che si vuole in continua transizione e trasformazione (Aa.VV, Habiter le trouble avec Donna Haraway, 2019). È forse questo un modo utile per intendere il passaggio attraverso le molte figure tecno-animali cui si apre la nuova ecosfera nel tempo della digitalizzazione diffusa.
La grammatica dei social, apocalissi del linguaggio
Quali configurazioni assumono i poteri nel tempo della digitalizzazione di ogni forma di relazione? Tra i molti aspetti mi sembra decisivo l’irrompere della grammatica della falsificazione. Si tratta di una grammatica funzionale alla rarefazione e alla sospensione delle relazioni e degli ambienti affettivi. Si profila una costruzione del sé, della propria maschera che in realtà è di una nudità sconcertante poiché rimanda al bisogno più intimo di motivare la propria esistenza ricorrendo agli artefatti di un linguaggio che dovrebbe interagire con un pubblico prescelto e non vuoto. Nelle generazioni varia l’uso della grammatica prescelta che diviene sempre più rivolta all’immagine e sempre meno alla parola. Si tratta del prevalere del simbolico in chiave addomesticata perché i simboli usati devono essere d’immediata riconoscibilità e dunque potenzialmente più riconoscibili. I simboli devono “fare tendenza” e creare universi immaginari del desiderio conferme all’offerta, all’offerta contenuta nei dispositivi di consenso: successo, denaro, glamour, prestanza, giovinezza… Chi diverge non ha scampo. Tuttavia la digitalizzazione delle esistenze offre anche varianti altre; varianti di sottrazione e sperimentazione. Vale in questo senso l’uso di una comunicazione legata a forme e contesti di movimento, in cui raduni, movimenti di piazza, d’incontro non utilizzano le modalità tradizionali del secolo scorso, ma ricorrono a forme distrattive per mantenere la propria presenza sui territori.
Tornando al discorso più stretto delle odierne forme di comunicazione, occorre ricordare che nasciamo con il linguaggio, ci formiamo in contesti linguistici che hanno innumerevoli rimandi e che risuonano con il nostro esistere. I generi, le classi, le culture rimandano a lingue spesso maggiori, dominanti dalle quali però fuoriescono anche le lingue minori di cui parlavano Deleuze e Guattari, lingue di resistenza come quella di Kafka (Deleuze G., Guattari F., Kafka. Pour une littérature mineure, 1975). Giganteschi parassiti ecco come appaiono le attuali figure predatorie delle discipline della comunicazione, ecco il ricatto infinito, un po’ di protezione, la proprietà, la Legge, il patto demonico con il debito infinito, con la pena che si scrive sui corpi, sempre con Kafka e la sua colonia penale.
Questo modo di esistere è comunque il nostro e non vale molto il ricorso a categorie morali per valutarne la modificazione che ha prodotto e che sta producendo, ciò che occorre fare è allora mantenere uno sguardo un po’ umoristico e dunque distante rispetto all’onda metamorfica in cui siamo immersi. In un certo senso “balbettiamo” alla maniera dello scrivano di Melville; viralmente rappresi ai margini di quanto accade soppesiamo il vuoto e l’incertezza di un presente che non si lascia codificare, cerchiamo di adeguarci, cerchiamo riscontro, ci indigniamo, ci rivoltiamo, veniamo sospinti come maree che non riescono a smuovere troppo quello che viene presentato come un modello unico di vita.
Tale è il risvolto dispotico della fase attuale in cui tutto sembra depotenziato o assorbito dai sistemi di comando e in cui ogni fuoriuscita quando ricorre ad altre grammatiche viene duramente repressa. Del resto non è possibile affrontare la rivoluzione digitale e tecnologica più in generale senza considerare la sfera ecologica in cui è inserita.