Palestre di precarietà
Andrea Caroselli

26.09.2022

Il testo che segue è tratto dall'Introduzione al volume Palestre di precarietà di Andrea Caroselli, edito da Ombrecorte.


Nella problematica “vissuta”

È possibile distinguere diverse prospettive che hanno problematizzato i processi scolastici con il proposito di svelarne la commistione con i fenomeni di dominazione. Di fronte al persistere delle disuguaglianze, la presunta neutralità dell’istituzione è stata interrogata e confutata sulla base del ruolo ideologico svolto nella naturalizzazione della realtà sociale e della propria dipendenza con la struttura classista del mercato del lavoro (Althusser 1970; Jenks 1972; Bowles e Gintis 1976). Questi approcci sono stati criticati a causa di una tendenza determinista (Giroux 1983), ma hanno avuto sicuramente il merito di demistificare l’apparente consenso intorno alle forme dell’educazione pubblica. A partire dagli anni Settanta, le analisi iniziano sempre più insistentemente a interrogare e interrogarsi non solamente su quanto i risultati scolastici rispecchino l’origine sociale di studenti e studentesse, ma sullo stesso contenuto pedagogico dell’istruzione.

Nelle riflessioni teoriche di Pierre Bourdieu e Jean-Claude Passeron in Francia (Bourdieu e Passeron 1964; Bourdieu e Passeron 1970), così come di Basil Bernstein in Gran Bretagna (1962, 1974), le forme della pedagogia scolastica sono studiate e decostruite a partire dalla prossimità alle norme della classe media. Emblematica in tal senso è la raccolta di scritti edita da Michael Young e dal significativo titolo Knowledge and Control (Young 1971) da cui si ricava un quadro in cui l’istituzione, tanto più efficacemente quanto più implicitamente, contribuirebbe a classificare gli individui sulla base una gerarchia linguistico-culturale per nulla “neutrale”. D’altronde, il contesto è profondamente segnato dall’attenzione alle tecnologie di “pouvoir-savoir” ed è bene ricordare come proprio in quegli anni vedrà la luce Sorvegliare e punire (1975), in cui Michel Foucault tratterà anche, sebbene lateralmente, della genealogia di alcune tecniche scolastiche. L’apporto di tali studi è notevole, anche perché in grado di aprire un dialogo diretto con la classe docente, alla quale vengono riconosciuti dei margini di autonomia, e potremmo situarli come prossimi all’emergere di pedagogie sempre più impegnate a riflettere su sé stesse e su come “mettersi al servizio” dell’emancipazione sociale e culturale (Freire 1968, 1992; Illich 1971; bell hooks 1994; Young 1971).

La “scatola nera” della scuola viene così apertamente problematizzata dal punto di vista sia epistemologico sia pratico. Non è un caso che iniziano a essere pubblicate numerose etnografie volte a osservare da vicino la quotidianità scolastica, mettendone in luce i processi di esclusione e di inferiorizzazione, ma anche di opposizione, adolescenziale e di classe, all’acculturazione scolastica (Hargreaves 1976; Hammersley e Woods 1976). Se le ricerche maggiormente influenzate dall’interazionismo simbolico e dalle teorie dell’etichettamento si concentrano perlopiù sul modo in cui rappresentazioni e stereotipi influenzano profondamente il giudizio scolastico, come per il lavoro sugli insegnanti di Howard Becker (1952a, 1952b) o nell’importante caso dell’effetto Pigmalione (Rosenthal e Jacobson 1978), si sviluppano anche una serie di studi il cui principale intento è quello di far dialogare la dimensione etnografica e, per così dire, fenomenica, con i punti di vista più strutturali, mettendo quindi in rilievo soprattutto gli aspetti collettivi e conflittuali dei processi scolastici piuttosto che gli episodi di discriminazione esplicita.

È il caso dei Cultural Studies britannici ma, accanto alle ricerche in cui la centralità è tutta rivolta alla materialità e alla cultura dell’esperienza della working-class (Cohen 1982; Corrigan 1979; Willis 1977; Bates, Clarke et al. 1984), iniziano ad affiancarsi analisi qualitative in cui emerge prepotentemente la questione della “razza” e del genere (Cohen 1982; Dhondy 1974; Gilroy, Lawrence 1988; McRobbie e Garber 1976; Sayad 2014). Questi metodi, sempre più insistentemente, si propongono di considerare l’incontro/scontro con la scuola e con le sue norme “all’interno” del più ampio contesto di vita dei giovani, a partire dal loro protagonismo e dalla socializzazione familiare e amicale. Diventa sempre più complesso delimitare il lavoro etnografico scolastico, escludendo quell’ampio campo di ricerca che si è storicamente dato nell’analisi delle culture subalterne, con una particolare attenzione ai modi in cui viene continuamente risemantizzata e vissuta la quotidianità urbana. In tal senso, è possibile rifarsi finanche ad alcuni tra i primi lavori della scuola di Chicago (Thrasher 1927; Whyte 1943) e, più in generale, a quegli studi impegnati a ricostruire il rapporto conflittuale tra gruppi minorizzati e società formale. Emblematico di tale interesse e di questa necessaria postura trasversale sono senza dubbio le riflessioni sociolinguistiche di William Labov (1972, 1993) che, nel trattare del vernacolare afroamericano, non può esimersi a sua volta di considerare l’esperienza scolastica all’interno della street culture dell’epoca, giungendo a criticare fortemente anche alcuni impliciti classisti presenti a suo avviso nella teoria dei codici linguistici elaborata da Basil Bernstein (1971, 1973)1.

