Incastrati nella gioventù
Onofrio Romano
02.07.2022
Il testo che segue è la Prefazione scritta da Onofrio Romano al volume di Paolo Inno Creativi per forza

Ci sono diverse ragioni che rendono il libro di Paolo Inno un lavoro prezioso. Innanzi tutto, la postura dello studioso davanti all’oggetto di ricerca. Le indagini sulla nuova generazione di politiche a supporto dell’auto-attivazione dei giovani, dell’auto-imprenditorialità in campo economico e sociale, dell’innovazione e della creatività, delle startup tecnologiche ecc. non mancano di certo. Ma quando non sono esplicitamente embedded nelle politiche che analizzano, ossia direttamente commissionate dalle istituzioni e dalle agenzie promotrici, esse si pongono comunque, nella stragrande maggioranza dei casi, in modalità di “servizio” rispetto alle finalità ideologico-politiche che animano i percorsi disegnati.

Si analizza, ad esempio, la capacità delle politiche giovanili di generare iniziative al fine di incrementarne l’efficacia; si esplorano i fattori di contesto che favoriscono o inibiscono la creazione e il consolidamento di nuove start-up; si valutano gli eventuali miglioramenti della capacità di apprendere da parte dei beneficiari ecc. Si prende per scontato, insomma, che l’auto-attivazione sia una finalità giusta e desiderabile, interpretando il proprio lavoro d’indagine come ancillare rispetto ai progetti politici ad essa presupposti. Del resto, è esattamente questa l’impostazione del regime di finanziamento della ricerca allestito dall’Ue nell’ambito di Horizon et similia: l’istituzione definisce d’imperio che cos’è una società “buona”, “ideale”, chiamando poi i ricercatori a partecipare con le loro ricerche al conseguimento degli obiettivi puntuali in cui questo modello di società viene di volta in volta declinato. Un totalitarismo in forma di farsa, come ogni ripetizione storica. È incredibile che questa “messa al lavoro” non susciti alcuna reazione da parte della comunità scientifica, che invece si accalora solo nella guerra interna per l’accaparramento dei fondi.

Paolo Inno si sottrae a queste derive, recuperando quell’atteggiamento scientifico rispetto ai fatti sociali che è proprio dei classici della sociologia e che oggi giace sepolto nei recessi della disciplina. Nella sua ricerca, le politiche giovanili diventano così un “fatto sociale totale” (Mauss). Una di quelle singolarità, vale a dire, dalla cui esplorazione emerge l’intero, le strutture del collettivo, i loro mutamenti di fondo, la logica sociale che governa il presente. È un atteggiamento che obbedisce all’essenza stessa della sociologia: né esegesi del frammento (magari a fini “di servizio”, come sopra denunciato), né edificio speculativo aereo che non tocca mai terra, bensì la capacità di collegare il singolo fenomeno alla totalità sociale cui appartiene. Operazione non facile, certamente. Richiede doti speculative, padronanza della grande teoria, competenza metodologica, sensibilità d’approccio agli attori sociali, capacità di comprensione dei fenomeni e del loro intreccio.

A tutto questo bagaglio, Paolo Inno aggiunge, a monte, la sua personale esperienza di “principio attivo” (l’appellativo con cui vengono designati i beneficiari del progetto pugliese per l’intrapresa giovanile “Principi attivi” – una delle policy analizzate nel volume). Un plus non trascurabile, poiché annulla in radice il sospetto di un atteggiamento pregiudizialmente negativo da parte del ricercatore nei confronti dell’oggetto di studio. L’autore ha attraversato il fenomeno di cui parla vivendolo in prima persona. Questo ha rafforzato la sua conoscenza quando, cambiando prospettiva, ha avuto la possibilità di metterlo a distanza e di osservarlo dall’esterno con gli attrezzi del mestiere di sociologo.

In questa chiave, Inno colloca la nuova generazione di politiche giovanili fondate sul principio di auto-attivazione dentro il generale processo di ristrutturazione del modello regolativo che ha interessato le nostre società a partire dagli anni ottanta del secolo scorso, con l’avvento del cosiddetto neo-liberalismo. Senza alcun furore ideologico, l’autore ne coglie l’essenza, decostruendo implicitamente la sua retorica istitutiva. Il racconto mainstream designa la svolta di policy come un passo in avanti nella grande avventura emancipativa cominciata con l’Illuminismo: il giovane (categoria della quale Inno rivela tutta la problematicità concettuale) ridiventa “padrone di sé stesso”, finalmente libero dal gregge fordista e dalle catene di uno stato disciplinatore. Capace, dunque, di creare da sé il proprio lavoro e il proprio valore dopo aver eseguito per decenni la funzione d’ingranaggio dentro una macchina produttiva alienante e ormai destinata a girare a vuoto.

