10.09.2022
Cesare Pavese non ha ancora ricevuto l’attenzione filosofica che, ci pare, potrebbe meritare. Forse, perché la tradizione di studi filosofici prevalente nel nostro paese ragiona, in modo solo parzialmente sensato, in termini improntati alla filologia: se si può discutere filosoficamente, lo si colleghi a Marx, a Hegel o a Nietzsche (di cui aveva tradotto La volontà di potenza) e alle posizioni che prendeva esplicitamente in considerazione.
Solo Elio Gioanola, non eccessivamente interessato ai riferimenti direttamente testuali, ha scritto un mirabile volume, completamente dimenticato, sulla Poetica dell’Essere pavesiana, collegando il nostro scrittore all’ultimo Heidegger. Operazione importante e a suo tempo fortemente innovativa, quella di Gioanola, avvenuta dopo un lungo periodo in cui Pavese era relegato a scrittore “civile”, ma che pare scontare un difetto: quello di dividere l’autore come in due spezzoni. Vi sarebbe, così, un Pavese de Il compagno, o de Paesi tuoi, interamente politico e in cui la dimensione dell’oniricità, del simbolico e del paesaggio non sarebbe ancora emersa e uno di Feria d’agosto e La luna e i falò dove invece questo Pavese heideggeriano, appunto intento a mostrare il dispiegarsi di una poetica dell’essere, sarebbe emerso compiutamente.
Questo tipo di lettura, forse valida nella sua prima parte, lascia però in ombra diversi elementi presenti sia in Feria d’agosto sia ne La luna e i falò. In riferimento anche solo a quest’ultimo lavoro, infatti, come lasciare da parte i numerosissimi accenni di Pavese alla lotta partigiana, che attraversano tutto il volume? Difficile sostenere che vi sia una parte del volume che “conta” (quella in cui si mostra l’eterna ciclicità della vita rurale, di un paesaggio immutabile) e alcuni passaggi meno essenziali, come appunto quelli in cui traspare la presenza della lotta di classe nella valle (annunciata da Nuto, il Virgilio del protagonista) e di quella, più antica, di Resistenza. Proviamo a esplicitare in termini più teoretici questa impasse interpretativa in cui si trova chi adotti questa chiave di lettura del testo pavesiano. Appare, in siffatta prospettiva, una dicotomia troppo radicale tra attività e passività. Laddove, cioè, si rinviene correttamente la centralità di uno spazio e di un tempo che non consistono semplicemente nell’insieme delle azioni degli umani all’interno del quale questi ultimi si collocano, sembra quasi doveroso dover mettere in ombra queste stesse azioni.
Naturalmente, come insegnava Merleau-Ponty (ma come forse, ancora prima, ha mostrato in modi diversi l’idealismo tedesco) non vi è attività senza passività, non c’è azione che in una totalità, per quanto fratturata e incompiuta. È questo, ci pare, che appare fino in fondo ne La luna e i falò. Non solo la ripetizione infinita, non solo un mondo immutabile: anche, in primo luogo, la distruzione possibile di questo stesso mondo (rappresentata dall’America, luogo senza paesi) e soprattutto, in secondo luogo, la vita degli uomini che nella sua differenza, tuttavia, si dà in questo orizzonte relativamente tranquillo.
Pavese non insegna affatto l’accettazione del reale inteso come stato di cose presente. Il realismo, di cui egli parla in Per una nuova letteratura, brevissimo ma illuminante articoletto apparso su Rinascita nel 1946, lungi dal consistere in quest’accettazione, trae piuttosto la sua ragion d’essere dal fatto che lo scrittore comunista semplicemente è nel reale, nei suoi rapporti di forza e nella sua conformazione determinata. Certo: quest’ultima non è mai chiara fino in fondo e da questo punto di vista ha ragione Gioanola, che sottolinea come l'Essere pavesiano non sia un infinito positivo, al modo della grande filosofia razionalistica del ‘600. Tuttavia, non è nemmeno l’Abisso heideggeriano, la Terra di cui i viventi intuiscono il canto ma che, con il loro stesso vivere, con il loro medesimo dare forma al mondo, combattono e rimuovono.