La letteratura più recente continua a essere fortemente influenzata da questo sguardo. È possibile osservare come, da un lato, l’attenzione ai rapporti di oppressione e a quella che, con Michel De Certeau, potremmo chiamare “l’invenzione del quotidiano” (De Certeau 1990) non può mai disfarsi del tutto della relazione con il sapere formale e l’istituzione scolastica per come è continuamente subita, scritta e riscritta dai soggetti (Bourgois 1995; Dubet 1987; Lepoutre 1997; Queirolo Palmas 2011, 2014), e, dall’altro lato, quanto la letteratura sulla disuguaglianza scolastica sia sempre più ricettiva a un metodo qualitativo che consideri studenti e studentesse come soggetti “pieni”, e non semplici figure vuote, situandone il punto di vista e l’agency all’interno del contesto storico-politico e della loro traiettoria sociale (Evans 2006; Lahire 1998; Millet e Thin 2005; Hollingworth e Williams 2009; Ogbu 2003; Vienne 2008).

Per quanto riguarda l’Italia, invece, valgono le considerazioni recentemente espresse da Marco Romito e Fulvia Antonelli che, sottolineando la povertà della tradizione etnografica italiana, ritengono che le ricerche più significative sul rapporto tra scuola, società e disuguaglianze siano state forse “le Esperienze Pastorali di Lorenzo Milani, l’opera di ricerca pedagogica di Mario Lodi (1963) e del Movimento di Cooperazione Educativa e l’esperienza della rivista L’Erba Voglio (Fachinelli et al. 1971)” (Romito e Antonelli 2018, 208). A queste è necessario aggiungere, di recente, quantomeno le analisi sulla riproduzione di Marco Pitzalis (2012) e proprio le ricerche di Marco Romito e Fulvia Antonelli, l’uno essendosi occupato, con un impianto teorico bourdieusiano, dei meccanismi di discriminazione inconscia in atto nei colloqui d’orientamento scolastico (Romito 2014, 2016), l’altra di osservare da vicino i conflitti tra studenti e studentesse di classe popolare e l’istituzione, prestando una particolare attenzione anche ai background migratori (Antonelli 2018; Antonelli e Guerzoni 2009, 2014).

Se, in tal senso, la presente etnografia si situa in questo ristretto filone di ricerca, e lo fa accentuando l’importanza di una maggiore ibridazione teorica con il campo degli studi culturali, è necessario sottolineare come il campo della scuola, in particolare quando si tratta di razzismo fuori da questi quadri teorici, sia sempre più tematizzato attraverso concetti come quello di intercultura e di una critica dei curricula scolastici, spesso attraversati da stereotipi ed etnocentrismi. Cartina di tornasole di una rinnovata sensibilità nei confronti delle discriminazioni, la letteratura scientifica più “istituzionale” è da tempo impegnata a decostruire alcuni immaginari sostanzialistici e reificati della “cultura” (Grant e Portera 2011; Demetrio e Favaro 2004; Portera 2010; Santagati 2015), diventata, da qualche decennio, la parola d’ordine di quello che Pierre-André Taguieff ha efficacemente sintetizzato con il termine di “neo-razzismo differenzialista” (Taguieff 1985, 1988).

Si tratta di un approccio che tende a concepire il razzismo principalmente come una questione di ignoranza e pregiudizio individuale, una sorta di vizio soggettivo, il cui rimedio sarebbe da rintracciare, per l’appunto, in massicce dosi di un’educazione adeguata. Già criticata recentemente a causa di una sua intrinseca incapacità a “uscire” da un lessico esotizzante, inferiorizzante e dalla rappresentazione di una stereotipata differenza, in cui l’Altro è sempre oggetto e mai soggetto (Baroni 2013), l’intenzione di questo volume non è tanto quella di lavorare all’interno dei paradigmi interculturali per mostrarne i limiti, quanto piuttosto di proporre un’etnografia scolastica che, tra i suoi diversi obiettivi, abbia quello di riportare tali discorsi “coi piedi per terra”, sarebbe a dire il più lontano possibile da alcuni vizi “idealistici”. Si tratta di mostrare che, una volta andati nelle viscere della scuola superiore italiana, è arduo pensare di poter articolare la questione della “razza” senza toccare quella della classe (e viceversa).

