L'inarchiviabile e la plasticità del tempo
Marco Scotini

04.12.2022

Il testo che segue è tratto dall'Introduzione al volume L'Inarchiviabile. L'archivio contro la storia di Marco Scotini edito da Meltemi


L’Inarchiviabile
e la plasticità del tempo


Disarchiviare l’archivio

So di avere a che fare con uno strumento controverso. A fatica riesco ad accomunare l’insieme di pratiche che l’archivio è stato, nella sua versione moderna, al modello teorico che oggi è diventato. Sebbene il dispositivo in oggetto possa sembrare immutato, lo scarto tra il risultato di un ufficio anagrafe (un registro d’internamento o un servizio d’identità giudiziaria) e l’idea contemporanea di “opera d’archivio” è incolmabile. Non mi è chiaro neppure se, nell’affrontare il tema dell’archivio in generale, faccio riferimento a un contenuto (documenti, registrazioni, testimonianze) piuttosto che a un ordine modale, quale può essere un principio organizzativo, classificatorio, tassonomico e di inventariazione. Ancora meno certo è se nell’avvicinare questo oggetto, sfuggente e indefinito, mi riferisco alla sua dimensione teorica o alla sua condizione empirica di luogo fisico: di magazzino, di deposito, di schedario, in cui tali pratiche e contenuti risultano conservati e gestiti. Anche dal punto di vista terminologico, la sua matrice originaria non risulta meno equivoca. Non c’è bisogno, ogni volta, di chiamare in causa Jacques Derrida per risalire all’etimologia del termine greco archè e al duplice campo semantico che vi è implicato: un principio fisico (l’origine) e un principio nomologico (la legge o il comando), difficilmente conciliabili o, addirittura, antitetici1. Se nella definizione contemporanea di archivio c’è qualcosa di paradossale (e nessun dubbio che ci sia), è come questo strumento così storicamente dipendente dall’apparato burocratico e amministrativo (e dunque diretta espressione del potere) possa oggi venire rivendicato quale mezzo di eversione e liberazione (dai ruoli sociali, dalle identità di genere, dal passato cristallizzato, dalle forme di subordinazione, dalle rappresentazioni eteronome).

In realtà, dal punto di vista storico, l’archivio è tanto il luogo dove vengono costruite le identità di coloro che vi sono registrati, quanto lo spazio dove il passato viene formato e orientato, in modo tale da risultare uno dei più potenti dispositivi di controllo e governo della memoria.

Il fatto che immaginari artistici emancipativi, pratiche digitali e forme dell’attivismo politico2, da qualche decennio, si siano dati appuntamento sul campo archivistico dà un’idea del paradosso a cui alludo. Un paradosso che reclama di essere compreso nella sua radicalità, proprio perché oggi è il tema dell’archivio a promuovere un salto epistemologico decisivo e, in particolare, l’emersione di un diverso ordine temporale. Per assurdo, è la natura non-discorsiva e non-narrativa dell’archivio a giocare un duplice ruolo all’interno di questo processo3. Il fatto stesso che l’archivio fondi la propria struttura su un elenco o una collezione di elementi piuttosto che su un concatenamento di cause ed effetti, privilegia la descrizione e la co-presenza sulla narrazione e sulla sequenza cumulativa. Si sottrae, cioè, a quella successione di fatti che è stata il motore della storia lineare e teleologica (sempre orientata al futuro) e, in quanto tale, all’origine di quella asimmetria tra campo dell’esperienza e orizzonte d’attesa (Reinhart Koselleck4), tipica della modernità che ci siamo lasciati alle spalle. Eppure, in modo speculare e contrario, questa stessa struttura non-discorsiva è stata nondimeno lo strumento di forza dell’archivio istituzionale (o amministrativo) a partire dall’emersione dello Stato-nazione. Razionalizzato e strumentalizzato a fini scientifici (o, presunti tali), soprattutto con il XIX secolo, l’archivio si è proposto come il dispositivo garante dell’integrità e veridicità documentale. L’inalterabilità del dato immagazzinato e il fatto che nell’archiviazione, a differenza che nella memoria, il tempo sia considerato ininfluente, rende i dati conservati astratti e, dunque, di valore generale. Per questo motivo l’archivio è stato sempre subordinato alla pratica storiografica, il cui compito era quello di narrativizzarne i dati: per cui esso risultava una fonte e un ambito ausiliario, supplementare. Scrive Wolfgang Ernst:


