Brevità, frammento, l’arte di intravedere
Matteo Gaspari
Hamelin Associazione Culturale
© 2020, Rosemary Valero O’Connel

12.03.2022

Qualche anno fa mi imbattei, come sempre accade più o meno volontariamente, in due fumetti ai quali mi sono profondamente affezionato. Il primo, a firma Chris Reynolds, si intitolava Un mondo nuovo e avrei avuto poi l’onore (e con ogni probabilità l’ardire) di tradurre in modo che potesse arrivare in Italia. Ha a che fare con il discorso che stiamo per affrontare, ma in un modo più complesso per cui preferisco lasciarlo da parte e riprenderlo in seguito. Il secondo si intitola What is left. L’ha scritto e disegnato quella Rosemary Valero O’Connel, che in molti forse conosceranno per il bel Laura Dean continua a lasciarmi, e l’ha pubblicato Shortbox, l’etichetta inglese super indipendente diretta da Zainab Akhtar.

Sotto il velo di una deliziosa bicromia pervinca, l’ambientazione è presto detta. Siamo nel futuro, ci sono le astronavi, queste astronavi funzionano con motori strani che per carburante usano l’energia generata dai neuroni responsabili della memoria. Ogni motore ha insomma al suo interno una persona, un “donatore”, in uno stato di sonno indotto che stimola il riemergere dei ricordi.

Qualcosa va storto, il motore esplode, muoiono tutti. Tutti tranne la macchinista che si trovava vicino al marchingegno al momento del disastro. Tutti tranne lei e, in un certo senso, la donatrice: nonostante il suo corpo ormai inerte non si possa più dire vivo, i suoi ricordi e quindi la sua persona sono ancora vibranti, trattenuti nella realtà dalla macchina.

La giovane macchinista, forse in coma, ora è intrappolata lì dentro, in un mondo fittizio eppure vero, in un mondo che non è il suo ma quello di una sconosciuta. O meglio, del passato di una sconosciuta. Nelle sue gioie, i suoi traumi, i suoi non detti, le sue piccole cose e le sue grandi scelte. Una persona viva intrappolata nei ricordi di una persona morta. Le due non possono interagire.

Chi è il fantasma? Qual è la realtà? Si instaura presto uno strano parallelismo tra la protagonista e chi legge, entrambi semplici spettatori di una vita altra, impossibilitati a interagirci. C’è una dolcezza malinconica in questo, come un senso di nostalgia che esplode in un finale sussurrato, sospeso, genuinamente toccante, devastante. Non sapremo nulla di cos’ha portato le due ragazze lì, non sapremo quale sarà il loro futuro.

Il tutto dura 34 pagine.

Ecco, credo che nonostante la brevità sia in qualche misura connaturata al linguaggio fumetto o quantomeno alla sua storia ci siamo disabituati ad apprezzare prima, e a fruire poi, il racconto breve a fumetti. Un po’ non è colpa nostra, la distribuzione libraria ha le sue regole e fa resistenza passiva agli oggetti che non sono libri, relegandoli al mondo indipendente – peraltro sempre più internazionale – o al morente mondo dell’autoproduzione. Un po’ però lo è, colpa nostra: accecati dalla promessa del graphic novel e dal pregiudizio che sempre accompagna le arti minori, per le quali qualità e quantità sono percepite come almeno correlate, ci siamo seduti sulle narrazioni lunghe accettandole come nuovo standard.

Detta in altri termini, abbiamo poco alla volta rimosso la dimensione del racconto dalla nostra dieta fumettistica, ritrovandola solo in forme ibride o in esperimenti riusciti a metà.

C’è invece qualcosa di radicale e di puro nel racconto breve che ha la consapevolezza e il coraggio di esserlo per davvero. A dire il vero, ci sarebbe qualcosa di radicale e di pure anche nel romanzo che ha la consapevolezza e il coraggio di esserlo per davvero. Invece, per parafrasare un passaggio puntuale dell’intervento di Igort al convegno “Ieri, oggi, domani: vent’anni di graphic novel in Italia”, tenutosi lo scorso BilBOlbul, buona parte del graphic novel contemporaneo non ha nulla del romanzo. Sono racconti allunganti come un dado sciolto in troppa acqua tiepida.

Sembra insomma che non solo fatichiamo a trovare il racconto breve in libreria, ma che in generale abbiamo dimenticato a riconoscere la differenza tra racconto e romanzo scambiandola per una mera questione di lunghezza. Eppure non occorre spingersi troppo all’interno del bel libro di Paolo Cognetti A pesca nelle pozze più profonde per trovare una possibile definizione: “il racconto non è solo una narrazione breve, è una narrazione incompleta. Comincia dopo che qualcosa è già accaduto, finisce quando qualcos’altro deve ancora accadere: lascia fuori un bel pezzo della storia, e certe volte quello che resta fuori è perfino più importante di quello che c’è dentro”. Il capitolo che la contiene si intitola “qualcosa di intravisto”. Bella questa idea di racconto come narrazione incompleta, come qualcosa di intravisto.

Troviamo un’eco di queste parole, procedendo a ritroso nel tempo della letteratura, negli scritti di Flannery O’Connor: “Il racconto è un’azione drammatica compiuta, e in quelli più riusciti i personaggi si svelano mediante l’azione, e l’azione è a sua volta condotta mediante i personaggi: il significato che se ne trae deriva dall’esperienza nel su complesso. […] Il significato è ciò che impedisce al racconto di essere breve, pur nella sua brevità. Preferisco parlare di significato di un racconto, piuttosto che del suo tema. La gente parla del tema di una storia come se si trattasse dello spago con cui è legato un sacco di mangime per polli”.

“Se vale qualcosa” procede O’Connor, “un racconto non può essere ridotto, ma solo ampliato”. Ecco, mettendo insieme tutte queste cose credo che si possa un poco intuire quanto ci stiamo perdendo a relegare il racconto breve ai margini del discorso e dell’editoria a fumetti contemporanea, e quanto ci sia di manchevole in quello stesso discorso che ci propone sistematicamente libri di 160 pagine che non hanno la dimensione-mondo del romanzo ma nemmeno la fulminea incompletezza del racconto.

L’incompletezza, peraltro anch’essa propria della grammatica del fumetto, è cosa ben difficile da decodificare. Richiede uno sforzo. Forse è anche per questo, oltre alle magagne distributive, ad aver quasi arrestato la diffusione dei racconti brevi favorendone invece la versione annacquata, allungata, con meno buchi. Ma c’è da chiedersi cos’avrebbe da guadagnare la forma cristallina di What is left da un’iniezione di pagine, quanto quella battuta finale sospesa nel bianco ne sarebbe uscita potenziata.

Allo stesso modo, l’impatto del lutto in Fish di Bianca Bagnarelli, la cui traduzione era stata annunciata anche se nessuno se lo ricorda più, non sarebbe stato più intenso se si fosse trascinato per capitoli e capitoli. E ancora, non si può immaginare una forma e una dimensione più efficaci per le 24 piccole facciate di Sufficient Lucidity di Tommi Parrish, tra le voci più in grado di condensare per immagini quanto espresso a parole da Cognetti e O’Connor.

È difficile saper guardare – e infatti narrare è in primo luogo guardare – il momento, sapendo di star lasciando fuori un prima e un dopo. E anche difficile saper leggere quel momento, ma è una difficoltà che è opportuno recuperare, anche trovando delle forme editoriali che ne permettano l’esistenza.