Del resto, è altrettanto complicato concentrarsi principalmente sugli argomenti insegnati, i curricula e le materie di studio, una volta osservato da vicino il rapporto tra i ragazzi e l’istituzione. Le statistiche sulla “segregazione formativa” tra le diverse filiere di istruzione, sul “fallimento scolastico” e le espulsioni, sono infatti indicative di una diseguaglianza che perdura nel tempo (Azzolini e Barone 2012; Checchi 2010; miur 2017) e che riguarda in particolar modo gli alunni e le alunne con cittadinanza diversa da quella italiana, ma non risparmia certamente chiunque abbia un background socioeconomico distante dai canoni della classe media. Come vedremo dall’etnografia, significa che, in particolare ai gradini più bassi della gerarchia sociale dell’istruzione pubblica, le popolazioni scolastiche sono sempre meno “bianche” e ci si deve confrontare con una quotidianità complessa, attraversata dai più disparati conflitti. Ma se è piuttosto facile individuare il razzismo nei comportamenti soggettivi dei ragazzi, negli scambi simbolici e negli insulti rituali, è meno intuitivo ricomprenderlo nelle ragioni della scuola che, confermando un destino spesso già inscritto nella propria storia sociale, finisce per relegarli tutti, casualmente, in istituti il cui ruolo didattico rimane enigmatico.

Phil Cohen (1982) scrisse della sistematica ripartizione tra una forma sottile e rispettabile di razzismo e quella, spettacolarizzata, che tende a scaricarne le cause sui modi “rudi” delle classi popolari. Valerio Marchi (1994a) si domandò quanto dei comportamenti giovanili, facili capri espiatori, non fossero la cartina di tornasole delle pulsioni più nascoste della società italiana. Più banalmente, rimarchiamo l’ironia di come spesso a essere additati come origine di razzismo siano coloro, i pochi, che con quei soggetti ne condividono gli spazi, in carne e ossa, e non si limitino a contemplare l’astratta figura retorica del migrante. Come emergerà lungo tutto il corso della tesi, tra i ragazzi, oltre agli insulti, si creano legami, vissuti ed esperienze che possono destabilizzare le rigide frontiere dell’appartenenza nazionale (Gilroy 2000). Ancor più importante è infatti quanto i significati veicolati nella quotidianità scolastica siano attraversati costantemente dal rifiuto ostentato dell’istituzione, dallo sprezzo per i suoi insegnamenti, ma anche dalla disillusione sul suo ruolo. Lungo il corso della ricerca, sembra così costituirsi “una rete complessa e conflittuale di convinzioni, simboli, modalità di interazione, valori e ideologie che si è consolidata in risposta all’esclusione imposta dalla società dominante” (Bourgois 1995, p. 38). Segnata da contorni instabili e precari, per l’assenza di riferimenti solidi e perché le traiettorie e gli sguardi sono numerosi e diversi l’uno dall’altro, ritorna spesso un comune disinteresse al gioco scolastico, una conflittualità proteiforme e sfuggente il cui fulcro concerne proprio l’inutilità stessa dell’azione pedagogica ai fini della propria vita.

D’altronde, nonostante il campo dell’istruzione formale si presti in maniera pressoché naturale a una lettura incentrata sul conflitto tra il “curriculum nascosto”2 (Sembel 2003) della scuola e gli habitus incorporati dai ragazzi, non è raro che lo studioso dei processi scolastici finisca per proiettare sui soggetti dei suoi studi categorie e stili di pensiero segnati dal proprio inconscio accademico. In tal senso, si corrono due rischi epistemologici: da un lato vi è quello di prendere troppo “alla lettera” la narrazione che gli studenti e le studentesse fanno di loro stessi/e, ignorando quanta parte del racconto sia il prodotto di una storia di giudizi istituzionali, di rifiuti e di percepita incompatibilità (riducendo dunque tutto all’attimo in cui si svolge la ricerca), e, dall’altro, quello di “svuotare” le soggettività dei ragazzi, schiacciando le loro disposizioni, la loro visione del mondo e della scuola su quella del ricercatore, considerandoli come aprioristicamente anelanti alla carriera scolastica. Sarebbe, in breve, un’altra forma del pregiudizio teorico che Pierre Bourdieu imputò alle riflessioni di Jean-Paul Sartre, troppo incline a sostituire la propria coscienza a quella degli individui sociali, creando in questo modo la celebre figura del “mostro con un corpo di cameriere e una testa di filosofo” (Bourdieu 1997, p. 162).

