Street art o dell'ambiguità
Serena Giordano
Comitati anti graffiti all'opera

14.05.2021

Uno degli aspetti caratteristici della cosiddetta Street art è certamente l’ambiguità. Dal lontano 21 luglio 1971, quando sul New York Times compariva il primo articolo sul fenomeno (sociale e non ancora artistico) dell’arte di strada sono cambiate molte cose. In principio tutto sembrava piuttosto chiaro. Da una parte c’erano i writer, ovvero i vandali. Attraverso le tag, piccole e invasive o gigantesche e coloratissime i “graffitari” marcavano il territorio rivendicando il diritto di esprimersi in uno spazio aperto e pubblico. Dall’altra, c’erano i tutori dell’ordine e del decoro, sindaci e forze dell’ordine impegnati a reprimere writer che, spesso, non avevano più di quindici anni.

Già sul nascere, la relazione tra i due mondi era piuttosto ambigua. Alcuni writer, come per esempio Phase 2, dedicavano versi ai loro persecutori, definendoli “muse ispiratrici”. Certo, senza repressione anche la trasgressione latita. E poi, c’erano poliziotti che, dopo aver inseguito crew e singoli graffitisti per anni e anni, una volta catturate le prede, diventavano appassionati collezionisti delle loro opere. Solo quattro anni dopo l’articolo sul NYT, lo scenario era cambiato. I dieci writer più importanti di New York trasferivano il loro bagaglio iconografico dalla strada alle pareti immacolate della Razor Gallery di Soho, convinti da Hugo Martinez a produrre opere su carta e su tela. Così, gli schieramenti cambiano. Non più vandali contro sbirri, ma writer contro ex colleghi trasformati in artisti.

Questi ultimi mostravano due possibili atteggiamenti. Il primo era entrare nel business dell’arte ammettendolo apertamente, come fecero Keith Haring e Jean Michel Basquiat qualche anno dopo. Il secondo consisteva nel negare il cambio di status per continuare a esprimersi con disprezzo nei confronti dell’arte ufficiale e del suo mercato. Ecco la prima ipocrisia. Un atteggiamento che, ancora oggi, possiamo trovare immutata nella sostanza in un personaggio assai discutibile come Banksy che continua a lanciare invettive contro il capitalismo e i brand pur essendosi trasformato innegabilmente nel super brand della Street art.

Graffitisti nella N.Y. degli anni Settanta, preparano tele e disegni per la mostra di Martinez

Ma i dietrofront e le ipocrisie riguardano anche i difensori del pubblico decoro. Comitati di probi cittadini composti da signore perbene e commercianti sono nati più o meno spontaneamente anche nel nostro paese per difendersi dagli “imbrattamuri”. Ma anche loro, recentemente, hanno mutato il loro atteggiamento. Sono passati i tempi in cui si aggiravano per le strade dei centri storici brandendo pennelli e rulli intinti nella pittura bianca al grido di “tolleranza zero”! Oggi, persino “gli angeli del bello” fanno dei distinguo. Tutto sommato, affermano pubblicamente, alcuni di quei pasticci sui palazzi potrebbero anche non essere poi così male. Soprattutto da quando alcuni artisti di strada sono diventati star e le loro opere, pagate da collezionisti cifre considerevoli, sono coperte da vetri. Questa ipotesi toglie loro il sonno. Si domandano: e se quella “cosa” che ho coperto con la pittura bianca sul muro sotto casa fosse un Banksy?

Merita anche qualche riflessione l’inaspettato interesse dell’ex rettore dell’Università di Bologna Fabio Roversi Monaco per il mondo delle bombolette spray e dei raid notturni e illegali dell’arte di strada. Che cosa lo avrà spinto a proporre e realizzare, nel marzo del 2016 la mostra “Street art”? Un uomo che rappresenta le istituzioni sarebbe stato forse più a suo agio nella veste del censore, del cancellatore di graffiti e di altre offese al decoro cittadino. Ma c’è di più. A sorpresa, la sua iniziativa provocherà la reazione di Blu nella veste inedita di censore. Armato di pennelli, rulli e vernice, lo street artist ha cancellato le sue stesse opere per non farle cadere nella mani del nemico che, a parer suo, non aveva alcun diritto di impossessarsene per esporle. Giusto. Ma faceva una certa impressione leggere le dichiarazioni del professore emerito che si difendeva sostenendo che le opere erano di tutti, perché Blu ormai le aveva donate alla città.

Insomma, Roversi Monaco sosteneva una tesi classica della vecchia guardia dell’arte urbana, e cioè che “la città appartiene a tutti”. Mentre Blu, sottraendo le sue opere a chi magari era ben felice di vederle ogni giorno uscendo di casa, ne ha disposto come se fossero di sua proprietà. Una storia davvero stravagante. Non posso nascondere di essere colpita dal recente dibattito (che ha poi creato anche una letteratura secondaria sul tema) a proposito della conservazione delle opere di Street art. Appartengo a quella generazione che ricorda quanto fosse romantica e suggestiva l’idea che l’arte urbana fosse effimera per definizione. Quindi, la comparsa sui muri di alcune città di vetri protettivi delle opere murali è stata un po’ scioccante.

Ricordo un anonimo street artist napoletano che, in calce a una sua produzione, aveva scritto: “Niente vetro, grazie”. Circa un mese fa, poi, è accaduta una cosa davvero curiosa. La Galleria deli Uffizi ha accolto nella sua collezione un’opera del noto street artist Endless. L’opera è una specie di collage che, tra l’altro, rende omaggio a due grandissimi artisti britannici, Gilbert & George. L’aspetto divertente della vicenda è che questa inclusione ha accomunato nell’indignazione schieramenti solitamente opposti. Da una parte si sono scandalizzati i classici benpensanti, quelli che, dopo più di cent’anni, non hanno ancora digerito l’Orinatoio di Marcel Duchamp. Per loro la Street art non è che un segnale del degrado dei costumi contemporanei e gli Uffizi sono un luogo sacro e inviolabile, un tempio del bello, del buono e del giusto.

A questi benpensanti non si può negare la coerenza (ho sempre pensato che senza questi passatisti a oltranza, forse, la storia dell’arte si sarebbe fermata). Che cosa sarebbe successo se Fountain fosse stata accettata con entusiasmo? Insomma, les imbéciles servono. Sul fronte opposto si sono scandalizzati i puristi della Street art. Quelli che sono indignati già da tempo per la compromissione di molti giovani che, magari stufi di tirare avanti facendo tatuaggi o lavorando alla cassa di un supermercato, hanno pensato di guadagnare un po’ di soldi con le loro abilità e hanno detto di sì a mercanti e galleristi.

Per questo schieramento di moralisti che li condanna e li definisce “venduti” gli Uffizi sono un luogo simbolicamente inviolabile, esattamente come per i loro nemici di cui sopra e la presenza della Street art in quel contesto è un chiaro segno della fine. Personalmente ho trovato interessante la dichiarazione di direttore del museo fiorentino Eike Schmidt: “Osservando, nelle collezioni storiche degli Uffizi, come i granduchi Medici fossero avidi di accaparrarsi le ultime novità, anche le più ardite prodotte sulla scena artistica, oggi sarebbero felici di vedere l’opera di Endless entrare nelle proprie raccolte”. Perché no?