Disabilità e (in)giustizia sociale
Chiara Montalti

04.06.2022

Le analisi della disabilità hanno sempre posto attenzione sui limiti di un quadro interpretativo puramente medico della categoria. Questa prospettiva ne oscura infatti la dimensione politica, socioculturale, economica, che concorre invece a determinare sia una certa rappresentazione dei suoi contorni – strutturando quindi il binomio abilità/disabilità –, sia un certo tipo di esperienza individuale. Viene quindi evidenziata l’urgenza di eccedere i percorsi di cura e “aggiustamento” della persona disabile.

Tanto nella cultura disabile e nell’attivismo, quanto nella ricerca, ci si è pertanto prodigati per sostenere la positività del posizionamento disabile (per esempio nel movimento del Disability Pride), pur mantenendo una prospettiva flessibile, e quindi mai essenzialistica e autoevidente, della disabilità.

L’enfasi sull’orgoglio disabile e sulla possibilità di vivere vite ricche, in cui si verificano e realizzano gioia, piacere, forme di creatività e competenza, amore per la comunità, ha anche lo scopo di controbilanciare le narrazioni socioculturali più diffuse: che le vite delle persone disabili siano cioè caratterizzate unicamente da tragedia, perdita, carenza, difetto, sfortuna. Se non altro, la disabilità assume un ruolo generativo: produce contributi conoscitivi e pratici, e rende possibili modalità di vita e di incorporamento eterogenee.

Queste riflessioni permettono quindi di chiederci, collettivamente, “che cosa perdiamo, oltre agli individui stessi, se eliminiamo la disabilità e le persone disabili dal mondo” (Rosemarie Garland-Thomson, The Case for Conserving Disability, 2012, p. 344), spingendoci a considerare come la disabilità possa talora essere una risorsa.

La larga parte di queste riflessioni è incasellata in un contesto geopolitico, medico-sanitario, tecno-scientifico ed economico ben preciso, pur nella evidente eterogeneità: il Global North. Naturalmente, i Disability Studies euro-americani non si propongono di oscurare dolore, fatica, ostacoli sociali, marginalizzazione: tentano tuttavia di distanziarsi dalla narrazione per cui queste sono le uniche esperienze di disabilità possibili.

Le condizioni per ammortizzare questi aspetti negativi non si verificano allo stesso modo in ogni parte del mondo, in cui la maggior parte delle disabilità è tuttora figlia di processi disabilitanti: per esempio, condizioni lavorative e abitative non idonee, assenza di assistenza sanitaria adeguata, scenari di guerra, crisi ambientale. Gli esseri umani – ma anche quelli non umani –, vengono disabilitati da contesti sui quali è necessario agire con lucidità e sollecitudine.

È possibile rivendicare uno spazio per le persone disabili e depotenziare il sistema dell’abilità obbligatoria – che relega certi corpi-menti ad uno stato di inferiorità e deficit, e quindi di marginalizzazione –, e allo stesso tempo lottare perché queste condizioni dannose vengano eradicate, e il presente divenga più vivibile per ogni soggettività?

Questa domanda risuona particolarmente attuale in questi ultimi mesi, mentre assistiamo agli esiti devastanti della guerra in Ucraina. Se questo nodo concettuale risulta sempre urgente, in questo caso le analisi della disabilità vengono interpellate con particolare vigore: il costo di questa guerra – tanto per la popolazione civile, quanto per l’apparato militare – ricade infatti su un contesto socioculturale e medico-sanitario a noi affine.

Non soltanto le persone disabili occupano una posizione di particolare fragilità nei contesti di guerra, ma è in primo luogo la violenza militare a produrre – a causa dell’uso di armi, di condizioni di vita maggiormente precarie, di spostamenti forzati dalla propria rete di riferimento (anche medico-sanitaria), di sfaldamento delle comunità – disabilità, malattie, traumi psicologici, morte.

La guerra espone con dolorosa chiarezza quanto la disabilità, pur non essendo soltanto appuntata su corpi e menti, sia anche l’esito di una loro collisione violenta con il mondo. L’apparato militare, inoltre, ha una relazione schizofrenica con la disabilità: numerosi avanzamenti tecno-scientifici, infatti, emergono proprio da questo bacino – che gode di finanziamenti assai cospicui –, laddove è proprio questa stessa “macchina” a disabilitare le persone, anche se spesso in maniera delocalizzata rispetto a chi beneficia dei risultati.

Una tecnologia come l’esoscheletro, per esempio, rende possibile ai soldati il trasporto di armi pesanti che producono disabilità – poniamo, in Afghanistan. Le persone con lesioni spinali che potrebbero farne uso, tuttavia, sono situate in tutt’altra parte del mondo.

Volendo schivare un modello puramente medico della disabilità, il tema del suo evitamento non è uno snodo teorico particolarmente frequentato. Emerge difatti una tensione – al contempo teorica, politica, biografica – tra la possibilità di risignificare positivamente l’esperienza della disabilità e di valorizzare le vite disabili e, invece, la loro possibile prevenzione.

Vengono infatti evidenziate, prevalentemente, le radici politiche e socioculturali che strutturano l’abilismo. Come sottolinea Nirmala Erevelles, resta tuttavia necessario confrontarsi «con la materialità incarnata della carne sanguinante e spezzata» (Disability and Difference in Global Contexts, 2001, p. 29). Il trauma e la disabilità hanno evidentemente anche una derivazione antropogenica, la quale – parallelamente a trasformazioni radicali a livello socioculturale, politico, economico – può rappresentare un’area di intervento.

All’interno della Disability Justice, queste due tensioni possono essere tenute insieme. È importante riconoscere, pertanto, che non è soltanto l’abilismo ad essere una forma di ingiustizia: è la stessa ingiustizia sociale, generata dalla struttura capitalistica, ad acutizzare le esperienze di disabilità e malattia. Il desiderio di riparazione delle condizioni disabilitanti, tuttavia, non deve condurre ad una prospettiva riparatrice nei confronti delle soggettività.

La prospettiva della Disability Justice evidenzia come tutti i corpi siano unici ed essenziali, che tutti i corpi hanno punti di forza e bisogni che devono avere risposta. Sappiamo di essere potenti non nonostante le complessità dei nostri corpi, ma grazie ad esse. Comprendiamo che tutti i corpi siano incastonati nei vincoli dell’abilità, della razza, del genere, della sessualità, della classe, dello stato nazione e dell’imperialismo. Sono questi i posizionamenti da cui lottiamo. Siamo in un sistema globale incompatibile con la vita (Patty Berne/Sins Invalid, Disability Justice - A Working Draft, 2015).

È necessario lottare perché si attui la minor violenza possibile, e allo stesso tempo considerare che gli esiti della violenza possano essere abitati dalle soggettività in modalità resistenti e creative. La disabilità può essere accolta e “conservata” in determinate condizioni, senza che tale opportunità si risolva nella riproduzione senza fine della marginalizzazione, della precarietà, della violenza, dello sfruttamento.

La sfida, a livello teorico e materiale, è opporsi alla violenza senza impiegare le vite delle persone disabili come puntello teorico che rimandi unicamente all’indesiderabilità, alla tragedia, alla mancanza.