L’archivio moderno è strettamente correlato allo stato nazionale territoriale. Con studiosi come Jules Michelet in Francia e Leopold von Ranke in Germania, l’ascesa della storia basata sulla ricerca come disciplina accademica ha avuto origine con il nuovo impulso a tornare (indietro) negli archivi. L’ascesa del moderno Stato nazionale ha richiesto una narrazione fondamentale della sua genealogia temporale, con conseguente riorganizzazione degli archivi “in nome della storia” come nuovo discorso – fornito da Georg Wilhelm Friedrich Hegel, nel caso della Prussia, con una vera e propria filosofia della storia che ha dato allo Stato un senso temporale profondo e una giustificazione teleologica (“metastorica” nel senso di Hayden White), con lo Stato presente come lieto fine. Attraverso il discorso storico, lo Stato amministrativo in quanto funzione infrastrutturale (che rappresenta l’ordine simbolico del potere) poteva trasformarsi in un immaginario chiamato “nazione”.5


Adesso però, nel momento di crisi dello storicismo e dei meta-racconti modernisti, non c’è da stupirsi che sia proprio l’archivio a prendersi una rivincita sulla storia. Come scrive Ernst van Alphen: “Laddove il ruolo della narrazione è in declino, il ruolo dell’archivio, in una varietà di forme, è in crescita”6. Cercare di capire le ragioni di questa svolta nella cultura e nell’arte è lo scopo di queste pagine. Quello che però più ci interessa è come questa svolta sia l’effetto concomitante di una trasformazione radicale del regime temporale che avevamo ereditato e che, ancora oggi, ci è più familiare. Quel regime per cui il tempo scorre uniforme e continuo – ovunque uguale – a ogni latitudine del mondo. Un tempo che prescrive un presente ritenuto reale, un passato che è già avvenuto e un futuro aperto e indeterminato.

Ma prima di tutto è necessario un chiarimento preliminare su come l’idea attuale di archivio abbia forzato i propri confini istituzionali – grazie anche all’arte – e abbia distrutto la stabilità su cui esso riposava così come la sua funzione e il suo significato precedenti7. Negli ultimi due decenni, si è assistito a una proliferazione di progetti che hanno assunto l’archivio come strumento artistico, piuttosto che scientifico: lo spostamento dalla scienza archivistica di matrice positivista all’estetica non è dunque di poco conto. C’è chi ha parlato, come Hal Foster, di “archival impulse”8 (2004), chi di “historiographic turn”9 (2009) come Dieter Roelstraete e chi di “archival thinking”10 (2014) come Ernst van Alphen. Di fatto, l’archivio è diventato un simbolo dominante nell’arte e nella cultura contemporanee e dobbiamo chiederci se abbia senso o meno mantenere le distinzioni canoniche che abbiamo ereditato o, piuttosto, cercare di capire la valenza potenziale e trasformativa del fenomeno come tale. Che cosa c’è di implicito nella nuova attitudine archivistica? Non è questa la risposta a un modello epistemologico che è entrato in crisi definitivamente? Non elabora la necessità di un cambio di paradigma? Rispetto al vecchio modello d’archivio almeno due punti vanno sottolineati. Il primo è relativo al contenuto e alla messa in crisi dell’idea classica di documento. Il secondo riguarda il contenitore e coincide con l’arrivo del database digitale, così come della giustapposizione e combinatorietà di scelte simultaneamente disponibili che le interfacce elettroniche interattive rendono possibili. Entrambi i punti paiono dunque l’effetto delle tecnologie informatiche, anche se non possiamo limitarli a esse, visto che i loro risultati si sono estesi ampiamente in ogni ambito culturale, acquisendo piuttosto lo statuto di modi di pensare in generale.

