Giù i monumenti?
Una questione aperta
Lisa Parola

20.05.2022


Capitolo primo

Il rovescio dei monumenti

Un equilibrio sempre più precario.



I monumenti hanno una data di scadenza? A osservare quanto sta accadendo negli ultimi decenni la risposta parrebbe positiva. Ma quando e emersa tutta questa violenza contro la statuaria? Cosa muove le diffuse azioni di distruzione di cui siamo spettatori?

Inserire un monumento nello spazio pubblico significa sempre, in qualche modo, rendere materiali i fatti, nominare, costruire, dare un’identità a un luogo, ma anche progettare uno spazio attraversato da molte persone, che il più delle volte si definisce tramite una voce univoca; un “io”, verrebbe da dire, che può esistere solo evidenziando un “loro”. E la conseguenza di questa univocità è l’apertura alla possibilità di un destino incerto, imprevedibile.

Il basamento delle sculture come quello dei monumenti che incontriamo nelle piazze o nei giardini, di fronte alle università o ad altri spazi istituzionali è, secondo la critica d’arte Rosalind Krauss, una «soglia»1, una mediazione tra lo spazio che il monumento occupa e il suo significato. Qualcosa che assomiglia a un limite e che definisce una difficile relazione tra un tempo bloccato e un tempo in movimento.

Il piedistallo riesce a elevare solo un fatto o un accadimento, è sempre troppo stretto per accogliere la pluralità e le posizioni che attraversano la scena urbana. Il monumento è anche la forma di una volontà di potere, un atto politico che dà spazio, voce e visibilità a un’unica storia.

Ma se intendiamo la storia come un processo in continuo divenire, quell’unico fatto può ampliarsi, modificarsi, rovesciarsi. Potremmo allora pensare il monumento, e lo spazio che lo circonda, come una macchina visiva complessa nella quale si condensano ambiti e tempi differenti.

Il monumento ha sempre a che fare con la sfera estetica e politica ma anche il tempo è un elemento centrale. Il monumento viene posato a memoria di un evento passato, il suo tempo è sempre un presente che deve parlare al futuro. Quando tutti questi fragili equilibri s’interrompono i monumenti perdono la loro autorità e la loro verticalità.

Per capirci meglio proviamo con un esempio noto. È un uomo adagiato e addormentato sul grembo di un monumento quello che Charlie Chaplin ci presenta nei primi minuti di Luci della città. Due anni dopo il crollo economico del 1929, in un Paese ancora immerso in una crisi profonda, i primi tre minuti di uno dei capolavori del cinema sono dedicati proprio all’inaugurazione di un monumento in un’ideale città americana d’inizio anni Trenta.

Prima di un irriverente gioco di equilibri nel quale l’attore è sospeso tra le statue che rappresentano rispettivamente la Giustizia, la Pace e la Prosperità, quello che colpisce delle prime inquadrature è la descrizione precisa di tutti gli elementi e le figure che compongono lo spazio del monumento quando viene posizionato nella sfera pubblica. Di fronte al marmo ancora coperto e che rimanda a una forma astratta si estende una piazza. In primo piano, compaiono ben riconoscibili tutti i soggetti che definiscono il monumento. Sul palco, all’altezza del basamento, sono presenti il sindaco, la committente, l’artista e sotto, in buon ordine, la banda e la polizia. Sul fondo compare, ripresa di spalle come una massa indistinta, la folla di persone che assiste alla cerimonia di inaugurazione.

In un’evidente parodia del primo cinema parlato, ma anche della retorica del potere, attraverso sonorità sgraziate e tonalità metalliche, il regista fa intervenire e dà voce prima al sindaco, poi all’artista e, in chiusura, alla committente. In quest’atmosfera solenne e pomposa, man mano che con una certa difficoltà la statua viene svelata, lo spettatore si ritrova di fronte a un inciampo visivo che interrompe bruscamente l’ufficialità del momento.

Steso sul grembo della Giustizia, che ha preso le sembianze di una giovane donna, si trova il corpo addormentato del Charlie Chaplin senzatetto e vagabondo. Dopo qualche secondo, lo stesso Charlot, sorpreso dall’accaduto e nel tentativo di uscire da quella imbarazzante situazione, prova a chiedere scusa alla folla ripetendo più volte e in modo meccanico il noto gesto del saluto con la bombetta. Questo gesto si trasforma poi in una sequenza di movimenti simili a quelli di una marionetta che interpreta una danza sospesa, irriverente e ironica, muovendosi in modo nervoso in mezzo alle figure che compongono la statua.

Tra lo stupore e l’indignazione della folla, dal palco si prova a ristabilire l’ordine incitando la banda a suonare e cercando di riprendere la parola. In questa breve sequenza è evidente una critica nei confronti delle istituzioni e della borghesia che, nonostante la povertà che la crisi ha causato nelle città americane, continua ad adagiarsi sulla forma del monumento quale strumento per la sua stessa rappresentazione, autorevole, retorica e rassicurante.

È all’interno di questa dissacrante cornice visiva che Chaplin decide di mettere in moto la macchina complessa del monumento evidenziando tutte le contraddizioni che abitano lo spazio pubblico e collettivo. Nel tentativo di destabilizzarne l’immobilità e la retorica, man mano che la statua inizia ad essere svelata, viene posto al centro delle riprese il corpo a riposo di un uomo per denunciare la diffusa situazione di povertà sociale che il monumento stesso vorrebbe simbolicamente provare a rimuovere. La scena si chiude solo quando, dopo numerose acrobazie, l’intruso scavalca una staccionata e se ne va.

Queste immagini, che al tempo devono essere apparse al pubblico e alle istituzioni ancora più irriverenti e provocatorie, ci permettono però di riflettere sulla complessità che sempre abita un monumento e che ne stabilisce, nel tempo, la verticalità o l’orizzontalità.

Il destino delle statue sul piedistallo è un tema che inseguo da tempo, colpita e incuriosita dal fatto che quando la storia cambia direzione, o meglio quando il nostro sguardo cambia orientamento rispetto a fatti e avvenimenti, le statue tornano ad essere presenza e voce. E a volte quella voce è talmente alta che le persone, le comunità alle quali non è stato permesso di averla, sentono l’urgenza di distruggere o rimuovere quelle forme, quei corpi innalzati sul piedistallo, cancellando quello che nel presente e ritenuto troppo doloroso.

Invisibili magari per decenni, solo in quei precisi momenti le statue tornano a occupare lo spazio intorno e a far sentire la loro autorità. In molti momenti della storia, da luoghi di commemorazione i monumenti si sono trasformati in occasioni di conflitto, portando alla luce rimozioni profonde legate all’arbitrarietà delle interpretazioni e delle narrazioni del passato e facendo riemergere la distanza tra i vinti e i vincitori. Uno scontro, questo, che avviene il più delle volte nel centro delle città, lì dove la storia è rappresentata ma anche dove la pluralità degli attori sociali si compenetra e si sovrappone.



1 Rosalind Krauss, Sculpture in the expanded field, in «October», VIII, primavera 1979, pp. 30-44, in particolare p. 33.


©Lisa Parola, Giù i monumenti? Una questione aperta, Einaudi 2022