La rinuncia della serialità
Matteo Gaspari
© 2017 Manuele Fior e Alessandro Bilotta – Mercurio Loi, cover del numero 6 – Sergio Bonelli Editore

08.10.2021

Il mondo è cambiato. Lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, lo avverto nell’aria. Molto di ciò che era si è perduto”. Le parole di Galadriel in apertura della trasposizione cinematografica de Il signore degli anelli ben si adattano al panorama odierno del fumetto. Perché boy oh boy se il mondo è cambiato in queste ultime decadi…

Il progressivo affermarsi del graphic novel come categoria merceologica privilegiata prima e come fenomeno estetico/culturale poi pare essere una mareggiata inarrestabile. Nelle precedenti istallazioni di questa rubrica abbiamo cominciato a esplorare il crescente senso di appiattimento che questa novella norma sembra aver portato con sé, soffermandoci su vie alternative nel tentativo di ricostruire – o di riconoscere – uno spazio di possibilità nuovo.

Non abbiamo invece ancora parlato della prima e spesso meno considerata vittima illustre del romanzo grafico: la serialità. Facciamolo, perché al di là del piagnisteo indignato che sale dalle viscere del fumettomondo ogniqualvolta il politico di turno cita a sproposito Topolino, non è che delle serie a fumetti freghi poi molto ad alcun chi. Soprattutto non frega poi molto ai salotti buoni cui pure piace riempirsi la bocca declamando la conquistata dignità della narrativa disegnata (ma solo quando è proposta in seriosi volumi cartonati da venticinque euro in su).

Partiamo da una cosa ovvia, ma che per esperienza personale trovo utile ribadire giusto per essere allineati d’ora in avanti. Non c’è alcuna differenza in termini grammaticali, ovvero in termini di elementi linguistici, tra il fumetto seriale e il monografico da libreria.

Il fumetto è un linguaggio ed è lo stesso a prescindere dalle modalità di fruizione e produzione (che pure possono differire di molto) e ancor di più è lo stesso a prescindere dai generi, dalle estetiche e dalle poetiche dominanti di taluni segmenti di mercato.

 Pertanto è opportuno diffidare sempre da chi afferma di “non leggere fumetti ma di leggere graphic novel”, o da sedicenti critici che commentano magari su Youtube i loro “acquisti di fumetti e di graphic novel” come fossero due categorie ontologiche distinte: sono in malafede o ignorano ciò di cui parlano, entrambi stati perniciosi dell’essere.

Questa separazione artificiosa, che ha nulla a che vedere con la natura profonda e cioè linguistica delle opere considerate, mantiene in atto l’inutile dicotomia che vorrebbe il fumetto popolare –spesso seriale al punto da suggerire una identificazione tra i due termini – differente a un qualche livello fondamentale dal fumetto autoriale.

È bene tenerla a mente questa cosa, dato che quando si parla della legittimazione culturale del fumetto, soprattutto in certi ambienti, si sta guardando a una specifica fetta della torta e nemmeno alla più grossa.

È vero, tuttavia, che se anche fumetto e serialità sono stati a lungo strettamente collegati, la trazione del classico albo da edicola, da andare ad acquistare mese dopo mese finché morte non ci separi, sta lentamente ma tutto sommato inesorabilmente assottigliandosi. Non tanto o non solo in termini di mera economia – per volume di produzione, copie vendute e pagamenti agli autori è ancora la serialità, soprattutto Bonelli, a dominare il mercato – quanto di impatto nell’immaginario collettivo.

Le origini di questa caduta dal paradiso sono molteplici e tutte intrecciate in un groviglio in cui cause ed effetti si confondono fino a scambiarsi di posto.

Da un lato abbiamo, lo dicevamo prima, la contrapposizione percepita tra oggetto culturale e oggetto d’intrattenimento e/o popolare, termine spesso pronunciato con sdegno e ingiusta arroganza: si fa un gran parlare di quanto il fumetto sia ormai stato accettato, debellando i pregiudizi che lo accompagnavano, ma ancor oggi “Gipi” e “Dylan Dog” fanno un effetto ben diverso a chi vuole darsi un tono. E il leggere in quanto attività, e la comunicazione che se ne fa, è sempre più solamente darsi un tono. Purtroppo.

Poi c’è il declino delle edicole che lentamente cessano di esistere – per ragioni che esulano dal fumetto – privando una tutta fetta di editoria del proprio storico canale distributivo.

E infine c’è stata una certa lentezza nell’innovarsi con efficacia, nell’adattare tempestivamente il proprio modello produttivo alle nuove esigenze di un pubblico mutato e la propria proposta culturale per traghettare il vecchio pubblico verso nuovi lidi.

In questo senso trovo purtroppo emblematico il caso di Mercurio Loi.

Testi di Alessandro Bilotta, uno dei migliori autori della scuderia Bonelli, team di disegnatori stellare e impianto narrativo di livello – per gli standard bonelliani persino genuinamente sperimentale, talvolta –, copertine di Manuele Fior, unanime plauso della critica.

Mercurio Loi avrebbe potuto e si sarebbe meritata d’essere la testa di ponte verso un nuovo fumetto popolare, seriale, di intrattenimento colto. Ma buona fortuna a proporre qualcosa di nuovo nel contesto del pubblico più tradizionalista e refrattario al cambiamento del fumetto italiano. E altrettanta buona fortuna a trascinare periodicamente in edicola i lettori di graphic novel, scardinandone le abitudini (e la spocchia).

E infatti non si può dire che l’operazione abbia funzionato: la serie tra varie difficoltà non riesce ad imporsi come nuova strada maestra e viene interrotta dopo 16 albi. Verrà poi riproposta in volumi da libreria. Se Maometto non va alla montagna…

Si è spesso detto che fumetto e narrazione audiovisiva hanno seguito la stessa strada in una sorta di parallelismo asincrono, non è chiaro chi anticipando chi: mentre il cinema cedeva il passo alle serie tv e cercava di assorbirne la dimensione episodica, la letteratura disegnata abbandonava la sua anima seriale per puntare convinta alla forma compatta e autocontenuta del romanzo a fumetti. 

Trovo che sia un’idea meritevole di ulteriori riflessioni, tenendo però conto che non tutto ciò è episodico costituisce una serie e che nuove modalità di fruizione – binge watching in primis – dovrebbero modificare alla radice ciò che intendiamo per narrazione seriale, facendone quasi sparire la fondativa dimensione rituale.

È tuttavia innegabile che il fascino della serialità classica del fumetto sta cedendo il passo alla comodità e all’autorevolezza percepita del graphic novel, con un’oggettiva perdita in termini di spazio di possibilità.

Ed è un peccato, perché forme lunghe di narrazione nel fumetto necessitano o necessiterebbero, anche solo per mere considerazioni cartotecniche, la pubblicazione seriale. Snobbarle, come spesso accade, significa farsi scorrere sotto gli occhi grandi (letteralmente) cose.

Le domande allora diventano: quali grandi cose? Cos’è che solo la serialità può offrire? E come fare per farla funzionare, su un piano commerciale?

[Continua nella prossima puntata]