Verso una verità educativa
Valentina Chianura

02.07.2022

Lo scenario in cui ci troviamo a vivere diventa ogni giorno sempre più “drammatico” o forse potrebbe sembrare così se non riuscissimo a cogliere anche la più piccola parte positiva delle cose. D’altronde la speranza di riuscire a percorrere senza problemi un cammino così complicato risulta sempre più flebile. Al giorno d’oggi, infatti, tra guerre, crisi economiche, politiche, sociali che avanzano e tante altre questioni, vengono meno l’attenzione per le pratiche educative e la coltivazione del senso di responsabilità.

Come ci insegna Tim Ingold, l’educazione dovrebbe diventare per l’individuo un’abitudine a prestare attenzione al mondo, aprendoci ed esponendoci alla sua presenza e al contempo alla sua trasformazione, affinché ci conduca fuori o ci metta in una posizione più attiva e appunto responsabile.

E’ proprio attraverso l’educazione che si possono aprire non solo strade di crescita intellettuale ma anche di scoperta effettiva. Bisognerebbe tralasciare gli obiettivi che spesso ci vengono imposti con spirito “aziendale”, così si afferma, rivolgendoci invece, con sguardo critico, al complesso di saperi situati, plurali, a volte decisamente “eccentrici” che comunque va riformulato incessantemente.

Mi verrebbe da aggiungere che solo ponendo “attenzione” verso qualcosa che conta davvero riusciremo forse a “percepire” qualcosa di percorribile in relazione ad un mondo in continua evoluzione.

Eppure, risulta tutto così difficile. Fare i conti poi con l’imprevedibile, con quel qualcosa che ci “destabilizza” e che mette in gioco la nostra capacità di improvvisazione, di certo non facilita lo svolgimento dei nostri tentativi. La pretesa di avere il controllo di ogni situazione ci porta ad alterare costantemente e a modificare lo spazio di “comfort” che ogni individuo si costruisce. Anche se provassimo a modificare concretamente lo sviluppo ordinario dei processi nei quali ci si trova coinvolti, il senso di fatica derivabile dal nostro costitutivo essere relazionati al mondo non potrebbe certamente essere accantonato, rimosso.

Nell’esaminare questo scenario moderno in continua evoluzione tendente ad una visione piuttosto “negativa” del nostro esistere, ci accorgiamo, laddove possibile, che i cosiddetti valori si trasformano e resta sempre più nascosta quella che “classicamente” si può indicare come la “verità”. Rimarcando la linea di pensiero di Ingold, infatti, ci si rende conto che la ricerca della verità non smette di “spaventare” gli essere umani.

Diventa in effetti semplice celarsi dietro parole ritenute ovvie, “facili”, ma risulta difficile invece interagire con il mondo e imparare ad “abitare l’esperienza” nel senso più vero del termine. Se volessimo fare un salto indietro rispetto alla nozione di verità, ai tempi remoti di Eraclito e Parmenide, la stessa risulterebbe legata al concetto di conoscenza e al rapporto creatosi tra soggetto conoscente e oggetto della conoscenza oppure, scorrendo nel tempo, la si intenderebbe come illuminazione divina, ad esempio nell’epoca medioevale.

Platone, attraverso i miti e nei suoi dialoghi, andava alla ricerca della verità, per ricordare gli inizi dell’avventura filosofica. La storia di quest’ultima, una volta minimamente normalizzata, presenta poi diversamente il riproporsi di quel singolare concetto che è appunto la “verità”: si pensi esemplificativamente a Karl Popper e al suo riferimento alla verità come elemento da noi mai posseduto pienamente in quanto le conseguenze di una teoria sarebbero infinite e il futuro della storia umana risulterebbe imprevedibile.

La verità, allora, può essere avvertita da qualcuno anche come una “minaccia”.

Non lo vediamo precisamente, ma l’idea stessa del vero ha portato e tutt’ora porta ad effetti e conseguenze pure “catastrofiche”. Questo spinge a riflettere e a dare una chiave di lettura ancor più incisiva al nostro esistere e a fare in modo di considerare quel senso di autorità che si vuole comunque conservare e diffondere come un modo specifico di mantenimento di sapere/potere.

In conclusione vorrei ritornare sul significato che Ingold individua nel concetto di verità al fine di comprendere come la stessa faccia “paura”, per dirla con il linguaggio ordinario.

A me sembra che la “verità” non sia da cogliersi come un obiettivo o un fine da perseguire a tutti i costi, cosa che non accadrà mai…, ma che debba invece essere considerata come qualcosa che coincide proprio con l’esistere.

Torna così il riferimento all’importanza di mantenere desto e perseguire il senso del ben- vivere (per richiamare Edgar Morin), dell’importanza delle pratiche educative per la riformulazione/trasformazione progressiva del legame sociale.

Émile Durkheim non sbagliava certamente quando considerava le pratiche educative come espressione specifica del tessuto connettivo della società, così come non erra il libero pensatore catalano Francisco Ferrer y Guardia con la sua impresa rivoluzionaria, nell’epoca in cui visse, che consistette nell’insegnare il valore di una socialità differente e radicale alle ragazze e ai ragazzi della borghesia della Escuela Moderna, tentando di sviluppare un’educazione anti-autoritaria basata proprio sul potenziamento di valori, saperi/ conoscenze, disposizioni relazionali differenti da quelli istituiti.

Tale lezione ci dice che il soggetto non deve mai smettere di acquisire saperi e di riflettere sul proprio sé in formazione, perché è così che può diventare una sorta di esploratore del mondo (Ingold). Insisto sul fatto che potrebbe riuscire a farlo ancor più, osservando con atteggiamento positivo ciò che lo circonda, imparando da ogni piccola cosa, cercando di avere uno sguardo “vero”, certo disincantato ma non meno vivo.

Ogni cosa risulta difficile da affrontare, ma se realizzata anche e solo in parte nel più soddisfacente dei modi possibili, diventa meno complicata la ricerca per raggiungere quel senso di sia pur minima “certezza” che potrebbe fornirci gli strumenti idonei ad esplorare il “mondo” che ci troviamo di fronte e a percorrerlo con un po’ di semplicità.

Riprendendo il filo del ragionamento di Barbara Ward, che considerava come sia raro che gli essere umani imparino effettivamente in termini differenti e più significativi ciò che ritengono invece già di sapere, mi verrebbe da pensare come la “verità” possa “colpire” le emozioni per manifestare un sapere nuovo, costruendo costantemente quel senso educativo, trovando significati ai gesti e alle parole del singolo nella società, provando a “rischiare”, avendo cura dell’imprevedibile e del bene individuale e collettivo.

Si può anche dire così, in maniera forse eccessivamente schematica: la verità va vista come un desiderare e allora bisogna non abbandonarsi completamente a ciò che è già saputo per tentare di percepire diversamente, per perlustrare territori ancora in parte incogniti.