Il fatto che l’idea di archivio, senza perdere i propri connotati, sia passata da un paradigma scientifico a uno estetico (per usare le parole di Guattari11) dovrebbe impedirci di mantenere questa distinzione tra arte e scienza che, come tale, finirebbe per riconfermare la presunta oggettività modernista, nel momento in cui l’idea stessa di evidenza probatoria o quella dell’opposizione tra realtà e fiction, soggetto e oggetto, arte e documento, è entrata definitivamente in crisi. Malgrado le ragioni di tale crisi siano molte, sarebbe impossibile prescindere dal grande ruolo che hanno avuto le nuove tecnologie dell’informazione e i nuovi mezzi di produzione di immagini. Credo che la nostra contemporanea fissazione con l’archivio (con la sua immagine e la sua funzione) abbia a che fare con la perdita attuale del suo oggetto: l’elemento documentale. È vero che abbiamo pensato sempre l’opposto – e cioè che i database non facessero altro che favorire l’accumulazione, l’inventariazione e la conservazione di differenti materiali, offrendo loro una solida base. Al contrario penso che il nostro attuale attaccamento all’archivio tradisca qualcosa di diverso e di originario. È un po’ come quando nasce la pittura di paesaggio: tutti la celebrano come un ritrovato connubio con la natura, mentre non fa altro che elaborarne il nostro affrancamento definitivo. Come se un fenomeno per potere essere pienamente recuperato alla coscienza dovesse prima sparirne12.

In fondo, l’idea di archivio (per come la conosciamo) trova il suo apogeo nel XIX secolo con la stampa, la fotografia, il telegrafo e la riproduzione meccanica. Qualcosa, cioè, in grado di materializzare anche l’immaterialità di un suono o di un momento. Tale da istituire, inoltre, una tecnologia dell’identificazione criminale che permettesse il controllo delle masse anarchiche che si andavano urbanizzando e che la fotografia avrebbe permesso di inventariare13. Ma oggi, nei nostri ambienti elettronici, quali sono le tracce o i depositi che ancora possiamo lasciare? E, nel caso di una iper-archiviazione integrale e digitale, chi mai potrebbe accedere alla sua consultazione? Ancora oggi il testimone o il documento sono al centro della ricerca di Harun Farocki, Allan Sekula, Hito Steyerl, Trevor Plagen, Forensic Architecture oppure di Jeff Wall, Walid Raad, Thomas Demand. Sebbene tutti operino sotto i modi d’essere di un paradigma totalmente mutato in cui il mondo è già mediato e ormai doppiato in immagini, il documento (anche fotografico) non accerta più nulla: chiede, al contrario, una verifica costante sull’autenticità di ciò che mostra. La fiction archivistica libanese di The Atlas Group mi pare sintomatica. Ma il digitale ha anche i suoi meriti: soprattutto grazie a ciò che Ernst chiama approcci “media-archeologici”. Questi ultimi consentirebbero di processare i dati provenienti dagli archivi del passato in una maniera alternativa e creativa. Le nuove e molteplici aggregazioni di passati permetterebbero all’archivio di sottrarsi al carattere ancillare nei confronti di una storia coerente e univoca per aprire spazi e passaggi antagonisti, contro-storie in sostanza. A partire dal carattere non discorsivo dell’archivio e senza necessità di rimanere all’interno dello spazio digitale, i dati del passato non agirebbero tanto nel senso di produzione di storie significative, quanto nella decostruzione delle narrative esistenti, ufficiali. In sostanza, lasciando inalterato formato e modalità operativa, quello che oggi mi pare il grande tentativo messo in opera da più parti è una disarchiviazione dell’archivio, una moltiplicazione di assemblaggi combinatori, concatenamenti plurali e imprevisti di passato. E, non ultimo obiettivo dell’archivio: una intransigente sfida alla storia.


Il Futuro è obsoleto

Nonostante il proprio oggetto sia il passato, l’archivio è ritenuto un apparato extratemporale, in quanto arresta il corso lineare e uniforme del tempo. Lo immobilizza in forme cristallizzate, inalterabili, destinate a sopravvivere ai fatti accaduti che, appunto, è compito dell’archivio registrare e conservare. Se il ricordo (soggettivo o collettivo) si inscrive sempre nel tempo (interagendo con esso), all’opposto, nella procedura di archiviazione la dimensione temporale risulterebbe assente, neutralizzata da mediatori tecnici in grado di fissare la memoria in supporti materiali resistenti. Sottratte al vissuto, le collezioni dell’archivio (documenti visivi, testimonianze materiali) figurano come resti remoti e incolori di ciò che si è consumato nel passato, avendo perso ogni carica emotiva, psichica, esistenziale. Ormai incapaci, come tali, di generare conflitto, passione, rivendicazione, tali reperti sono pronti a farsi oggetto di analisi. Per questa ragione è possibile fare assegnamento – in senso obiettivo e scientifico – su tali depositi, come su elementi inerti, neutralizzati. E, cioè, come su puri dati.

