Yakov, o della libertà
Margherita Pascucci

06.11.2021


C’è qualcosa di maledetto, secondo me, in un paese dove gli uomini sono proprietari di altri uomini”

(Bernard Malamud, L’uomo di Kiev, tr. I. Omboni, p. 135)


Molti anni fa un caro amico mi consegnò, da leggere, L’uomo di Kiev, di Bernard Malamud. Il mio amico viaggiava molto e lo portava spesso con sé: ‘è imprescindibile’, mi disse. È la storia di Yakov Bok, tuttofare che da uno shtetl nella Russia dei primi anni del Novecento si sposta a Kiev. Quando viene trovato morto un ragazzo cristiano in una cava vicino alla fabbrica dove Yakov lavora, Yakov viene accusato, come ebreo, di aver ucciso il ragazzo per prendergli il sangue a scopi rituali.

Passerà due anni e mezzo in prigione, torturato, privato di tutto, in condizioni disumane. Bibikov, il ‘giudice istruttore dei casi di straordinaria importanza’, unico a credere all’innocenza di Yakov, verrà ucciso.

L’atto di accusa, che permetterà a Yakov di avere un processo, arriva soltanto alla fine del libro. Basandosi sul caso di Menachem Mendel Beilis, che nel 1911 ebbe grande risonanza nella Russia tsarista, Malamud voleva scrivere un testo sull’ingiustizia: “Un uomo (…) arrestato per un crimine che non ha commesso e che passa alcuni anni in prigione. Le sofferenze e la rabbia che deve sopportare lo portano a fare un esame della propria vita e dei propri valori. La storia avrebbe parlato di come sarebbe cambiato una volta finito in prigione. Tutto il resto avrebbe dovuto riguardare la crescita dell’idea di libertà nella mente di quest’uomo sottoposto a una grave ingiustizia (…) stavo cercando una storia del passato che magari sarebbe potuta accadere di nuovo. (…) volevo mostrare quanto siano ricorrenti alcune nostre esperienze storiche negative” (Bernard Malamud, Per me non esiste altro. La letteratura come dono, lezioni di scrittura, minimum fax, 2015, pp. 39-40).

L’idea di libertà che piano piano viene a formarsi nella mente di Yakov è intessuta di Spinoza.

In quegli anni studiavo Spinoza, che da allora non mi ha abbandonato più, e l’idea di libertà di Yakov-Spinoza mi colpì molto. Anni dopo trovai come esergo a Spinoza. Filosofia pratica di Deleuze una citazione di Malamud: l’intreccio si infittiva

Perché vi interessa?” chiede Bibikov a Yakov. “Ma, innanzitutto, che cosa vi ha portato a Spinoza? Il fatto che fosse ebreo? – No, eccellenza. Non sapevo niente, di lui, finché non mi sono imbattuto nel libro. Alla sinagoga non ne sono precisamente entusiasti, se avete letto la storia della sua vita (…) Più tardi ho letto qualche pagina e ho continuato come se ci fosse un vortice sulla mia schiena (…) Quando si ha a che fare con pensieri come quelli par di volare a cavallo di una scopa. (…) da allora non sono più lo stesso (…) credo che Spinoza volesse fare di sé un uomo libero” (Malamud, op. cit., p. 62, trad. lievemente cambiata).

In questi giorni leggo le importanti pagine di Attraverso Deleuze (Ubaldo Fadini, ombre corte, 2020, pp.31-33, sgg.) e ritrovo quel ‘soffio sulla schiena’ che ha sospinto molti di noi tutti questi anni. Penso all’effetto-Spinoza di cui ci parlava Deleuze, penso all’ ‘effetto Deleuze’ di cui ci parla Fadini. Si sommano in me, diventano intensivi. E penso allora all’effetto di un fare filosofia minore, potente come quel soffio e gioioso come quel volo sulla scopa.

Cosa ci dice sulla libertà questa filosofia minore?

Effetto-Spinoza

“È proprio su Spinoza che ho lavorato più seriamente secondo le norme della storia della filosofia, ma è pure lui quello che mi ha fatto maggiormente l’effetto di una corrente d’aria che vi soffia nella schiena tutte le volte che vi mettete a leggerlo” (Deleuze, Conversazioni, con Claire Parnet, cit. in Fadini, Attraverso Deleuze, p. 31)

L’idea di libertà che cresce nella testa di Yakov è, il dispiegarsi, meravigliosamente, della coincidenza che troviamo in Spinoza tra libertà e necessità. Poiché Dio e la natura sono una sola cosa, e così l’uomo, “Se capite che la mente dell’uomo fa parte di Dio (…) in quel senso, siete libero, se siete nella mente di Dio”. (Malamud, op. cit., p. 63, e in Fadini, p. 32). Ma, insieme alla libertà, noi siamo inchiodati dalla Necessità (“Nello stesso tempo, però, c’è il guaio che siete inchiodato giù dalla Natura. (…) bisogna vedersela con una cosa che si chiama Necessità, ed è sempre presente, anche se nessuno la vuole.” (ibid.). E come può darsi la libertà, nella Necessità? La libertà viene “dal pensiero”, “se il pensiero è Dio”, dice Yakov. (ibid., Fadini, p. 33). Se crediamo nel Dio di Spinoza, ce lo spieghiamo “col ragionamento. È come se l’uomo volasse al di sopra della propria testa, sulle ali della ragione o qualcosa di simile. Ci si fonde con l’universo e si dimenticano le nostre grane” (ibid.).

