Écrire poir voir. Christian Dotremont e la poetica del logogramma
Pasquale Fameli
Christian Dotremont, Liberté des Figures (dettaglio), 1976, collezione privata

18.12.2021

L’importanza recentemente assunta in poesia dal fenomeno della scrittura asemica, anche grazie all’attività svolta da Marco Giovenale, mi porta a riflettere su uno dei pionieri di questa tendenza nata al confine con le arti visive.

Si tratta di Christian Dotremont (1922-1979), poeta e pittore belga cui spetta il merito di avere tenuto a battesimo e coordinato il nucleo fondativo di CoBrA, gruppo di artisti tra i più rappresentativi dell’Informale europeo.

Proprio questa doppia identità di poeta e pittore volto a una circuitazione di energie e di segni tra i due campi può avere causato la sua limitata fortuna critica: difficilmente riducibile all’uno o all’altro, per l’osmosi stabilita tra la scrittura e la pittura, Dotremont ha occupato una zona liminale difficile da percorrere, per quanto affascinante da esplorare.

Nel corso della breve ma intensa avventura di CoBrA, durata ufficialmente dal 1948 al 1951, Dotremont giunge all’invenzione del “logogramma”, una forma di scrittura asemantica (o “asemica”, come diremmo oggi) che recide il legame tra significante e significato condensando motivi riconducibili sia alla poetica surrealista sia a quella informale.

Anzi, si potrebbe affermare che le soluzioni segniche di Dotremont attuino sul piano scritturale un processo evolutivo omologo a quello compiuto negli stessi anni da numerosi artisti europei e statunitensi, giunti al gestualismo informale proprio a partire da un’elaborazione interna all’automatismo segnico surrealista.

Non va dimenticato infatti che, prima di approdare all’Informale, il poeta ha frequentato gli ambienti surrealisti, aderendo nel 1941 al gruppo La Main à plume e fondando nel 1947 il gruppo Surréalisme-Révolutionnaire (che includeva anche Asger Jorn, futuro capofila di CoBrA). Quello compiuto da Dotremont è quindi il passaggio da un automatismo ‘psichico’ a uno ‘fisico’ che vede nell’inchiostro di china il mezzo elettivo per ricongiungere scrittura e disegno.

Questo passaggio può trovare i suoi estremi ideali in Henri Michaux e nell’Informale segnico, mediati però da una spiccata fascinazione per le calligrafie extra-occidentali.

È lo stesso autore a confermare la rilevanza di quei punti di riferimento nello scritto Signification e sinification apparso sul numero 7 della rivista “Cobra” nel 1950: «Pourquoi mon regard parfois s’arrête-t-il à loisir sur des textes égyptiens, où chinois justement, que je ne “comprends” pas? Je les comprends, en fait; lorsque je “lis” une page d’écriture chinoise, je suis dans les rues de Pékin; je les comprends comme je comprends une page d’écriture de Miro, un mot de Arp, une phrase de Hartung, une ardoise d’Ubac».

L’incapacità di leggere un testo egiziano o cinese non impedisce quindi a Dotremont di ‘comprenderlo’ perché, proprio grazie a quella mancanza, può apprezzare le qualità plastiche e le movimentazioni grafiche del testo stesso aggirando i limiti dell’interpretazione e i condizionamenti dei significati.

È una sorta di analfabetismo funzionale ante litteram, orientato però alla possibilità di soffermarsi sulle qualità morfologiche della scrittura, solitamente destinate a restare in secondo piano rispetto ai contenuti veicolati dalle parole. D’altra parte, l’affermazione di Dotremont sembra trovare sostegno in una successiva riflessione di Roland Barthes sulla leggibilità come valore opzionale della scrittura.

Ci sono scritture antiche che presumiamo avessero un senso per le culture che le hanno prodotte ma che non siamo in grado di decifrare; e ci sono scritture artificiali, ideate da artisti quali per esempio André Masson, che sono invece indecifrabili perché puramente inventate.

Nulla tuttavia permette, a eccezione del contesto, di ritenere le prime ‘vere’ e le seconde ‘false’, poiché è sulla base della nostra cultura e del nostro arbitrio che possiamo attribuire uno statuto di referenzialità a una scrittura.

A partire da queste considerazioni Barthes arriva a sostenere quindi che il significante è libero e sovrano e che soltanto quando questo si separa dal significato e si allontana da ogni alibi referenziale permette al testo di manifestarsi nella sua pienezza, mostrando la «fenditura vertiginosa» della sua costruzione e della sua distensione.