Non è questa stessa contrapposizione alla base della doppia modalità del ricordo per Aleida Assmann? Da un lato la “memoria funzionale” legata al ricordo personale; dall’altro la “memoria-archivio” come procedura mnemotecnica de-soggettivata. Scrive Assmann: “Mentre nella mnemotecnica la coincidenza di output e input [tra deposito e recupero del dato] è decisiva, nel ricordo soggettivo si stabilisce la loro differenza”14. La memoria funzionale, in sostanza, non può prescindere da un soggetto (individuale o collettivo che sia) che la incorpora, la orienta, l’assegna a un fine, appunto.

Mi accorgo di schematizzare e semplificare, ma ho il sospetto che, dietro tutta questa argomentazione, ciò che non viene minimamente messo in discussione è proprio quell’idea monodirezionale del tempo da cui proprio l’archivio ci dovrebbe affrancare. Fintantoché il nostro interesse sul modello di tale dispositivo si appunterà esclusivamente sui suoi principi organizzativi e sul suo ordine formale, terremo necessariamente fuori dal nostro discorso quella trasformazione radicale dell’idea di tempo che, al contrario, è la vera posta in palio dell’archivio oggi. Se continuiamo a pensare la temporalità in termini lineari di successione cronologica e di movimento, di un passato ormai chiuso e un presente aperto e incerto, è chiaro che l’archivio resterà escluso dal corso del tempo. Ma non c’è solo un tempo, ci suggerisce la fisica: ce ne sono molti e interdipendenti15. L’archivio, in ambito culturale, non è altro che una sorta di modello rivelatore di questo assunto: il paradigma di questa temporalità moltiplicata. Ricorrere agli archivi in movimento delle nuove tecnologie digitali, anche se appropriato, risulterebbe riduttivo. Certo, è necessario registrare l’attuale proliferazione dei mezzi di registrazione (dalla fotografia al video, al digitale) che non contemplano più la scrittura come strumento esclusivo e privilegiato. Ma è all’opera, piuttosto, un’irriducibile componente antropologica che, nella crisi dell’esperienza storica o nel tempo della “fine della Storia”, pone in primo piano ciò che generalmente resta occultato e subordinato nel discorso storiografico. Il fatto, cioè, che di cronico nell’uomo c’è solo e sempre uno scarto temporale, un anacronismo costitutivo, un’incoerenza cronologica. A emergere in questa insufficienza è, allora, il carattere di latenza dell’uomo, la propria incubazione come un permanente deficit di corrispondenza: la sfasatura tra più tempi, tra differenti generazioni, tra culture, tra memoria e immaginazione.

Una storia che incuneasse l’uomo all’interno di una successione lineare, omogenea ed evolutiva, assomiglierebbe piuttosto a un destino autoritario e imperialista, a un decorso ineluttabile. Ebbene, la tesi che la matrice dell’archivio sia non-discorsiva e non-narrativa – come ho già affermato – non significa che, di per sé, l’archivio sia sottratto alle stratificazioni del tempo. Significa, al contrario, che abbiamo bisogno di un altro orizzonte temporale per poterlo pensare come sistema dinamico e non statico. Proprio perché la sfida dell’archivio è quella di liberare il tempo dalla soggezione al movimento e alla storia, ci soccorre un’idea di movimento non montato (come si dice di un film), non diegetizzato. Tale idea di tempo è quella che lo vede sdoppiato simultaneamente in potenza e atto, in reale e possibile: non in “un prima e un dopo”.

