Sostenibilità e ritorno alla normalità
Stefano Righetti

26.03.2022

Una serie di misure e soprattutto di annunci hanno sancito, prima dello scoppio della guerra in Ucraina, la scadenza imminente con cui saremmo “ritornati alla normalità”, “dopo la pandemia”. Sennonché l’inizio della guerra ha cancellato il tema della “riapertura” mentre se ne discutevano ancora l’opportunità e il significato, e del virus si tende ormai a non parlare se non in modo un po’ sbrigativo. In molti dibattiti televisivi i sostenitori di Putin hanno ormai sostituito i virologi.

Attenuato il grido giornaliero del numero di morti, ricoverati e nuovi infetti, il virus sembra tornato all’invisibilità che gli è propria, e la sua esistenza oramai puramente discorsiva è, come tale, sempre eludibile. Di conseguenza, per quanto le infezioni non siano affatto in calo, e stiano anzi risalendo, l’interesse verso il suo pericolo è venuto meno e con questo anche il pericolo stesso non sembra più tale. Il dettato e l’ordine generale è ovunque lo stesso: tornare al mondo e alla vita “normale” il prima possibile.

Su questo ritorno la guerra ha messo tuttavia una nuova ipoteca, che a sua volta ne ha cancellata un’altra, quella ambientale, a cui il virus era legato o che comunque implicava.

Sennonché l’economia torna a unire in modo prevedibile tutti i problemi che il “ritorno alla normalità” implica in sé. Ed è a questo riguardo che il termine “sostenibilità” sembra aver assunto finalmente (si fa per dire) un significato definitivo, liberandoci dalla sua recente ambiguità. E liberandoci, possiamo aggiungere, dall’ingenua attesa per tutto ciò che il suo impiego avrebbe dovuto significare sul piano ecologico eccetera.

Nulla permette infatti di chiarire il valore del termine sostenibilità all’interno del nostro dibattito politico e economico più di quanto facciano alcune importanti dichiarazioni di questi giorni da parte di alcuni principali “attori” economici e politici.

Posti di fronte alle difficoltà economiche della guerra, alcuni industriali e i loro referenti politici stanno infatti insistendo per un allentamento del piano di governo (in realtà mai ben chiarito nel dettaglio) sulla cosiddetta “transizione ecologica” o per accompagnarla a un qualche sostegno economico per le produzioni più inquinanti, a dimostrazione (se ce ne fosse ancora bisogno) che all’industria le novità sembrano piacere meno di quanto spesso professato. Senza contare gli allentamenti alle normative sul carbone e i pesticidi che la sostenibilità economica alle difficoltà attuali sembra unanimemente richiedere.

Rispetto alla situazione attuale, un articolo del Domani del 1 marzo riporta una dichiarazione dell’amministratore delegato di una nota casa automobilistica tanto vera quanto illuminante. Sia per quanto riguarda ciò che dobbiamo intendere per “normalità”, sia per ciò che questa normalità sottintende sul piano della sostenibilità – che, in questo caso, sembra ormai chiaro, non è più tanto quella ambientale, ma innanzitutto quella del nostro sistema produttivo.

Chi parla spiega infatti che difficilmente si potrà tornare al livello produzione di automobili del passato fino a quando i cittadini europei non riavranno il dilemma di decidere il sabato mattina dove passare il week-end.

Se ciò esprime un consapevole ritratto di ciò che l’automobile ha significato nello sviluppo del particolare modo di vita occidentale dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, la domanda che potremmo a questo punto porre a quella che, dal punto di vista dell’industria, sembra una speranza (il ritorno cioè a quel modo di vita), non può che essere una sola: ma non era proprio questo tipo di “normalità” il problema?, il fatto, cioè, che una serie di attività “quotidiane” fossero diventate a questo punto (nell’ambito dei nostri comportamenti “di massa”) altrettanto insostenibili che le produzioni più inquinanti, o comunque legate a queste in modo di fatto inscindibile?

È davvero possibile, e dunque realistico, retrocedere da quella consapevolezza in nome della sostenibilità economica di alcuni settori specifici della nostra produzione, certamente ampi sul piano dell’impiego, ma del tutto insostenibili su quello ambientale? Ci rimane ancora un qualche margine, una qualche uscita di sicurezza, razionalmente pianificabile, al modello di sviluppo che ci siamo dati, guerre comprese?; oppure ci resta soltanto il maquillage illusorio (e ingannevole) dell’esistente, dietro cui nascondere l’assoluta impossibilità di un autentico cambiamento di paradigma?

Ecco, rispondere a queste domande senza avvolgersi in qualche astratta (e inconcludente) teorizzazione, in sé sempre retorica, sul bene da conseguire e sul male inevitabile del nostro vivere sociale, sembrava già difficile ieri, ma sembra diventare oggi sempre più impossibile.

Viceversa è chiaro che, declinata nei piani economico-politici di governo, la sostenibilità potrebbe trasformarsi nella nostra definitiva condanna: il tentativo (maldestro) di mantenere in essere ciò che dovremmo invece abbandonare al più presto. In poche parole, gran parte del nostro sistema di vita e di quello che gli articolisti alla moda chiamano stile.