L’immagine fantasma di Hervé Guibert
Chiara Spaggiari

30.10.2021

Limmagine fantasma (L’image fantôme, Le Minuit, 1981) di Hervé Guibert (Saint-Cloud, 14 dicembre 1955 Clamart, 27 dicembre 1991), pubblicato dalla casa editrice Contrasto nel maggio del 2021 nella traduzione italiana di Matteo Martelli, appare come un testo fondamentale per entrare in contatto con la ricchezza e la pregnanza delle riflessioni di questo autore ancora poco riconosciuto in Italia, la cui figura risulta tuttavia centrale per la teoria e la critica della Fotografia.

Attraverso i 64 testi che compongono la raccolta – usciti originariamente su Le Monde, per cui Guibert ha lavorato per otto anni come giornalista, critico e fotografo – l’autore riesce a mostrare il richiamo e la corrispondenza tra la propria vicenda autobiografica, la forma narrativa della scrittura e la materia trattata, cioè la Fotografia e l’immagine fotografica.

Figura centrale della Francia del secondo ‘900, scrisse numerosi romanzi, racconti e saggi, in uno stile difficilmente identificabile, attingendo continuamente dal proprio vissuto. Fu caro amico di Michel Foucault, Isabelle Adjani e Sophie Calle, fino al 1991, data della sua morte per AIDS.

Sono profondi i riverberi tra questo testo e La camera chiara di Roland Barthes, i quali si erano conosciuti nel 1977, come scritto in La foto, il più vicino possibile alla morte (pp. 157-170), testo in cui Guibert riflette sulla Fotografia proprio a partire dalla notizia della morte della madre dell’amico.

Nell'introduzione all’edizione italiana Emanuele Trevi mette efficacemente in luce non solo alcune caratteristiche del rapporto che intercorreva tra i due autori, ma riesce anche, a partire da questo confronto, con poche parole ad alludere al legame, alla zona di tangenza, tra questo testo di Guibert e la Fotografia come materia trattata: “L’immagine fantasma ha il comportamento del parassita, che trae dalla sua vittima la linfa vitale finendo per svuotarla” (p. 7).

Di nuovo, la Fotografia è evocata dal luogo della sua assenza, ma anche della sua origine: l’immaginazione, l’immagine visiva innanzitutto esperita e mentale, qui appare laddove la parola scritta ne traccia la presenza, nella descrizione non solo di una rappresentazione che denota la superficie di un’immagine fotografica, ma soprattutto nella connotazione della relazione tra soggetti ed oggetti, corpi ed immagini, esseri umani e mondo.

La dimensione del corpo è allora imprescindibile, in quanto luogo primo di questi rapporti. La visualizzazione, il richiamo dell’assenza e della mancanza che viene dal rapporto di relazione, appare precedente e fondante la dimensione stessa del visivo, e la scrittura può esserne veicolo.

Un passo de La camera chiara di Barthes mi sembra in questo contesto particolarmente pertinente per riassumere una serie di temi che si delineano nel testo di Guibert: “in fondo – o al limite – per vedere bene una fotografia, è meglio alzare la testa o chiudere gli occhi.

‘La condizione preliminare per l’immagine è la vista’, diceva Janouch a Kafka. E Kafka sorrideva e rispondeva: ‘Si fotografano delle cose per allontanarle dalla propria mente. Le mie storie sono un modo di chiudere gli occhi’. La fotografia dev’essere silenziosa.” (La camera chiara, Einaudi, pp. 55-56).

Queste riflessioni emergono sin da L’immagine fantasma, lo scritto, non a caso, che presta il nome all’intero libro: esso ruota attorno ad una fotografia della madre di Guibert, non impressionatasi sulla pellicola per un errore tecnico di inserimento del rullino, che avrebbe dovuto raffigurare “quell’immagine di lei stessa che io, suo figlio, le permettevo di avere, e che catturai all’insaputa di mio padre […] Stavo forse in aggiunta proiettando la mia immagine su quella di mia madre, e, l’immagine del mio desiderio, l’adolescente, non era forse anche una confidenza che le facevo indossare?” (pp. 21-22).

Eppure, se per Barthes la famosa foto della madre a cinque anni nel Giardino d’inverno può definirsi come “un’immagine che fosse al tempo stesso giustizia e giustezza” (La camera chiara, Einaudi, p. 70), per Guibert, la foto, tutte le foto, non potranno mai raggiungere tale statuto, perché “la visione, sgretolandosi, perde la sua perfezione” e se anche fosse “‘riportata’ sotto forma di fotografia, come un oggetto perduto che avrebbe potuto portare il mio nome […] mi sarebbe per sempre rimasto estraneo (come un oggetto, un tempo intimo, per un amnesico).” (pp. 30-31).

Ciò, vale tanto per le immagini fotografiche che rappresentano il ricordo di un’esperienza diretta, che per quelle che illustrano tempi, luoghi e persone mai realmente vissuti.

L’immagine fotografica nel testo di Guibert si stanzia così radicalmente nella mancanza, da potersi quasi definire come la mancanza stessa, nell’impossibilità che ne è la cifra.