Nel nostro incontro con il presente, come afferma Bergson, il ricordo non è posteriore alla percezione, ma gli coesiste. La distinzione cronologica tra un passato che si è appena concluso (l’allora) e un presente come evento ancora in corso (l’ora), pare negata da questa nuova articolazione, in cui “il passato non succede al presente che non è più, coesiste con il presente che è stato. Il presente è l’immagine attuale e il proprio passato contemporaneamente, è l’immagine virtuale”16. In evidente contraddizione con l’idea comune del tempo, ciò che dovrebbe precedere, al contrario, segue o viene dopo – e viceversa. Se è stato Bergson a indicare il fenomeno della paramnesia (l’illusione del déjà vu) come rivelatore di questo sdoppiamento temporale, è Paolo Virno, in tempi recenti, ad aver dedicato al “ricordo del presente” un esame approfondito. Quello che in tale concezione ci interessa maggiormente è però ciò che discende da questo primo assunto: il rapporto tra modalità del reale e modalità del possibile. Un possibile (o un potenziale) che viene a coincidere, qui, con il ricordo o la memoria: dunque con qualcosa che avrebbe già esaurito, a priori, ogni condizione di eventualità o probabilità di esistenza in quanto si sarebbe già realizzata. “Ma non è bizzarro – si domanda Virno – ritenere che il passato sia la dimora elettiva del virtuale? Che proprio esso, malinconico catasto dei ‘fatti compiuti’ costituisca la dimensione temporale della modalità del possibile? Non siamo forse abituati a proiettare il potenziale, ovvero ciò che ancora non è, nel futuro? A considerarlo oggetto di attesa e di previsione, giammai bottino della reminiscenza?”17. Il fatto stesso di fare coesistere il tempo dell’“ora” con quello dell’“allora” assegna al passato una condizione potenziale per cui esso non risulta mai superato, ma continua ad agire nel presente senza mai diventare presenza. Per questo abbiamo sempre a che fare con un passato indefinito, non cronologico. Viceversa, là dove l’atto dovrebbe negare la potenza, proprio perché la realizza, questo non si trasforma mai in potenza attuata. Per sottolineare la differenza di natura tra atto e potenza, Virno (ma potremmo aggiungere Agamben) esemplifica il fenomeno con il ricorso alla lingua, attraverso il rapporto tra la pura facoltà (il poter-dire) e le performance enunciative (le cose dette), che non esauriscono mai il permanente potenziale della facoltà linguistica in un certo numero di estrinsecazioni definite. La lasciano perdurare come tale, sempre disponibile a ulteriori enunciazioni. È facile vedere che se proviamo a sostituire la facoltà linguistica con il potenziale dell’archivio e le sue esecuzioni con gli eventi temporali, la relazione non muta. L’archivio continuerebbe a fungere da passato indefinito capace di sempre infinite estrinsecazioni. Ecco che, senza necessità di ulteriori specificazioni, l’interpretazione di Paolo Virno rende pure chiara l’emersione contemporanea di una nuova idea di archivio, proprio perché la fine della modernità (della sua macro-nicchia ambientale) esibisce continuamente un disorientamento costitutivo che fa appello al possibile, alle generiche facoltà, prima che queste possano essere ridotte a costumi convenzionali, repertori predefiniti, storie consolidate18. C’è tuttavia un’ultima cosa che vale la pena aggiungere rispetto a questo cambio paradigmatico. Se le filosofie moderniste erano tutte propense a porre la temporalità sotto la tutela del futuro, oggi la temporalità è caratterizzata dal primato del passato. Non perché “gli avvenimenti archiviati siano più potenti nell’organizzare l’esperienza del tempo”19, ma perché l’archivio (digitale o materiale) rappresenta questo potenziale, in grado di lasciare aperto un numero indefinito di aggregazioni di passato: i suoi tentativi mancati, le sue possibilità perdute, ciò che è ancora in attesa di essere realizzato. Per cui ci spostiamo dall’idea di dispositivo retroattivo a quella di archivio dinamico e generativo. Senza mettere in conto le trasformazioni nell’ambito del lavoro (dal repertorio di atti potenziali dell’operaio fordista alla potenzialità grezza e biopolitica della forza-lavoro contemporanea) anche quest’ultima asserzione sul primato del passato rimarrebbe incompresa. Per ciò molti dei saggi che seguono intrecciano archivio e produzione lavorativa: certo a partire dall’ambito artistico.

Ora, dopo questa premessa, non vedo la ragione di continuare a pensare l’archivio come un supporto scientifico a una storiografia canonica monodirezionale dalla quale non siamo ancora usciti. Il fatto di comporre in maniera giustapposta e non sequenziale i materiali che costituiscono l’archivio certamente conduce a un altro regime di storicità o, comunque, alla dissoluzione dello storicismo. La storia – lo ripetiamo – è una costruzione modernista, gerarchica e verticista. C’è sempre una dimensione teleologica che fa cominciare le cose da qualche parte e le dirige da un’altra, c’è una causa e un effetto corrispondente. Senza questo costrutto storiografico non ci sarebbe passato, presente e futuro. Se si volesse essere rigorosi fino in fondo, si dovrebbe opporre il modello della Storia (con la sua traiettoria predefinita) a quello dell’archivio come macchina di raccolta: collezione immanente di eventi che si costruisce sulla tomba dell’unicità e dell’identità. L’archivio, dunque, risponde a questo venir meno delle narrative storiche ufficiali ponendo in essere un dispositivo che può venire continuamente de-archiviato o re-archiviato, in modo tale da dare origine a una proliferazione di assemblaggi tra loro paralleli o combinatori, mai totalizzanti e sempre co-presenti. Dal mio punto di vista, questo nuovo modo di essere plastico del tempo (plurale, adirezionale, performativo) corrisponde all’emersione di quella pluralità sociale (la cosiddetta moltitudine) che, nasce, non a caso, negli anni Settanta.


