Capitolo quarto
Oltre
le sfide
4.1. Introduzione
Il dibattito sull’Antropocene è ancora aperto in ambito scientifico, tanto che c’è chi ne rifiuta l’introduzione. Anche la data di nascita appare controversa. La più plausibile, soprattutto tra i geologi, è il 1945 che di fatto apre anche la fase nota come grande accelerazione. Ma c’è pure chi sostiene, come Simon L. Lewis e Mark A. Maslin, che la sua origine, definita “Orbis Spike”, sia da ricercarsi nei due eventi di globalizzazione del pianeta Terra (scoperta dell’America e rivoluzione industriale)1.
Il nome stesso ci dice che questo cambiamento è stato provocato dall’umanità. Di fatto, però, è stato prima di tutto la risultante delle attività dei popoli dell’Europa che, attraverso la nascente scienza e le grandi scoperte, hanno provocato le prime devastazioni dell’ambiente; perciò c’è chi suggerisce di usare il nome “Eurocene”. Tuttavia, da quando i Paesi emergenti al di fuori dell’Europa hanno acquisito la tecno-scienza sono divenuti anch’essi co-artefici del disastro.
Ora l’avvento dell’Antropocene impone delle domande radicali che si collocano ben oltre gli aspetti meramente scientifici. Prima di tutto dobbiamo riconoscere che, a fronte di questa apocalisse ambientale, sarà richiesto uno sforzo titanico il cui esito non è scontato. Paradossalmente, ma non troppo, ce lo ricorda un brillante romanziere, Jonathan Franzen, che da tempo manifesta una particolare attenzione verso queste problematiche.
Egli ci fa capire che questi cambiamenti sono ormai irreversibili, ma aggiunge che questo non ci esime dal cercare soluzioni al fine di prevenire scenari ancora più catastrofici. Pertanto gli esseri umani “Dovranno accettare che il cambiamento climatico è reale e avere fede nelle misure estreme adottate per combatterlo. Non potranno rifiutare come false le notizie che non gradiscono. Dovranno mettere da parte nazionalismo, classismo e odio razziale. Dovranno fare sacrifici per lontane nazioni in pericolo e lontane generazioni future. Dovranno essere costantemente terrorizzati dalle estati più calde e dai disastri naturali più frequenti, anziché semplicemente abituarcisi”2.
Questa situazione, già di per sé problematica, potrebbe essere ulteriormente aggravata, come si è visto, da una “selvaggia rivoluzione digitale” che rientra nel Tecnocene. Si tratta di un cambiamento equiparabile a una “mutazione antropologica”. In sintonia con quanto lucidamente evidenziato da Francesco Parisi nel suo La tecnologia che siamo, questa innovazione potrebbe sortire un vero e proprio capovolgimento di ruoli in cui è l’uomo a essere dominato dalla tecnica e non, come sarebbe auspicabile, il contrario3. È una pericolosa deriva che può condurre a un drastico peggioramento.
Il rischio che sta correndo l’umanità è quello di trovarsi di fronte all’avanzare di una nuova forma di schiavitù. Ma, allora, in una società senza fondamenti, senza valori, può accadere che la tecnologia, da strumento nelle mani dell’uomo, divenga valore assoluto al servizio di un neoliberismo sfrenato e senza regole. A fronte di questi rischi, un saggio monito ce la offre Giuseppe O. Longo quando dice: “Più filosofia si fa, meglio è, perché nel cupo delle tecnologie digitali, spesso si procede a testa bassa, quello che si può fare si farà, si naviga a vista, si vede una possibilità e ci si tuffa”4.
Per tentare di uscire da questa pericolosa deriva, forse dobbiamo intraprendere una nuova via che ci conduca, come suggerito da Julian Nida-Rümelin e Nathalie Weindelfeld, verso un “umanesimo digitale”, il cui fondamento risiede nella consapevolezza che tutte le tecnologie, pur nelle entusiastiche prospettive che ci prospettano, hanno dei limiti e, soprattutto, non devono essere utilizzate per alimentare la nostra volontà di potenza5.
Allora, sia la sfida dell’Antropocene sia quella del Tecnocene, possono trovare una soluzione solo se riusciamo ad attingere al nostro sapere, alla nostra cultura gli strumenti per configurare una nuova visione della vita e della nostra umanità, anche perché, come si è visto, solo la cultura può aiutarci a mitigare la nostra aggressività proattiva che è alla radice di molti misfatti causati dall’uomo nel corso della sua storia. In tal modo la cultura può diventare il pilastro su cui fondare la sopravvivenza della nostra specie6.
© Alberto Felice De Toni, Angelo Vianello, Gilberto Marzano , Antropocene e le sfide del XXI secolo , Meltemi 2022