Che cos’è la filosofia oggi, oltre il nichilismo e oltre la ragione classica
Manlio Iofrida

30.07.2022

Davvero oggi - nel momento in cui siamo al termine dell’era industriale, del grande arco storico teso fra la rivoluzione francese e la crisi climatica, Chernobyl e Fukushima - il nichilismo, che di quell’era è stato la massima espressione e le cui radici affondano profondamente nella tradizione occidentale, può continuare ad essere la prospettiva dominante e centrale? È partendo da questa domanda, come indicazione del punto verso cui sto facendo rotta, che vorrei richiamare alcuni passaggi di Merleau-Ponty che risalgono alla fine degli anni Cinquanta; in precedenza abbiano schizzato quest’epoca in funzione e dal punto di vista dell’ affermarsi della generazione strutturalista; facciamolo questa volta dal punto di vista e in funzione del chiarimento della prospettiva che allora delineò Merleau - Ponty.

Dunque, siamo alla fine anni ‘50: nel 1956 c’erano stati l’episodio di Suez e la rivolta dell’Ungheria, si erano cioè dichiarate la crisi del colonialismo e quella dello stalinismo; la rivolta algerina era in pieno sviluppo e sarebbe culminata quasi nella guerra civile nel 1961; fra guerra fredda e coesistenza pacifica Usa e Urss oscillavano ancora e cominciava a consumarsi il distacco della Cina dall’ URSS. Orbene, per leggere questa situazione di crisi degli anni sessanta, Merleau-Ponty fa una comparazione con un altro momento della modernità: quello che negli anni trenta dell’800 si ebbe con la dissoluzione dello hegelismo, con Marx, con Kierkegaard, con Nietzsche e con le prospettive della morte della filosofia. In questo modo, egli istituisce un nesso fra problema della modernità e problema dello statuto della filosofia, del rapporto fra filosofia e non filosofia. Vediamo che insegnamenti potremo ricavarne noi, nella situazione di grave crisi che stiamo attraversando, per rispondere alla domanda “che cos’è la filosofia?”.

Merleau-Ponty inizia con la constatazione (le citazioni che seguono sono tratte dal Resumé del corso del 1958-59, tr. it. in Merleau-Ponty, Linguaggio, storia, natura, Bompiani, Milano, 1995, pp. 107-109) che “Qualche cosa è finito con Hegel” e passa subito al tema, per noi centrale, della morte della filosofia, del suo rinnegamento da parte di Marx, Kierkegaard, Nietzsche, domandandosi: “Bisogna dire che con loro si entra in un'epoca di non filosofia? O questa distruzione della filosofia ne è la realizzazione? Oppure ne conserva l'essenziale, e la filosofia, come scrive Husserl, rinasce dalle sue ceneri?”.

In forte consonanza con quanto abbiamo detto sia a proposito degli anni Sessanta che di quelli Novanta del ‘900 (che Kierkegaard faccia le veci di Heidegger non ha bisogno di essere esplicitato) egli sottolinea come richiamare questi autori non sia sufficiente a far uscire in realtà dalla filosofia classica: la loro risposta puramente negativa è solidale a quel mondo della metafisica che essi vogliono negare. Certo, “tutto si svolge come se essi avessero descritto anticipatamente un mondo che è il nostro, come se il mondo si fosse messo ad assomigliare a ciò che essi hanno annunciato…[anche se] le loro risposte, le chiavi che essi ci propongono per questa storia che hanno anticipato così bene - che si tratti della prassi di Marx o della volontà di potenza di Nietzsche - ci paiono troppo semplici.” Molti elementi sembrano spingere verso un esito nichilista della crisi: “Per quel che riguarda i rapporti fra gli uomini, … [il] nucleo di universalità intorno alla quale la storia doveva organizzarsi si è disgregato. […] La storia ha corroso i quadri in cui la collocavano il pensiero conservatore e anche il pensiero rivoluzionario. Ma non è solamente il mondo umano a essere illeggibile, la natura stessa diventa esplosiva. La tecnica e la scienza ci pongono al cospetto di energie che non sono più nel quadro del mondo, che potrebbero forse distruggerlo, e ci pongono in possesso di mezzi d'esplorazione che, ancor prima d'essere stati impiegati, risvegliano il vecchio desiderio e il vecchio timore di incontrare l'Altro assoluto.”

Ma a queste prospettive così negative Merleau-Ponty contrappone la “ scoperta di una nuova solidità”: la crisi della ragione classica è l’approdo ad un suolo nuovo, più complesso e ricco, proprio perché privo della compattezza e univocità tipiche del modello precedente. Quindi a Löwith (con il cui classico Da Hegel a Nietzsche Merleau-Ponty si sta misurando qui, come altrove) e al suo bilancio nichilistico, in cui si avverte che il distacco dal maestro Heidegger non era mai stato completo, egli contrappone un discorso assai più sottile, dal punto di vista ontologico, sul rapporto fra positivo e negativo e sul rapporto fra filosofia e non filosofia.

Tale discorso non può essere ben compreso se non istituiamo un’ ulteriore comparazione con un altro grande passaggio storico: quello della belle époque, fra ‘800 e ‘900. La crisi dello hegelismo, il “momento post-1830” prima evocato ha termine, a fine ‘800, quando la filosofia rinasce, per dir così, con la F maiuscola in tutta Europa: con Bergson, col neoidealismo, con la fenomenologia… Ma anche con una rivoluzione riguardante il rapporto con lo spazio e col visibile: una rivoluzione che ha il suo nome riassuntivo in Cézanne in campo pittorico e nell’invenzione di una nuova arte, il cinema, che rappresenta una vera e propria istituzionalizzazione di un nuovo rapporto con lo spazio.