Se non si trattasse di un tornante eminentemente anti-marxiano, verrebbe descritto come un superamento di fatto dell’alienazione. Dietro questo paravento retorico, l’autore discopre la realtà di un modello regolativo – il welfare dei trent’anni gloriosi – giunto a saturazione per via del suo stesso successo: di fronte a questo evento, lo Stato, invece di immaginare soluzioni progressive, decide di marcar visita, scaricando tutti, ma in primo luogo i nuovi arrivati (i giovani). Esso declina ogni responsabilità sovrana sui processi socio-economici, abbandonandoli all’autoregolazione (ovverosia alla legge del più forte), incitando gli scaricati, in maniera beffardamente entusiastica, a sbrigarsela da soli. La fine del più grande esperimento di democrazia di massa, in cui la collettività si è appropriata realmente del suo destino mettendo il capitale al proprio servizio, viene spacciata per liberazione. La ristabilita subalternità dei lavoratori ad una macchina capitalistica nuovamente disembedded dai legami sociali e politici è annunciata come l’alba di una nuova era di autenticità della persona.

Messo in questi termini, tuttavia, il racconto appare parziale. Bisogna guardarsi dall’idea – consolatoria – che il cambio di regime, del quale le nuove politiche giovanili per l’auto-attivazione costituiscono la manifestazione paradigmatica, sia semplicemente il frutto di una sorta di golpe bianco operato dai cattivi “capitalisti” (risuonante nella pluricitata provocazione di Warren Buffet: “la lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”). E allo stesso modo dall’ipotesi secondo cui il passaggio al neoliberalismo sia stato necessitato da una mera insostenibilità economica del regime di welfare.

Certo, il capitale ha ampiamente approfittato della crisi del quarantennale compromesso tra Stato e mercato, gonfiando come mai le vele del profitto. Ma le società del benessere hanno risentito soprattutto di una sorta di consunzione antropologica, di esaurimento motivazionale del soggetto. Questi ha conosciuto una vera e propria paralisi. La circostanza ci viene rivelata implicitamente dallo studio di Paolo Inno quando mette a fuoco lucidamente l’accanimento delle politiche giovanili nello stimolo alla dimensione psicologica e antropologica del beneficiario.

Questo precede ogni altra preoccupazione. Precede, in particolare, la rilevanza attribuita all’esito “economico” delle attività finanziate o al concreto contributo sociale che esse offrono (che, intuitivamente, appaiono come le finalità specifiche degli interventi). Il fine delle politiche di creazione di impresa, insomma, non è creare imprese. Il fine, come riportato nei documenti preparatori delle politiche analizzate, nonché come dichiarato da coloro che le hanno concepite (intervistati dall’autore), è offrire al beneficiario un’esperienza di apprendimento tesa soprattutto cambiarne la mentalità, l’etica, la condotta. L’obiettivo è farne, innanzi tutto, un “imprenditore di sé stesso”, un soggetto abituato ad arrangiarsi da sé in uno sforzo inesausto di adattamento alle condizioni (di mercato) sempre cangianti, e che, soprattutto, impari a imputare sempre e solo a sé stesso la responsabilità dei fallimenti, cancellando dal proprio orizzonte l’esistenza del sistema, la politicità di questo e, dunque, la sua modificabilità. Un anthro-preneur, secondo la folgorante espressione adoperata da Inno.

Dopo aver rinunciato a disciplinare il mercato in funzione delle esigenze dell’uomo, alle istituzioni pubbliche non resta che disciplinare l’uomo in funzione delle esigenze del mercato. La retorica della libertà che accompagna l’auto-imprenditore è uno specchio ribaltato sulla realtà della sua totale sottomissione alle richieste della “macchina”. Col salario fordista e le garanzie annesse, il soggetto diventava effettivamente libero di essere e di fare. Libertà dal bisogno, innanzi tutto, che è – Arendt docet – l’essenza stessa della libertà.