La traccia che invoca lo spettro di questa radicale mancanza non è soltanto la foto materiale, quanto il gesto fisico che porta a creare e catturare immagini. I modi stessi del corpo circoscrivono i bisogni e le necessità: l’immagine fotografica è possibile entro uno spazio che è risultato dall’atto di avvicinamento e comprensione del soggetto verso il mondo, ma, tuttavia, non può che darsi come uno scarto entro le dinamiche di relazione, rimanendo distante ed estranea.

Rimettersi alla macchina fotografica per la registrazione di questa porzione del reale, induce ulteriormente al senso e alla percezione di questa alterità: “la foto non assume valore che in uno spostamento di spazio e di tempo” (p. 80); “ancora una volta la macchina fotografica me l’ha fatta, e invece di essere all’altezza delle mie aspettative mi restituisce sempre qualcosa di più o di meno. O sono un cattivo tecnico, oppure la macchina fotografica è una cattiva mediatrice” (p. 86); “la stessa cosa forse accade con la fotografia e con il divario e la scissione tra mondo e rappresentazione: quello che vedevo dalla mia finestra, a causa della distanza e dell’angolazione che rendeva ognuno di quesi gesti irreali occultando la persona che li stava eseguendo, era una sorta di fotografia” (p. 93).

Malinconia e desiderio sono modi di percezione di questa mancanza attraverso la pratica e l’immagine fotografica: così, sia l’attività della Fotografia, che le rappresentazioni delle immagini fotografiche, di volta in volta toccano il tema del tempo che distrugge e disgrega ricordi, relazioni e sentimenti, conducendo verso l’eccitazione e la brama per qualcosa che non è più: “l’immagine è l’essenza del desiderio e desessualizzare l’immagine sarebbe ridurla alla teoria” (p. 97).

In La fovea, l’autore cita e descrive alcuni dettagli scientifici del funzionamento della visione, della costituzione di un’impressione sulla retina, possibile grazie all’esercizio di precisione, ripetizione e ricostruzione di una piccola porzione nitida – la fovea, per l’appunto – entro un quadro di visione che si dà sfocato.

L’atto stesso del guardare, dell’avere e del ricostruire un’immagine, ancor più se delimitata entro la superficie stampata di una fotografia, si caratterizzerebbe per “uno stato di desiderio, di ossessione, ossia una ripetizione continua della visione”; il guardare si costituisce come “un’attività legata al desiderio, o al fantasma, alla ripetizione” (pp. 118-119).

Anche il richiamo mnemonico di volti visti e conosciuti, entrerebbe in queste dinamiche: si interrogano delle diapositive mentali, poste “nella nostra testa, appena dietro gli occhi, dove sembra esserci un altro schermo”, spesso sfocate, diafane, sempre più in decomposizione con il passare del tempo, immagini dolorose nello sforzo che richiedono, nella loro supplica per tornare ad esistere (p. 151).

Parlando dei filmini familiari di fotografie editati dal padre, Guibert, in Foto animata, scrive: “mi rendo conto che il mio sguardo, a distanza di dieci anni è divenuto erotico”, tanto nei riguardi di chi di sbieco entra nel quadro familiare, così verso i suoi stessi genitori all’età di trent’anni; “ma dietro queste futilità, vedo più crudelmente la storia della disgregazione dei corpi” (pp. 58-59).

È centrale quindi anche il tema dell’identificazione e del riconoscimento dei soggetti nelle immagini dei rispettivi corpi, così Guibert si rivolge inevitabilmente al tema dell’autoritratto, della rappresentazione e della presentazione del proprio corpo.

Parlando di una serie di fotografie di sé stesso a partire dall'infanzia in L’album afferma come guardarle e presentarle ad un amico, le rendesse come “quelle di un estraneo: non ero più io”; per concludere: “facevo attenzione alle trasformazioni del mio viso come alle trasformazioni del personaggio di un romanzo che si avvia lentamente verso la morte” (pp. 74-75).

In questo senso, ancora, l’immagine fotografica tocca il senso di subitaneità e transitorietà dell’Io e dell’identità, che si costituisce entro una dinamica dialogica ed enunciativa, che fugge dal presente come attimo, sempre nuovo, non vissuto, come istante originario: la fotografia è una tentazione immediata, ma se ci si ferma a riflettere non si può più scattare alcuna foto (cfr. p. 80).

I racconti, le descrizioni e le riflessioni che appaiono scritte ne L’immagine fantasma, “assumono la forma di un negativo della fotografia” – come dice espressamente Guibert (p. 133) – e conducono infine ad una sorta di raddoppiamento della storia individuale dell’autore.

Allora, leggendo, scrivendo, immaginando e fotografando insieme a Guibert, ci si accorge che, soprattutto oggi, al tempo di una sovrapproduzione di immagini digitali, anche la propria biografia, in realtà, trova rispecchiamento, si dà come doppia, in un’ulteriore dimensione, fotografica, figurata, immaginata ed immaginativa; e, se anche i media per l’elaborazione dell’immagine fotografica non sono più principalmente analogici, la necessità dell’immagine rimane come una risposta ad una antropologica mancanza; così, infine, i discorsi sulle immagini si rivelano modi di esorcizzare, richiamare e rielaborare un fantasma.