La Terra di Pavese è più italiana: è quella di Giordano Bruno, suolo per ogni vita, stabilità di ogni divenire, strato profondo di ogni vita che si dà in essa: «quel che mi dice il campo di granturco nei brevi istanti che oso contemplarlo, è ciò che dice chi si è fatto aspettare e senza di lui non si poteva far nulla […] Nulla mi deve quel campo, perché io possa far altro che tacere e lasciarlo entrare in me stesso».
A metà tra il simbolico dell’inconscio e la bestia selvaggia di Bruno, ecco dove si colloca il mondo di Pavese. È in questo senso che la lotta di Resistenza appare tra le valli, tra i casolari, sotto l’azzurro-grigio del cielo piemontese e sopra la terra brulla in cui prende luogo il ritorno del protagonista: non mero accidente, ma attività sul suolo. Quella terra era la casa dei partigiani e questo appare a ogni passo del libro: «”Di partigiani ce ne stavano lassù?” “I partigiani sono stati dappertutto, - disse. – Gli hanno dato la caccia come alle bestie. Ne sono morti dappertutto. Un giorno sentivi sparare sul ponte, il giorno dopo erano di là da Bormida».
Tutti ricordano il vecchio canto partigiano “nella notte ci guidano le stelle…”. Alla luce di Pavese esso assume, forse, un senso nuovo, per nulla metaforico: il paesaggio è la casa dei partigiani, il suolo su cui e per cui essi lottano. Ne La luna e i falò il paesaggio ricopre anche un ruolo attivo, di protagonista, della lotta di classe che attraversa il racconto. Parlando di un pino abbattuto da un ricco possidente, poiché davanti al suo cancello, in quanto i poveri si riposavano alla sua ombra, Pavese si ricollega indirettamente e forse inconsciamente al primissimo Marx, quello degli scritti sulla Rheinische Zeitung sulla legge contro i furti della legna.
Pochi ricordano quei magnifici articoli, dove Marx traccia una divisione tra i poveri e i proprietari non ancora scientifica, dal punto di vista del materialismo storico e tuttavia decisiva. I poveri sono, per questo Marx, coloro che traggono il proprio sostentamento dalla conformazione specifica di un certo territorio e dal modo in cui vi si relazionano: il nucleo della loro esistenza, nonché delle rivendicazioni fino in fondo politiche che li caratterizzano, consiste cioè in un certo modo di abitare uno spazio.
Cosa facevano i partigiani, se non abitare lo spazio delle montagne, tra Piemonte, Appennino, città e campagne? E cosa significa abitare, se non precisamente stabilire politicamente e storicamente un certo tipo di equilibrio tra attività e passività? Forse è questo difficile equilibrio, che mai come oggi necessita di venire politicizzato affinché lo stato di cose presente sia trasformato, che Pavese ci consente di vedere. In questo modo i vari slogan che le lotte più avanzate (come quella no Tav) prendono un senso diverso: dire “noi siamo la natura che si ribella” non significa tanto identificarsi con essa, sostenere l’esistenza di una enorme monade in val di Susa, bensì riconoscere in quel territorio il campo d’azione e l’obbiettivo dell’attività politica, nonché una sua attività (cioè una sua configurazione determinata- l’amianto nella montagna):
«Nella riva l’altr’anno c’era un morto, - disse Cinto.
Mi fermai. Chiesi che morto.
- Un tedesco, - mi disse. – Che l’avevano sepolto i partigiani in Gaminella. Era tutto scorticato…
-Così vicino alla strada? – dissi.
-No, veniva da lassù, nella riva. L’acqua l’ha portato in basso e il Pa l’ha trovato sotto il fango e le pietre…»