Violenza e coesistenza nella civiltà globale
Gianluca Viola

02.04.2022

Il mese appena trascorso è stato dominato dalle terribili immagini della distruzione causata dall'invasione russa in Ucraina – non parlo solo delle immagini trasmesse dagli organi d'informazione ma di quelle, ancor più brutali, trasmesse da militari o cittadini comuni sul web, attraverso i canali Telegram: queste ultime avrebbero forse permesso a Susan Sontag di aggiungere un nuovo capitolo al suo celebre saggio Davanti al dolore degli altri – e dal suono delle sirene d'allarme anti-aereo nelle città ucraine, divenuto ormai la colonna sonora anche delle nostre giornate.

La guerra è forse l'evento in cui più la politica s'approssima alla tragedia, poiché lascia emergere l'universale problema legato alla possibilità o all'impossibilità della co-esistenza. Nella concezione idealistica della tragedia – la concezione che ha partorito il concetto filosofico di tragico -, in essa si assiste allo scontro di due diverse individualità, rappresentanti di una certa "eticità", che perseguono unilateralmente i propri scopi cercando di prevaricare violentemente l'una sull'altra. 

Le dicotomie messe in scena dalla tragedia classica – la legge umana contro la legge divina, la razionalità contro l'irrazionale, la politica contro la religione – esprimono, come posta in gioco, l'enigma della possibilità della coesistenza e della molteplicità di queste diverse istanze su un unico piano, che sia quello della polis o, semplicemente, quello dell'individuo stesso. I profeti della "fine della storia" - con le modificazioni che questa formula ha assunto dopo la caduta del Muro di Berlino – si erano sbarazzati degli aspetti tragici del politico, immaginando la fine delle grandi conflittualità come dominio globale dell'istanza uscita vittoriosa dalle vicende del secondo Novecento.

Per usare l'espressione di una bellissima canzone, dobbiamo dire che troppi morti li hanno smentiti: lo scenario che si presenta oggi ai nostri occhi, tutt'altro che idilliaco, è completamente frastagliato; riflettendo sulla Russia - oggi al centro chiaramente dell'attenzione - è necessario segnalare l'emergere, negli ultimi trent'anni, di un pensiero guidato, fondamentalmente, dal rigetto della democrazia e del liberalismo, cui principale rappresentante è il filosofo Aleksandr Dugin. In genere, si presenta questo particolare personaggio come una sorta di ideologo di Putin – per quanto l'influenza del primo sul secondo sia effettivamente da verificare: nel suo pensiero, una certa visione di storia destinale si fonde a una concezione spiritualistica, fondata sull'ortodossia del cristianesimo russo, su un sostanziale rifiuto della modernità e su una critica totale dell'Occidente e del suo tramonto.

Nei talk show italiani che hanno ospitato, nelle ultime settimane, il filosofo, egli ha parlato direttamente di "conflitto spirituale", in merito alla guerra in corso: nella concezione del pensatore russo – in cui confluiscono tradizioni e correnti di pensiero alquanto diverse, dal perennialismo a una certa lettura di Heidegger, e perfino, in funzione anti-occidentale, il post-strutturalismo francese -, l'Occidente sarebbe dominato dal Logos di Cibele, materialista e ctonio, tendente all'omologazione e alla costruzione di un ordine unipolare; ad esso s'opporrebbe la Russia, fondamentalmente legata alla Tradizione e non pervasa dalla Modernità - dalla globalizzazione, dal liberalismo, dalla democrazia -, dominata invece dal Logos d'Apollo, l'ordine eterno del Cielo dal quale scaturiscono le forme perenni.

Secondo Dugin, siamo proiettati verso un momento escatologico definitivo – in rinnovata continuità con la tradizione dell'apocalittica russa: si avvicina l'attacco finale dell'Occidente a qualsiasi forma di tradizionalismo e a qualsiasi multipolarità ed è vicina l'imposizione del Logos di Cibele su scala globale. Il filosofo chiama noomachia questo scontro, una vera e propria "battaglia dell'intelletto" fra le potenze del Cielo – rappresentate dalla Russia – e quelle della Terra; se è vero che Dugin propone un ordine globale multipolare e non sostiene l'esistenza di un sistema gerarchico che regoli i contatti tra le diverse culture, la tendenza del suo pensiero è quella d'auspicare un ordine chiuso, in cui le grandi collettività - espressione concreta ed incarnazione del Dasein celeste nei popoli storici – restano, in ultima istanza, legate a un culto della tradizione e a un destino singolare e non interscambiabile.

Lo scontro militare odierno sarebbe dunque da leggere in questa prospettiva: per quanto sia chiaro che non può ridursi a questione ideologica l'evento bellico, caricare di questo senso profondo il conflitto ci riporta allo schema tragico precedente; sembra che la modalità di darsi del rapporto tra diverse individualità in contesa non possa esulare dal ricorso alla violenza, all'imposizione della forza bruta, alla prevaricazione e alla riduzione dell'altro a nemico da abbattere.