Archivi, Anarchivi, Metarchivi

Un po’ d’archivio, adesso. Per anni, quando ero poco più che bambino, ho visto la generazione italiana, emersa con il ’68, finire in massa negli archivi giudiziari. Inutile qui ricordare repressione, inchieste o processi che, neppure ora, hanno concluso definitivamente il loro ciclo. Guardavo quella generazione, precedente la mia, con grande ammirazione ma, una volta raggiunta la loro età, non ho trovato altro che reazione ideologica e controrivoluzione: gli anni Ottanta erano cominciati. Per cui non ho mai cessato di confrontarmi con i fantasmi e gli archivi ribelli del decennio precedente, la stagione più ricca di conquiste sociali, forme emancipative e creatività che l’Italia abbia vissuto. Qualcosa che però la cultura italiana ha poi rimosso traumaticamente e che le generazioni successive hanno sentito la necessità di riscoprire, dandosi un appuntamento all’interno di questo scarto temporale, di questo anacronismo ideologico. Quello però che in questa ricerca non mi sarei mai aspettato di trovare è proprio lo stesso tema dell’archivio.

Quando ho sentito la necessità di confrontarmi con l’arte italiana di quegli anni, ero sicuro che, oltre il ruolo egemonico dell’Arte Povera, avrei incontrato molto altro che era stato rimosso negli anni successivi. In fondo l’Italia di quel decennio era in grado di produrre un laboratorio sociale eccedente. Il suo intervento sulla trasformazione della temporalità e della fabbrica sociale (le chiavi interpretative operaiste del post-fordismo) avrebbe dovuto muovere da un contesto estetico-culturale radicalmente innovativo, tale da richiedere un salto paradigmatico. Da qui nasce nel 2016 la mia idea di mostra L’Inarchiviabile. Italia anni ’70, tenuta presso FM Centro Arte Contemporanea di Milano, da cui proviene anche il titolo di questo libro. Tale esposizione mi permette di capire come la matrice dell’archivio (l’atlante, la mappa, il catalogo, l’inventario) in tutti gli artisti esposti avesse avuto un potenziale eversivo basilare e dirompente: per sete dell’illimitato, per sabotaggio delle statistiche, per la decostruzione del genere, per una contro-biomeccanica dei corpi e del lavoro, per una contro-lettura del già filmato, della comunicazione, dell’immagine. Ma l’eccedenza a cui faccio riferimento è quella dell’emersione della creatività sociale, del general intellect, dell’enunciato collettivo, in sostanza: il soggetto collettivo che parla, che si esprime, che si mobilita. È anche l’aspirazione a uscire dai ranghi e dai generi in rapporto a un desiderio (questo sì) inarchiviabile, che si potrebbe sintetizzare in quello spazio compreso tra il sovversivo “Vogliamo Tutto” di Nanni Balestrini e il “Tutto” metafisico di Giovanni Anselmo. In sostanza, l’archivio diviene, in quel contesto, un grimaldello esplosivo per fare saltare il monolite della storia e lasciarne in sospensione i detriti. Penso sempre di più che il vero contributo di quella generazione sia stato il sovvertimento dall’ordine dell’archivio del potere a quello dell’archivio liberatorio, dove tale inversione non avviene in un fuori utopistico e improbabile, ma dentro quello stesso dispositivo di cattura che si intende rovesciare. L’intervento sulle fototessere di Franco Vaccari, le classificazioni di Alighiero Boetti, le sequenze numeriche Fibonacci di Mario Merz, i Leftovers di Gianfranco Baruchello, gli assemblaggi testuali di Balestrini sottratti alla cronaca, gli alfabeti mentali di Dadamaino, i libri asemantici di Irma Blank, gli atlanti di Luigi Ghirri e di Fabio Mauri, l’archivio di Zona di Massimo Nannucci o i cataloghi lombrosiani di Gianikian e Ricci Lucchi, sono tutte figure di questo inventario temporaneo. Per questa ragione, il modello dell’archivio oggi non può essere più considerato