Oggi, invece, il soggetto non giunge mai ad affrancarsi dalla presa della macchina. La sua sussistenza non è mai al sicuro. È un soggetto braccato, senza un padrone visibile contro cui potersi scagliare, poiché questi ha assunto le vesti anonime e spettrali del mercato. Egli torna dunque a “obbedire”, all’opposto del suo predecessore fordista, che ad un certo punto ha smesso di rispondere a qualsiasi autorità, intraprendendo un percorso di auto-dilapidazione. Il fine non è dunque produrre qualcosa, generare valore aggiunto, innovare, bensì tenere il soggetto dentro un vortice motorio perpetuo che lo distolga dalla vista della propria inconsistenza, conseguente alla conquista della libertà sovrana.

La fisica maccheronica di Žižek ci viene soccorso: l’elettrone a riposo, sostiene il filosofo sloveno, non ha massa; esso ne accumula un po’ solo quando è in movimento. Un niente che acquisisce una qualche ingannevole sostanza in virtù dell’accelerazione del suo movimento. Ecco, le politiche di attivazione hanno questo scopo precipuo: fornire al giovane l’illusione di avere un peso, un ruolo, una funzione, un posto riconosciuto all’interno di questo consorzio sociale.

Considerata nel suo complesso, la macchina produttiva contemporanea produce un surplus straordinario che aspetta solo di essere ripartito tra gli abitanti del pianeta. Insomma, non ci sarebbe alcun bisogno di innovare, di cercare nuovi stratagemmi tecnici per pompare il valore aggiunto, ma l’ideologia imperante è dedita al culto dell’innovazione e delle relative start-up. Invece di unirsi nella lotta politica per la requisizione e la redistribuzione del surplus, i giovani vengono incitati alla lotta interna per escogitare un qualche simulacro d’innovazione che dia diritto ad una goccia di grasso, come in un infernale squid game con pallottole a salve.

Comme d’habitude, i laboratori della società nuova, di cui le politiche di attivazione costituiscono il paradigma, utilizzano come materiale di sperimentazione gli strati deboli della popolazione (i giovani, al di fuori delle residue garanzie in via d’estinzione del welfare novecentesco) e vengono impiantati nei territori più deboli, come il Mezzogiorno. Qui si è consolidata una situazione di incongruità che contribuisce ad allestire un terreno fertile per la sperimentazione delle logiche di auto-attivazione. Il piano politico-istituzionale è attagliato sugli standard di un paese complessivamente sviluppato che quindi produce capitale umano “titolato” e di buona qualità. Ma la realtà economica non permette di impiegare adeguatamente questa materia potenzialmente “dirigente”, in quanto le centrali amministrative e produttive sono collocate altrove. Quanto residua dalla valvola migratoria può dunque essere agevolmente incorporato nella macchina del giramento a vuoto approntata dalle politiche di auto-attivazione.

La Puglia – dove Inno svolge la sua indagine – negli ultimi due decenni ha aggiunto a questo quadro generale favorevole alla sperimentazione una peculiare temperie politico-culturale contrassegnata da un potente desiderio di modernizzazione: la cosiddetta primavera pugliese.

E qui, last but not least, si manifesta il valore “politico” della ricerca di Inno. La regione più a sinistra d’Italia, guidata dal “comunista” Nichi Vendola, è paradossalmente quella in cui la cultura neoliberale dell’auto-attivazione si è insediata più solidamente che in ogni altro luogo d’Italia e probabilmente d’Europa. Il generale processo di subordinazione della sinistra contemporanea al discorso egemonico dell’avversario di classe, messo in evidenza da una lunga serie di studi politologici e sociologici, trova in Puglia uno dei più fertili terreni di realizzazione.

È qui che i giovani appaiono più che altrove sospesi nel guado della gioventù (impossibilitati a costruire un progetto di vita adulta, dovendo rispondere just in time alle richieste di una macchina di movimentazione umana insaziabile) e contemporaneamente deprivati di uno dei tratti più caratterizzanti ed esaltanti della stagione giovanile: l’utopia della trasformazione del mondo. Tutta la spessa retorica della generatività e della partecipazione al bene comune che incarta impunemente le politiche giovanili si risolve in una silenziosa implosione individuale, in una totale de-politicizzazione del soggetto, che si ritrova giorno e notte, consunto, senza resti, senza spiragli, focalizzato univocamente sull’impresa della propria sopravvivenza singolare. Strutturalmente impossibilitato a dedicarsi all’altro (dal partner alla polis, per tacere dei figli). Senza più vita sociale né politica.

Con stile lieve ma implacabile, Paolo Inno disegna l’auto-ritratto di una generazione incastrata nella gioventù.


©Paolo Inno, Creativi per forza, Meltemi 2022