La guerra è una tragedia della Relazione, poiché ratifica il fallimento della coesistenza nella creazione del nemico in quanto minaccia concreta rispetto alla propria stessa sopravvivenza. L'enigma tragico resta sempre attuale: è possibile favorire la coesistenza nella diversità senza imporre, attraverso la violenza, la prevaricazione di un'istanza sull'altra? Si tratta del problema per eccellenza della nostra contemporaneità, del Grundproblem: esso vale tanto per la fattispecie politica e geo-politica, quanto per le problematiche insite nella crisi ecologica e nella catastrofe planetaria del cambiamento climatico.

Se l'intollerabile violenza bellica russa sfugge a qualsiasi grossolano e vergognoso tentativo di giustificazione in funzione anti-occidentale, è pur sempre lecito ricordare che, d'altro lato, i profeti della "fine della storia" e gli apologeti del neo-liberismo hanno ripetuto, su un piano economico e simbolico, lo stesso meccanismo che vediamo oggi all'opera e che potremmo sintetizzare con l'espressione "meccanica della Relazione": con questo termine, mi riferisco ad una certa modalità di darsi della Relazione in quanto assemblaggio di componenti già inizialmente piegati ad un progetto generale, cui essi sono subordinati.

In questo senso, l'imposizione del modello democratico-liberale su scala globale si muove proprio secondo questo meccanismo: affinché questo progetto generale sia attuato, è necessario che le diverse componenti – istituzioni politiche, socialità, religiosità, etnicità, sistema economico e forma-di-vita in quanto tale – presenti nei luoghi in cui questo si impone, siano preliminarmente rese idonee alla connessione l'una con l'altra, il che presuppone una certa violenza e una certa prevaricazione su queste stesse istanze, che devono essere concatenate in senso, appunto, meccanico da un'istanza superiore che non entra in Relazione ma funge, piuttosto, da modello di quest'ultima.

I vecchi e nuovi colonialismi sono forse il sunto pratico di questa meccanica della Relazione: non stupisce che alcuni elementi per il superamento di questa condizione siano stati elaborati, appunto, da pensatori provenienti dai paesi decolonizzati, nell'ottica dei cosiddetti post-colonial studies. Penso soprattutto al grande poeta antillano Èdouard Glissant, il quale ha proposto, in luogo di questa meccanica della Relazione, una poetica della Relazione: una prospettiva feconda di coesistenza tra le diversità culturali in cui ogni progettualità è subordinata alla contingenza dell'incontro reciprocamente trasformativo, in cui le diverse istanze in gioco mantengono una certa "opacità", una distanza da quella trasparenza che riduce l'Altro allo Stesso, uno scarto a partire dal quale una Relazione può esistere fuori dalla minaccia della prevaricazione e della violenza reciprocamente distruttiva.

Questa prospettiva non si adagia unicamente sull'ottica limitata dei macro-rapporti tra culture diverse, ma si muove e incide su piani differenti: la violenza distruttrice e ferocemente negatrice non minaccia unicamente la coesistenza fra le differenze culturali, ma la coesistenza all'interno delle differenze culturali stesse; oltre che da un significato politico, essa è investita da un valore principalmente etico, implicando, nella sua realizzazione, la creazione di differenti rapporti nella vita sociale e nella vita personale degli individui.

Dal punto di vista della prassi, la Relazione – lungi dal rappresentare un ideale astratto cui anelare – si presenta in quanto sostegno concreto alle lotte reali per il superamento della violenza e della prevaricazione sociale e politica – avvenga essa per mano di un singolo su un singolo, di una parte della popolazione contro un'altra, dello Stato contro i cittadini, di una cultura che manifesta la sua potenza distruttiva su un'altra – e per la promozione di una coesistenza creativa, fondata sull'effluvio e sull'armonizzazione delle differenze e sulla loro libera emersione.

Una poetica della Relazione presuppone delle pratiche virtuose di depotenziamento e di apertura nei confronti dell'Altro - si presenti esso sotto forma d'alterità culturale, si presenti sotto forma d'alterità "naturale", nel senso della problematica ecologica. La torsione universalizzante dell'Occidente neo-liberale e quella imperialistica e nazionalistica della Russia parlano, in fondo, la stessa lingua: entrambe sono repellenti alla Relazione, rifiutano la coesistenza; le contrapposizioni simboliche proposte da Dugin o da qualche commentatore occidentale occultano la contrapposizione reale, che è quella tra le differenti modalità di darsi della Relazione e della coesistenza: violenta-distruttiva da un lato, o poetico-creativa dall'altro.

Con ciò non si vuole sostenere un'equivalenza tra le due istanze in gioco – di cui l'Ucraina non è che, in fondo, la vittima sacrificale – e non si deve ricadere nemmeno nel tanto vituperato "né...né". La ferma condanna delle azioni di Putin non deve farci però regredire alla logica bellicistica dell'inimicizia proposta un secolo fa da Carl Schmitt. Per troppo tempo è stata obliata la verità secondo cui la pace non è certo un dato di fatto, ma un'aspirazione da rinnovare sempre attraverso la prassi.

Una poetica della Relazione è quanto meno da tentare, se non vogliamo che le sirene di Kiev siano solo il preludio delle campane-a-morto che, presto o tardi, potrebbero risuonare in tutto il mondo.