Obiettivo della ricerca è allora comprendere il funzionamento di tali istituti, includendovi la quotidianità che li struttura, il rapporto che si instaura con i giovani che li attraversano e il modo in cui questi vi negoziano le proprie prospettive e il proprio futuro. Senza mai astrarre dalla loro materialità e dalla consapevolezza di trovarsi in “scuole di merda” (come più volte definite3), abbiamo cercato di mostrare la produttività di ibridare i metodi più classicamente associati alle ricerche in contesti scolastici con le indicazioni e le riflessioni dei Cultural Studies, partendo da una domanda che, man mano che proseguivamo con l’etnografia, diveniva sempre più chiara: possibile che i ragazzi non scelgano la scuola tanto quanto questa non sceglie loro? E non è forse proprio perché questa non li sceglie?

Risulterà allora un quadro in cui ogni riflessione sui contenuti pedagogici, intercultura in primis, appaia più come una nuova passata di smalto volta a nascondere le crepe strutturali dell’educazione che come un’effettiva soluzione ai profondi squilibri che la costituiscono. Si tratta infatti di comprendere che, senza proporre facili ricette, è solo riaprendo un campo di discussione su “che significa educare” che si può forse ricostruire un rapporto liberatorio tra i ragazzi e il sapere come strumento di emancipazione (Freire 1968; Williams 1989). Mostrando le molteplici resistenze, “maledette”, che i ragazzi oppongono ai processi scolastici, l’intenzione non sarà quella di “romanticizzarle” ma, piuttosto, analizzare il vissuto culturale e materiale, i modi in cui la cultura dei ragazzi si articola con le problematiche quotidiane che incontrano e partire da lì. Come scritto a tal proposito da Paulo Freire (1992, p. 64):

È necessario che l’educatore sappia che il suo “qui” e il suo “adesso” sono quasi sempre il “là” dell’educando. Anche se il sogno dell’educatore consiste non solo nel rendere il suo “qui-adesso”, il suo sapere, accessibile all’educando, ma nell’andare oltre il suo “qui-adesso” con lui, o comprendere soddisfatto che l’educando oltrepassa il “qui”, affinché questo sogno si realizzi deve avere come punto di partenza il “qui” dell’educando e non il suo. In pratica, deve prendere in considerazione l’esistenza del “qui” dell’educando e rispettarlo. Infatti nessuno arriva “là”, partendo di “là” ma da un “qui” ben definito. Ciò significa, in ultima analisi, che non è possibile all’educatore disconoscere, sottovalutare o negare le “conoscenze fatte di esperienza”, con cui gli educandi arrivano alla scuola.


1  Se Basil Bernstein ha infatti proposto la distinzione tra un linguaggio più formale, il codice elaborato, proprio delle classi più agiate e un linguaggio più concreto, il codice ristretto, proprio delle classi popolari, William Labov intravede in questa stessa operazione una forma di precomprensione di classe: “Il codice elaborato di Bernstein è veramente così “flessibile, dettagliato e sottile” come credono alcuni psicologi? Non è anche turgido, ridondante, bombastico, e vuoto? Non è semplicemente uno stile elaborato, piuttosto che un codice o un sistema superiore? Il nostro lavoro nella “comunità parlante” rende dolorosamente ovvio che in molti modi i parlanti della working-class sono più bravi narratori, ragionatori, e dibattitori che molti parlanti della classe media che temporeggiano, qualificano, e perdono i loro argomenti in una massa di dettagli irrilevanti. Molti scrittori accademici cercano di liberarsi da quella parte dello stile di classe media che è vuota pretenziosità e mantenerne quella parte che è necessaria alla precisione. Ma il parlante medio di classe media che incontriamo non fa questo sforzo; è invischiato nella sua verbosità, vittima di fattori sociolinguistici al di fuori del suo controllo” (Labov 1972, pp. 213-214)

2 Il termine indica quelle norme di comportamento e di attitudini che, benché non dichiarate, strutturano l’insegnamento scolastico, i cui contenuti sono indissociabili dai valori e dai modi della classe media.

3  Per fare solo un esempio, tra i tanti che si susseguiranno: “Con Adrian ci lamentiamo dei moscerini e Dario: ‘Ma perché sta scola l’hanno fatta in mezzo all’alberi, qui erano tutti pini che ve pensate... hanno buttato giù e fatto ‘sta merda’” (Nota etnografica, 2019).


©Andrea Caroselli, Palestre di precarietà, Ombrecorte 2022