Che ne è stato della decrescita?
Stefano Righetti

08.07.2021

La maggiore debolezza di cui la pandemia ci ha dato prova, al punto che potremmo dire con una certa sicurezza che essa riassume in sé tutte le debolezze della nostra condizione attuale, è quella per cui un sistema fondato sul primato della finanza, sui limiti alla spesa sociale e sul lavoro produttivo come unica fonte di reddito e benessere individuali non è sempre in grado di rispondere prontamente alle emergenze o di farlo in modo efficace. La risposta politica del sistema la conosciamo: riaprire il prima possibile le attività, ritornare alla "normalità", riprendere la produzione e, con questa, la "crescita".

Il principio della crescita economica (e l’incremento della produzione) rimane dunque l’unico considerato in grado di assicurare la prosperità che i cittadini si aspettano dalla loro vita sociale ovunque essi operino. Per quanto assai semplificata, quest’equazione tiene banco in qualsiasi talk show televisivo in cui si discetti, più o meno amabilmente, di politica. Il punto sarebbe cercare di comprendere cosa comporta questa crescita o, detto altrimenti, come viene finanziata. Perché l’equazione che il messaggio televisivo mira a diffondere sembra mancare di un parametro necessario: quello che permetterebbe di comprendere più compiutamente chi paga la "crescita", e soprattutto, con cosa.

Una narrazione a buon mercato del boom economico e dei "Trenta gloriosi" vorrebbe ancora farci credere che alla popolazione impoverita d’Europa bastò soltanto rimboccarsi le maniche e i soldi cominciarono a pioverle sulla testa praticamente dal cielo. Narrazione che viene ancora oggi propagandata con l’imperativo "diventare imprenditori di sé stessi". Che qualcosa non tornasse in questo quadretto idialliaco del capitale sembrò in realtà già chiaro negli anni 60, ma dopo qualche decennio lo storytelling di maniera è tornato a imporre la sua semplificazione a dispetto della realtà.

Poco prima che la pandemia facesse tornare il sogno dello sfruttamento lavorativo come migliore condizione in cui vivere, salvo sognare direttamente il salto verso il paradiso di qualche talent show televisivo, i tentativi di conseguire una crescita economica erano stati finanziati (varrebbe la pena ricordarlo) da una generale decrescita sul piano sociale e su quello dei servizi essenziali in genere. Le cui conseguenze sono state ulteriormente pagate in termini di vite umane e di crisi di sistema durante la pandemia, e in modo drammatico.

Ma, soprattutto, andrebbe ricordato che la crescita generale dalla fine della seconda guerra mondiale in poi (mitizzata anche di recente da alcuni giornali), è stata ottenuta in realtà a spese di un ampio sfruttamento umano e del patrimonio ambientale di tutto il pianeta. Poiché nulla è gratis, e soprattutto poiché nulla si crea ma tutto si trasforma, l’illusione della lotteria vincente sul piano dell’industrializzazione ha avuto come prezzo la distruzione climatica e ambientale con cui dobbiamo oggi fare i conti (senza peraltro saperli o poterli fare in termini appropriati). Ogni crescita, potremmo semplificare, implica una necessaria decrescita. Senza farne per forza un principio fisico, questo è il principio economico al quale ci siamo attenuti e al quale abbiamo delegato la nostra vita e ogni nostra aspirazione, incuranti di ciò che la crescita comportava in termini di "costi".

Il fatto che in genere non si sia voluto vedere il lato oscuro della crescita, per quanto se ne fosse consapevoli, è certamente uno dei motivi per cui la parola decrescita è sempre stata accolta con una generale diffidenza, per non dire rifiuto. Gli abitanti delle aree e dei fiumi del Niger inquinati dall’estrazione petrolifera hanno sicuramente avuto una percezione diretta di che cosa significasse la decrescita e il costo imposti del capitale, molto di più degli inurbati abitanti delle periferie senza servizi della civile Europa. (Anche se per gli abitanti di Taranto o della Val Susa la questione è sembrata chiara, è stato comunque per loro impossibile condividere l’angoscia e fermare la macchina della crescita). Il motivo è probabilmente nel fatto che ai secondi viene ripetuto da ogni referente politico e culturale che una crescita, la crescita!, li salverà, mentre ai primi non resta che constatare desolati la distruzione, senza sapere a chi rivolgersi per ottenere una qualche consolazione: la condanna di un tribunale non potrà mai risarcirli veramente di ciò che hanno perduto.

Il medio abitante urbano d’Occidente non è invece più in grado di contemplare una perdita di questo tipo, perché l’unica perdita che potrebbe comprendere come valore condiviso è solo quella economica e finanziaria che egli è chiamato a inseguire, a danno di sé e di tutto il resto.

La decrescita rimane quindi nel mondo del mercato libero un vocabolo tabù e, in quanto tale, impronunciabile. È il motivo per cui essa è finita presto fuori-moda, anche quando intendeva porsi in senso positivo, attirando su di sé tante critiche. Il suo significato tende ovunque a rimanere (in termini culturali) negativo, mentre "libera-crescita" è in grado di attivare un insieme suggestivo di immagini che si fanno aspirazione, e quindi determinazione, in una sorta di circolo virtuoso. Il significato di Libera crescita è attivo e creativo, quello di decrescita inattivo e inerme. Era dunque giocoforza che l’attacco di cui è stata fatta oggetto la decrescita (quanto, in particolare con Serge Latouche, il concetto è stato proposto in termini che volevano essere invece propositivi di un modello alternativo a quello della crescita) rivelasse, al tempo stesso, quanto poco assimilabile fosse il suo significato per il sistema produttivo attuale.

Porre in primo piano la decrescita voleva dire affermare un contro-senso economico. Al di là delle caricature giornalistiche, con cui si è colorata la sua delegittimazione (avvenuta in Italia per molto tempo su quasi tutti i giornali), ciò che la decrescita poneva di scandaloso non era, possiamo dire, tanto il ritorno alla frugalità, con cui si è delegittimato a priori quel concetto, ma la denuncia implicita dei costi reali e nascosti nella narrazione corrente della crescita.

La decrescita denuncia il non-dicibile e aspira, in questo modo, a ribaltare il modello dei costi e benefici che sostiene lo sviluppo produttivo del capitale. Benché la pandemia abbia reso evidente il meccanismo, la narrazione della crescita è tornata a imporsi da ultimo come riferimento unico per ogni formazione politica e perfino sindacale. La differenza è che ci consegnamo all’illusione con una nuova immaginaria consolazione: volendo credere che il costo della crescita (o, meglio, della distruzione) sia diventato improvvisamente "sostenibile".