quello positivista che quella stessa generazione ha trovato e profanato. Si è trattato allora di rintracciare in questo strumento controverso la risposta alla natura sociale della moltitudine contemporanea, che rifugge sì dai dualismi classici, ma soprattutto dall’idea di un solo mondo possibile. La moltiplicazione dei processi di soggettivazione non avrebbe potuto far altro che accompagnarsi a una proliferazione di soggettività e sessualità eterogenee, post-identitarie, non vincolate a ruoli predefiniti, attraverso un processo di continua decostruzione che mette in scena una teatralità costitutiva e convenzionata dei comportamenti e delle attitudini. Penso a Lisetta Carmi in rapporto ai suoi Travestiti, quando afferma che non esistono comportamenti obbligati se non in una tradizione autoritaria che ci viene imposta da sempre. Oppure penso alla tassonomia fiction dei ruoli del femminile di Marcella Campagnano che precedono i Film Stills di Cindy Sherman, così come le serie fotografiche di Carmi anticipano quelle notissime di Nan Goldin. Ci si sottrae, in sostanza, alle assegnazioni che vedono gli intellettuali là (istituzione) e il popolo qua (politica). Per cui le produzioni estetiche del momento non si riconoscono né nella prassi creativa dell’istituzione artistica né nella matrice predicatoria dei contributi politici. La posta in gioco è allora di profanare la storia dentro e contro quel dispositivo che la istituiva. Il passaggio successivo alla mostra L’Inarchiviabile ha aggiunto un altro possibile tassello a quel contesto eccedente. Si è focalizzato sugli archivi ribelli, quanto rimossi e dimenticati, del femminismo italiano (dei suoi femminismi, sarebbe meglio precisare). Nell’esposizione Il soggetto imprevisto del 2019 sempre a FM20, lo stesso re-staging di Materializzazione del linguaggio, mostra curata da Mirella Bentivoglio per la Biennale di Venezia del 1978, non è stato, di per sé, il riallestimento di una pratica archivistica? Ma senza allontanarci da L’inarchiviabile, è importante rimarcare l’importanza di un film come Parco Lambro del ’77 quale affermazione della moltitudine e di una pluralità di insorgenze molecolari, costitutivamente incatturabili. Alberto Grifi non riesce a chiudere in un film compiuto il materiale registrato dell’evento del Festival del proletariato giovanile, producendo un lavoro che non è un film, ma molti film allo stesso tempo, una molteplicità corale di girati archiviati ma mai definitivamente montati. Quel film chiave, che chiudeva la mostra milanese del 2016, aveva però aperto molti anni prima (e ha continuato ad aprire) il progetto curatoriale che ho inaugurato nel 2005 a Berlino e che è tuttora attivo. Si tratta della mostra Disobedience Archive con cui ho convissuto per circa venti anni e che ha avuto stazioni importanti lungo il proprio percorso, di cui l’ultima è la 17ª Istanbul Biennale del 2022. Disobedience è un archivio in movimento che raccoglie al suo interno immagini in movimento e di movimento, un metarchivio di film e video che ogni volta necessitano di essere dearchiviati e rearchiviati in schedari (chiamiamoli pure così) differenti e sempre nuovi21. Anche Disobedience nasceva dal recupero degli anni Settanta italiani e sono sicuro che, in sé, questa mostra è in grado di fornire un’idea adeguata di che cosa si intende oggi con il termine archivio.

Spero che tutto ciò possa, almeno in parte, giustificare l’antologia di saggi che occupa la prima parte del volume; la seconda è invece dedicata ad alcune esperienze archivistiche nate al confine tra arte e politica fuori dall’Occidente. Nonostante in queste pagine io abbia tentato più di alludere che di spiegare, lasciando sempre implicito il significato del titolo del presente volume, forse è giunto il momento di tirare le fila.

