Gli anni 60 francesi, fra crisi del colonialismo e società dei consumi
Manlio Iofrida

28.05.2022

2. Ma è importante vedere la situazione da altre angolazioni nazionali: poiché ogni tempo ne contiene molti altri fra loro eterogenei; e gli anni 60 francesi e quelli 80-90 furono diversi dai nostri; vediamo cosa possiamo imparare da una loro breve ricostruzione.

Veramente il dopoguerra francese è completamente diverso dal nostro: non è segnato dall'egemonia di un marxismo vivo come quello gramsciano (anche se con i limiti che abbiamo rilevato), ma dal prevalere dall'esistenzialismo.

Sul tronco di una situazione storico-politica che si era già stabilizzata negli anni trenta, ma che strutturalmente risale probabilmente al costituirsi della Terza Repubblica, la scena politica culturale francese è caratterizzata da una netta autonomia del mondo intellettuale, che si rapporta in modo centrale alla politica, ma che non fa parte organica dei partiti del movimento operaio (SFIO, PCF); questa relativa autonomia di ceti medi spiega il peso anche politico-sociale che hanno movimenti come l’esistenzialismo francese, quello dei Temps Modernes di Sartre e Merleau-Ponty, ma anche in un senso più ampio (che comprende il comparto religioso di “Esprit”, che non era certo conservatore).

A questo corrisponde un’antica funzione politico-filosofica della letteratura, che nel dopoguerra viene impersonata, oltre e ancora di più che dai «Temps modernes », dall' esistenzialismo radicale (anti sartriano, più che anti-merleau-pontiano) di Bataille e Blanchot.

Tutto ciò delinea nel dopoguerra francese un primato della filosofia con la F maiuscola, che non ha riscontro in altri paesi, tanto meno in Italia, dove, come abbiamo visto, il primato è piuttosto dello storicismo marxista (centrato più sulla storia che sulla filosofia teoretica).

Di conseguenza, anche gli anni Sessanta francesi sono qualcosa di molto complesso e di assai diverso da quelli italiani, il cui centro tutto sommato è dato da un lato dalla sprovincializzazione della arbasiniana gita a Chiasso, con conseguente buttare alle ortiche la cultura idealistica insieme al fascismo, dall'altro dal boom economico, e la cui punta di diamante culturale non sono né la filosofia né la letteratura, ma il cinema, unico campo in cui l'Italia è uno degli ombelichi del mondo.

Gli anni 60 francesi sono invece più propriamente il centro della rinascita culturale europea, dell’ egemonia culturale almeno in parte ritornata all’Europa, con Parigi di nuovo capitale mondiale della cultura dopo che la seconda guerra mondiale aveva segnato una cesura.

Su che sfondo storico va visto questo fenomeno, considerando che già l’esistenzialismo, subito dopo la guerra, aveva costituito un momento di grande rinascita culturale e popolare che si era irradiato nel mondo intero?

Per un lato, nel mondo diviso fra due blocchi e dalla cortina di ferro, Parigi si faceva capitale della (parziale) «terzietà» politica e culturale dell’Europa, di una sua identità che non si schiacciava né sul polo americano né su quello sovietico; questa era la Parigi dell’immigrazione dell’intellettualità orientale dissidente, di cui sono stati tipici esponenti Todorov e Julia Kristeva; per l’altro, si può dimenticare il fatto che questa parziale autonomia era pur sempre un prodotto del Piano Marshall? Che questa rinascita europea era anche l’avvento del neocapitalismo, delle politiche keynesiane e della società dei consumi, al culmine dei Trenta gloriosi?

Questa era la Parigi dei grandi tecnocrati gollisti (come Alexandre Kojève...), della modernizzazione selvaggia, della costruzione delle centrali nucleari. Ma vi era anche una terza Parigi: quella in cui si stava vivendo la tragedia della guerra d’Algeria e la cui intellettualità si schierò massicciamente dalla parte della decolonizzazione; fin dagli anni fra le due guerre la capitale francese era stata luogo di formazione delle élites dei paesi coloniali che avrebbero poi condotto le lotte per l’indipendenza negli anni Sessanta; le ricerche di Lévi-Strauss sono fra l’altro espressione e bandiera della cultura terzomondista - un altro “Terzo blocco” che si alleava all’Europa nella ricerca di un’alternativa a Usa e Urss.

È un eccesso di storicismo vedere la ricchezza, ma anche le ambiguità politiche e culturali dello strutturalismo come espressione di questo incrocio di fatti storici insieme così ricco e così contraddittorio? Per cui esso può presentarsi a un tempo come una ripresa del formalismo russo e del marxismo rivoluzionario e antistoricista e come l’espressione di un neocapitalismo vittorioso e di una società dei consumi che è il culmine del più sistematico saccheggio della natura?

La critica dell’umanesimo è rottura con l’uomo borghese e occidentale o riduzione totale del soggetto e del mondo a tecnica capitalista? E criticare lo storicismo lineare e teleologico proponendo la morte dell’uomo non rischiava di aggiungere, al taglio del concetto di natura, anche quello del concetto di storia?

Si sarà già capito che sto pensando a Le parole e le cose (che dello strutturalismo è del resto il manifesto filosofico più significativo): è una critica radicale della società dei consumi? Certo, ma effettuata con strumenti teorici che tagliavano tutti i ponti con la storia e con la natura: una critica siffatta non rischiava di favorire l’avversario, di togliere strumenti fondamentali per la costruzione di un’alternativa? In fondo, l’evoluzione successiva del pensiero di Foucault doveva dar ragione ad alcune delle aspre critiche con cui Sartre aveva accolto il suo testo.

Ma a questo punto stiamo già parlando, con Le parole e le cose, di quella strana bestia che è lo heideggerismo (o il niccianesimo/heideggerismo) francese; e su questo è indispensabile un po’ soffermarci. (continua)