Si trattò di un nuovo Rinascimento (molto meno in discontinuità col nostro primo di quanto si creda) che schizzava, sulla base della società industriale, la possibilità di un nuovo rapporto degli uomini fra loro e con la natura: la struttura nuova della razionalità scientifica permetteva di vedere in essa qualcosa di assolutamente diverso dalla “ scienza degli uomini servi” di Newton (Gargani) e il lascito di Marx e della sua critica al capitalismo poteva essere ripensato e valorizzato nel quadro di una ragione allargata, in cui il modello dell’essere vivente e la sua relazione con l’altro erano radicalmente contrapposti alle relazioni meccanicistiche su cui era costruito il Leviatano.

Tutto ciò non è chiaramente espresso da alcuno dei protagonisti di quest’epoca, ma incubava nel complesso delle sue realizzazioni: nella Recherche di Proust, come nella nuova pittura e nella nuova scienza; e sarebbero state generazioni successive, sulle due sponde del Reno, a portarla a piena e consapevole espressione.

Da alcuni dei suoi protagonisti (dallo stesso Bergson, ad esempio, ma anche da artisti come Kandinskj o da movimenti come l’espressionismo) questo nuovo Rinascimento era stato visto come una vera e propria restaurazione della vecchia metafisica, della filosofia, come dicevo, con la F maiuscola. In questo senso, Croce da un lato, Bergson dall’altro, ma anche lo Husserl che guarda alla logica e alla matematica avevano opposto al nichilismo che era succeduto al 1830 un’ontologia assolutamente positiva, che al negativo non lasciava alcuno spazio.

Successivamente, la rivoluzione sovietica e la sua grande cultura di avanguardia avevano pensato di poter convogliare il ricco e complesso insieme di istanze maturate in questa grande epoca fra ‘800 e ‘900 in un marxismo rivoluzionario e comunque univoco e caricato di istanze di assoluto e di apocalittica: anche in questo caso, poco spazio era lasciato al negativo. Dopo due guerre mondiali e la bomba atomica, dopo la crisi dello stalinismo e quella del colonialismo, l’interpretazione che di quella eredità dava Merleau-Ponty era lontana dalla riproposizione della vecchia metafisica e dei suoi assoluti: egli proponeva piuttosto di passare dalla ragione classica o metafisica a una ragione che egli chiamava moderna, che non era tutta positiva, poiché assumeva nella sua stessa struttura un negativo che non era il nulla, ma il virtuale, il possibile, l’interrogativo - un’ontologia di un reale che era strutturalmente ambiguo. Questa ambiguità non escludeva, ma anzi era l’altra faccia del fatto che di reale, di natura, di terrestre si trattasse: non siamo davanti a un’ontologia del nulla, ma a un’ontologia del qualcosa.
Soprattutto, se
uno spazio veniva lasciato al negativo, ciò avveniva nel quadro di una filosofia che rimaneva radicalmente antinichilistica: piuttosto che negare tutto, che affermare il sovrano dominio di un nulla onnipotente, si trattava per Merleau-Ponty di ripensare un essere o un mondo la cui trama desse ragione e riconoscimento a ciò che è più fragile, più marginale, più elementare; non è il nulla che deve risucchiare tutto, è l’essere che deve aprirsi a dimensioni che il sapere occidentale ha sempre nullificato; e ciò significava aprire a una nuova filosofia che fosse abitata in profondo sia dal concetto di natura che da un nuovo concetto di storia.

A me pare che questa prospettiva filosofica sia rinnovata dal momento storico che stiamo vivendo: crisi dell’occidente, riproporsi della guerra e del contrasto fra molteplici potenze, pandemia e disastro ecologico delineano un “ricorso” di quella situazione storica dei tardi anni ‘50 di cui Merleau-Ponty tracciava il bilancio e le prospettive - con una sola, marcata differenza: che, invece di essere nel pieno dei Trenta Gloriosi, cioè al culmine dell’ era industriale, oggi siamo al suo termine - il che, non che rendere obsoleta la prospettiva filosofica che abbiamo delineato, impone caso mai di radicalizzarla: non un’ontologia che confonda le sue acque con quella, strutturalmente nullificante, di Heidegger, ma un nuovo materialismo che significhi difesa del vivente, del terrestre e del naturale e che modelli la sua ontologia su ciò che è più fragile e marginale è l’unica prospettiva di salvezza di contro al nichilismo distruttivo della civiltà industriale e capitalistica.

Inoltre, per la filosofia italiana in particolare, questa nuova centralità della natura, del sensibile, del finito ha un significato particolare, che esige che essa ripensi il tipo di collocazione rispetto alla filosofia europea che era stata elaborata nel nostro Risorgimento da Spaventa e dai suoi successori. La crisi della razionalità classica, anche se suona la campana a morte per la rinascita della filosofia assoluta che aveva prospettato l’idealismo, permette di leggere in modo nuovo, nella prospettiva di una razionalità parziale e limitata e rispettosa delle ombre e del « senso delle cose », la filosofia del nostro Rinascimento, e in particolare il pensiero di Telesio, Bruno e Campanella.

In questo senso, la crisi ecologica, se in generale chiama a una nuova, fondamentale funzione della filosofia in una diversa configurazione complessiva della razionalità, impone più in particolare alla filosofia italiana il compito di tornare alle sue radici, a quel mondo positivo e terrestre di cui aprì la prospettiva a tutta Europa alcuni secoli fa, piuttosto che andar dietro alle sirene del nichilismo: esse sono infatti lontane dalla sua vocazione più vera, che non può essere che quella dell’immanenza e dello « splendore del visibile », della limpida e liquida trasparenza cantata, molti secoli fa, da Lucrezio nel suo inno a Venere.