À la carte
Flavio Favelli

16.07.2021

Sono tanti anni che l’arte è chiamata a fare, interessarsi, possibilmente risolvere, a cose e faccende varie che non le competono. Spodestata dalla street art, oramai pitturificio a buon mercato al servizio degli outlet village e dell’industria culturale più squallida, l’arte è stata piano piano piegata alla volontà della politica e del gusto popolare che, in tempo di populismo reale, decidono ogni cosa. Quando ci sono dei problemi, e solo allora, si chiamano gli artisti, i quali fanno di tutto per rispondere a tono sull’argomento del momento. Oramai è uno scambio effervescente quello fra arte e istituzione (che sia l’Europa o il municipio) che mirano allo stesso scopo: una dolce miscellanea fra sviluppo sostenibile e valorizzazione del territorio, fare integrazione, rigenerazione, crescita, dialogo col contesto e con l’arte del Passato (in Italia il Passato, quando si intende l’arte, si scrive con la P maiuscola, perché l’arte del Passato è per sua natura sempre superiore a quella contemporanea; a confermare questa fede si invitano gli artisti a dialogare sempre con l’arte del Passato), con la comunità, a creare relazioni per un fine positivo e costruttivo.

Questo vogliono l’istituzione, lo Stato, la società, i cittadini, scocciati da più di mezzo secolo di arte moderna e contemporanea. Si vogliono risposte creative, perché l’arte, alla fine, qualcosa crea. Si tira per la giacca anche la bellezza, grande sfiga del nostro paese, parola magica sempre implorata (tranne che a Roma, dove ci si è accorti, grazie ad un film, che sarebbe meglio evitare), strumentalizzata e invocata. Se c’è qualcosa di rotto si ripara e nella contemporaneità l’arte è solo interrogata (oltre a stare nei suoi spazi delimitati del museo-senza-risorse) su un'unica materia: la pubblica utilità. L’artista così è al servizio dei bisogni dell’istituzione, della politica e dell’azienda, come avveniva nel Passato; vengono oscurate così tutte le esperienze delle Avanguardie e del Novecento. Un po’ come i Carracci con la famiglia Magnani, ma anche come i registi iraniani del cinema nel regime degli ayatollah, l’artista di oggi è invitato ad attenersi a questo canone imposto, proprio come avveniva nell’Italia del 1600 o nello Stato Islamico dell’Iran.

E questa è stata una grande battaglia vinta dalla politica che ad ogni inaugurazione ha sempre recitato, da Nord a Sud, una tiritera sempre uguale: gli artisti dovrebbero riscoprire... ecc, ecc. e la solita nostalgia della bellezza, confermata da una recente intervista su Robinson da Paolo Portoghesi che dice del grande errore degli artisti di averla rifiutata. Forse è la bellezza che ha respinto gli artisti gli risponde Antonio Gnoli e l’architetto continua Penso che la vera tragedia sia stata scoprire nel`900 che l'arte non corrisponde più al bello. Un tempo la bellezza era la ragion d'essere di un'opera d'arte. Oggi si pretende che un'opera sia solo il frutto di una spiegazione intellettuale. Ma o l'uomo riprende a occuparsi con rispetto della Terra o nel giro di un secolo la Terra farà a meno di lui. Ecco perché penso che la bellezza sia una necessità, il solo modo per salvare la natura e riconciliarsi con essa...

Difficilmente un dialogo potrebbe essere così banale con un inatteso asse bellezza/rispetto della Terra, come se l’arte del Passato fosse stata una grande storia ecologica. Questa cesura netta, incolmabile, fra bellezza di un tempo perduto e artisti moderni è il grande leitmotiv che segna il popolo italiano, quello della cultura (dagli archeologi ai seguaci di Zeffirelli con qualche orfano di Pasolini) e tutta la politica che per una volta è unita. L’istituzione e l’amministrazione trovano così un compito all’arte (almeno che serva a qualcosa) una grana che deve risolvere con azioni partecipative e con un linguaggio sempre creativo, positivo, ricco e colorato. Senza la falla da riparare, nessuno oggi ha bisogno dell’arte se non, in rarissimi casi, come una celebrazione o una dialogo con un’azienda per promuoverla o coinvolgere i suoi dipendenti.

Si decide così che l’artista non abbia una sua visione, non glielo si chiede nemmeno, ma, come un artigiano, deve giusto rispondere per fare la statua di Lucio Dalla o di Margherita Hack o dipingere sul muro il faccione dell’ultimo defunto celebre. Ogni opera pubblica deve avere un significato chiaro, senza ambiguità e deve rassicurare il cittadino; niente scherzi, si deve evitare a tutti i costi che qualcuno faccia domande del tipo Cosa vuole dire? Cosa c’entra? Tutto deve essere a tema col contesto, col territorio, tutto deve dialogare, tutto deve essere positivo, servire a qualcosa di buono e bello, tutto deve essere a misura per un cittadino senza grilli per la testa che pensa e parla come mangia. Nessuno vuole polemiche che porterebbero a inutili e pericolose discussioni: la gente non capirebbe. L’arte deve essere comprensibile a tutti ed è permessa solo per iniziativa dei delegati del popolo italiano che, oltre a volere un ritorno alla bellezza, la usano per avere consenso. Come avveniva nel Passato.