Confrontando le due posizioni potremmo essere tentati di affermare che Dotremont abbia anticipato Barthes; ma forse è più corretto dire che Barthes sia riuscito a giungere a simili conclusioni proprio grazie all’accelerazione mentale impressa da esperienze grafiche come quelle messe a punto da Dotremont.

Per vie differenti, entrambi gli autori esaltano la fatticità della scrittura, il suo valore primario di gesto, di atto fisico destinato prima di tutto a un supporto, a un confronto con la materia non solo in termini concettuali ma come modalità di contatto epidermico con il mondo: è ancora Barthes ad affermare, per esempio, che sia la contestura ruvida o liscia di una superficie a indurre gesti di aggressione o di carezza alla mano che scrive.

La preminenza degli aspetti materiali su quelli concettuali è centrale nella poetica del logogramma di Dotremont che, in diretta connessione con le ricerche segniche surrealiste e informali, definisce una modalità di produzione testuale giocata non solo sulla decostruzione delle convenzioni simboliche proprie della scrittura, ma anche sull’imprevedibilità della grafia e sulla sua forza plastica.

Lo dichiara apertamente il poeta stesso in uno scritto riportato in Logbook, una raccolta pubblicata da Yves Rivière in Francia nel 1974: stando alle parole dell’autore, il logogramma è infatti un manoscritto prodotto di getto in cui i segni si agglomerano senza seguire un tracciato prestabilito o viceversa si dilatano senza limiti proporzionali.

Eludendo i condizionamenti del rigo, i segni sono liberi di fluttuare nel campo antigravitazionale del foglio, tentando di stabilire impregiudicate connessioni interne.

Terminato il processo di elaborazione grafica, l’autore passa quindi a una fase di codificazione linguistica del risultato grafico in piccoli caratteri calligrafici riportati alla base del logogramma stesso, al fine di stabilire rapporti di reciprocità utili a ricucire l’immagine verbale con quella materiale.

È questo probabilmente il tentativo di risanare la frattura che per secoli e secoli ha alimentato la separazione tra le parole e le cose, confermato dalla scelta di opporre una linguistique réelle alla linguistique générale di Ferdinand De Saussure: una teoria del segno linguistico concepito non come atto bilaterale di suono e concetto, ma come fatto fisico, come traccia di materia opaca e irriducibile. 

La scrittura, o meglio, la scrizione possiede infatti, per Dotremont, una forza attivante (una agency, diremmo oggi) tale da pervadere i tessuti muscolari dell’osservatore per induzione ottica.

È la possibilità di significare nel corpo prima che nella mente. È anche in virtù di ciò se tendiamo a collocare la poetica del logogramma in una posizione alternativa a quella del Lettrismo, sorto in Francia solo qualche anno prima di CoBrA, intorno al 1945, ma prodigatosi per decenni nella ridefinizione della lettera come elemento autonomo e nella trasformazione della pittura in «poliscrittura», per usare le parole del suo fondatore, Isidore Isou.

Le ricerche lettriste ambiscono a una riformulazione totalizzante della comunicazione mediante la decostruzione radicale dei sistemi simbolici a essa correlati.

La riduzione di tali sistemi ai loro elementi minimi sfocia in una hypergraphie che pone indifferentemente sullo stesso piano segni alfanumerici, iconici, ideogrammatici e così via. I Lettristi dispongono i loro complessi sistemi ideografici nello spazio del foglio o della tela secondo un impianto tendenzialmente ortogonale affine a una più convenzionale struttura della pagina; Dotremont ricorre invece a calligrafie stilisticamente omogenee che si articolano sulla superficie senza seguire schemi rigidi o predeterminati: la legatura tra i segni diventa lo strumento fondamentale per garantire una proliferazione pluridirezionale di anelli, aste, becchi, gambe, occhielli e di tutti gli altri elementi che costituiscono l’anatomia delle lettere.

La proliferazione è talmente espansiva da arrivare talvolta a inglobare anche le invenzioni iconiche di altri esponenti di CoBrA quali Karel Appel e Pierre Alechinsky, con i quali Dotremont ha realizzato numerose opere in collaborazione.

L’esigenza di riaffermare l’identità materiale della scrittura trova però i suoi esiti più radicali nei Logoneiges eseguiti in Finlandia nel 1976 e documentati da alcune fotografie di Caroline Ghyselen che mostrano il poeta tracciare alcuni suoi logogrammi su una distesa di neve per mezzo di un bastone.

È un gesto radicale che consegna la scrittura a un maggiore grado di transitorietà, destinandola a un «rien plein», per usare un ossimoro dello stesso Dotremont: un «niente pieno» all’interno del quale tentare di fornire l’ennesima risposta a un’interrogazione perpetua e ossessiva sul rapporto tra testo, immagine, materia e mondo.