Dall’idea che la libertà coincida con la necessità si sfogliano, nella mente di Yakov, tre piani: intanto la libertà è una cosa della mente, è materia della mente (“Se capite che la mente dell’uomo fa parte di Dio (…) In quel senso, siete libero, se siete nella mente di Dio.”)

La mente conosce le cose come sono in sé, come necessarie (Etica, II, P 44) e nel conoscerle come necessarie le conosce sotto una specie di eternità. E questa ‘specie di eternità’ è così umana, questa necessità delle cose è così vera, perché “questa necessità delle cose è la stessa necessità dell’eterna natura di Dio” (Spinoza, op. cit., pp. 159-160).

L’essenza della nostra mente consiste nella conoscenza, e Dio ne è ‘principio e fondamento’; la mente conosce l’essenza eterna e infinita di Dio (Etica, V, P36 Sch.) e in questa conoscenza adeguata, sa di seguire dalla natura divina (Spinoza, Etica, Editori Riuniti, 1988, p. 161 e p. 313). Il pensiero è Dio.

E il male, mi direte?

Qui interviene il secondo piano: la libertà appartiene al collettivo, è nome comune, si può essere liberi, come individui/singoli, soltanto se siamo liberi come popolo. “Credete che si possa essere liberi, così?” chiede Bibikov a Yakov, “E questa che descrivete è la vera libertà, secondo voi, o non si può essere liberi, senza la libertà politica?” (ivi, p. 64). “Ricordate, Yakov Shepsovitch, che se la vostra vita non vale niente, non vale niente neanche la mia. Se la legge non vi difende, alla fine, non difenderà neanche me.” (ivi, p. 138).

Il parallelismo spinoziano ordo rerum, ordo idearum, così come l’interconnessione tra natura naturans e natura naturata – interconnessione che è un continuo connubio, una “mutua immanenza” (Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica) -, il parallelismo ontologico-gnoseologico, è, lo sappiamo, anche politico, non può non esserlo.

Capire la natura, conoscere la necessità delle cose sub specie aeternitatis è immergersi nella mutua immanenza e aiutarla a essere. Perché questa mutua immanenza è costantemente interrotta, intralciata, depauperata di sé.

“Dal punto di vista filosofico la libertà è nella Necessità, e in pratica, nello stato, vale a dire, nell’ambito della politica e dell’azione politica. (…) per lui il fine dello stato, del governo, è la sicurezza e la relativa libertà dell’uomo razionale. Questo, per permettere all’uomo di pensare nelle migliori condizioni. Per Spinoza l’uomo è più libero quando partecipa alla vita della società, di quando vive in solitudine come faceva lui.” (Malamud, ibid., Fadini, ibid.) E ancora Bibikov: “ricordatevi che lo scopo della libertà è di creare la libertà per gli altri” (ivi, p. 247).

In questi giorni sembriamo dimenticare che costruire la propria libertà passa costitutivamente attraverso la creazione della libertà per gli altri.

Ma è difficile comprendere quell’univocità della mutua immanenza (il continuo amore, direi, tra natura naturans e natura naturata) che permette a tutti e a ciascuno di essere liberi, mutualmente e immanenti. È quel diventare minoritari e rivoluzionari, l’essere di sinistra, avrebbe detto Deleuze, che ‘percepisce prima l’orizzonte, all’orizzonte’, e soltanto dopo se stesso. “Ricordatevi , Yakov Shepsovitch, che se la vostra vita non vale niente, non vale niente neanche la mia”; “lo scopo della libertà è di creare la libertà per gli altri”.

L’ultimo piano che si dispiega nella mente di Yakov è che la libertà è corporea, è una cosa anche del corpo – non potrebbe non esserlo.

La libertà che è qualcosa della mente, che è necessità, che non può che essere collettiva, un nome comune, è anche qualcosa di corporeo (“non è facile essere un libero pensatore in questa terribile cella (…) quel che rimane del mio cuore è diventato un sasso” (ivi, p. 202); “In catene, la sola libertà che gli restava era quella di esistere, ma esistere senza scelta è come essere morti” (p. 207). “Una volta che te ne vai, sei fuori, all’aperto: piove e nevica. Nevica storia; vale a dire che quello che succede a un individuo dà l’avvio a una rete di eventi che esulano dall’ambito personale. (…) Amaramente sorpreso, era sprofondato nella storia più di altri. (…) Perché si era messo a leggere Spinoza? Un’idea può far diventare avventurosi?” (Malamud, p. 243; Fadini, ibid.).

“Quanto alla storia, pensò Yakov, c’è modo di capovolgerla. (…) dove non c’è lotta per la libertà, non c’è libertà.” (ivi, p. 259; ibid.).

La rivoluzione inizia nella mente – innescata dalla libertà, quell’idea avventurosa che scardina le catene, ogni catena, sia essa della mente, del corpo, degli affetti, dell’essere insieme, dell’essere comune. La rivoluzione inizia nella mente, e prosegue, idea avventurosa, nel corpo, che lotta, conoscendo, pensando, percependo l’orizzonte.