L’inarchiviabile non è soltanto ciò che è rimasto fuori dagli archivi del passato perché considerato non archiviabile (un resto, uno scarto non integrato). Non è soltanto quella parte residua da cui sono partito per le mie ricerche nello sforzo di ricondurre tale resto all’interno di quell’orizzonte virtuale in cui si sdoppia la nostra materia temporale. È vero che il mio sforzo, negli ultimi venti anni, è stato quello di cercare di rendere nuovamente possibili memorie collettive sepolte, corpi disobbedienti, ruoli repressi, libri interdetti, cartografie marginali, esposizioni rimosse. Allora l’inarchiviabile potrebbe coincidere con il terreno privilegiato di tale ricerca, in cui ho tentato di restituire al passato la sua possibilità. Eppure inarchiviabile è piuttosto quel residuo che – malgrado il nostro tentativo di archiviazione digitale globale – sempre rimarrà tale, come un’insopprimibile minaccia d’oblio. Sul confine mobile e invisibile che separa l’archiviabile dall’inarchiviabile si gioca la nostra contemporanea partita (etico-politica) con la temporalità: nel tempo, contro il tempo, in favore di un tempo a venire.


1 J. Derrida, Mal d’archivio. Un’impressione freudiana, Filema, Napoli 2005.

2 Penso all’Archivio dei movimenti sociali-14 dicembre, al progetto Archive for an Emergency Commune del collettivo di San Pietroburgo, Chto Delat o all’Etcetera Archivo del collettivo artistico e attivista di Buenos Aires. Ma gli esempi sono numerosi.

3 Su tale natura dell’archivio concordano in molti, vedi E. van Alphen, Staging the Archive. Art and Photography in the Age of New Media, Reaktion Books, London 2014; W. Ernst, Radically De-Historicising the Archive. Decolonising Archival Memory from the Supremacy of Historical Discourse,   www.internationaleonline.org/research/decolonising_practices/50_radically_de_historicising_the_archi....

4“Spazio di esperienza” e “orizzonte di aspettativa: due categorie storiche è il titolo dell’ultimo paragrafo di R. Koselleck, Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Clueb, Bologna 2007, pp. 300-322.

5 W. Ernst, Radically De-Historicising the Archive. Decolonising Archival Memory from the Supremacy of Historical Discourse, cit.

6 E. van Alphen, Staging the Archive. Art and Photography in the Age of New Media, cit., p. 7.

7 S. Osthoff, Performing the Archive: The Transformation of the Archive in Contemporary Art from Repository of Documents to Art Medium, Atropos Press, New York 2009; vedi inoltre: C. Merewether (a cura di), The Archive, Whitechapel and Mit Press, London 2006; E. Galasso, M. Scotini (a cura di), Politiche della Memoria. Documentario e archivio, DeriveApprodi, Roma 2014.

8 H. Foster, An Archival Impulse, in “October”, 110, autunno 2004, pp. 3-22.

9 Vedi il libro The Way of the Shovel. On Archaeological Imaginary in Art, pubblicato in occasione della mostra omonima curate da D. Roelstraete per il Museum of Contemporary Art di Chicago nel 2013.

10 E. van Alphen, Staging the Archive. Art and Photography in the Age of New Media, cit., p. 7.

11 F. Guattari, Caosmosi, Mimesis, Milano 2020, pp. 101-117.

12 M. Scotini, Archiviare l’inarchiviabile. Forme del tempo e regimi di storicità, in M. Maiorino, M.G. Mancini, F. Zanella (a cura di), Archivi esposti. Teorie e pratiche dell’arte contemporanea, Quodlibet, Macerata 2022, pp. 33-40.

13 A. Sekula, The Body and the Archive, in S. Stein, I. Steiner (a cura di), Art Isn’t Fair. Further Essays on the Traffic in Photographs and Related Media, Mack, London 2020, pp. 99-134.

14 A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, Il Mulino, Bologna 2014, p. 29.

15 C. Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano 2017.

16 G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, p. 93.

17 P. Virno, Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, Bollati Boringhieri, Torino 1999, p. 19.

18 P. Virno, Scienze sociali e “natura umana”. Facoltà di linguaggio, invariante biologico, rapporti di produzione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002.

19 P. Virno, Il ricordo del presente. cit,. p. 105.

20 M. Scotini, R. Perna (a cura di), The Unexpected Subject. 1978: Art and Feminism in Italy, Flash Art edizioni, Milano 2019.

21 Vedi Disobedience Archive. Intervista all’autore di Gaia Casagrande, in M. Scotini, Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici, DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 264-271.


© Marco Scotini, L'Inarchiviabile, Meltemi 2022