Affinità e separazioni. Sull'Italian Thought
Ubaldo Fadini

19.03.2022

Rileggo un libro importante di Corrado Claverini (La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi, Quodlibet, Macerata 2021) e mi vengono in mente un paio di rimandi benjaminiani. Innanzitutto il saggio magistrale sulle “affinità elettive”, laddove si sottolinea come le affinità siano interessanti quando producono delle separazioni e poi l'invito a “tradire” le tradizioni, di qualsiasi tipo, che si presenta come il modo opportuno – forse – per conservarle, quando ne valga la pena, sia ben inteso.

I paradigmi in gioco sono rappresentati da Bertrando Spaventa e la sua inaugurale “teoria della circolazione”, Giovanni Gentile e la storia della filosofia, Eugenio Garin e la storia della filosofia, Roberto Esposito e l'Italian Thought. Mi sento pure infantilmente chiamato in causa: semplicemente perché ho sostenuto il mio primo esame di Filosofia a Firenze proprio con Garin e un suo assistente di allora, Michele Ciliberto, che Claverini considera giustamente come il cultore odierno più raffinato di quel determinato paradigma.

Certo, la mia scelta universitaria della Facoltà di Lettere e Filosofia non aveva allora molti riferimenti se non quello – di fatto fuori-luogo, così com'è sempre stato per i miei interessi – di individuare una possibile attenzione alla mia ostinata volontà di arrivare ad una tesi di laurea incentrata sul Trauerspielbuch di Walter Benjamin.

Ma non voglio soffermarmi su questo, mi piace invece prendere qui in considerazione alcune annotazioni, sempre di Claverini, che hanno il merito di chiarire il quarto paradigma, l'ambito dell'Italian Thought (l'inglese vale come certificazione di un riconoscimento di valore teorico che si è concretizzato inizialmente nelle università statunitensi e poi anche altrove), così come l'ha rappresentato Esposito.

Prima di riprendere alcune di tali annotazioni, girovago tra testi di vari autori, da Girolamo De Michele ad Antonio Negri e Judith Revel, senza dimenticare alcune pagine preziose di Dario Gentili, per non richiamarne molti altri ancora, che hanno avuto il merito di affrontare la questione che qui mi preme considerare. Che cosa ne ricavo, quasi alla lettera? Che tale ambito risulta soprattutto dalla combinazione di alcuni elementi del cosiddetto “post-operaismo”, con esplicito riferimento al germinale Operai e capitale (1966) di Mario Tronti e alle sue diversificate ricadute, e temi che scaturiscono dal Foucault “bio-politico”.

Si nota immediatamente qui come altri autori francesi, ad esempio Gilles Deleuze, restino sullo sfondo. Tenendo fermo questo punto, mi verrebbe da osservare come il sottoscritto abbia tentato, parecchio tempo fa, una operazione non di semplice composizione ma di affinamento di temi provenienti dalla tradizione francofortese, in relazione con le punte più avanzate della riflessione socio-economico-politica “neoconservatrice”, per così dire e sempre di area tedesca, con alcune espressioni/traduzioni appunto deleuziane del neoistituzionalismo francese.

Tutto questo è abbastanza presente oggi in una discussione a più voci sullo specifico proprio dell'istituzione, anche se tale riflessione appare spesso ridimensionata in modo da evidenziare soltanto momenti di sua valorizzazione segnati dal primato del “negativo”: come se lo si potesse “nominare” direttamente il negativo senza passare attraversa la rilevazione dei momenti intra-storici del suo manifestarsi... . Ma al di là di questa annotazione, si potrebbe dire che un effetto specifico di tale tentativo fu quello di portare il pensiero radicale della “differenza italiana” a vagabondare, a volte per forza di cose..., tra la Germania e la Francia.

Tornando all'Italian Thought, il suo dispiegamento reclama il recupero di una parte della tradizione culturale italiana, da Dante e Machiavelli fino a Leopardi e Gramsci, non dimenticando da ultimo Pasolini, in un senso che dà ulteriore contenuto alla incisiva formula proposta da Remo Bodei che ci restituisce una estensione di pensiero “nostro” come “filosofia della ragione impura”.

Se si va più direttamente alla posizione di Esposito, è indicativa una osservazione di Simona Forti che individua un tratto essenziale dell'Italian Thought nell'affermazione della centralità della vita. Certo, si tratta, come affermano altri studiosi, di non sottrarre ciò che si intende come vita ai dispositivi che costitutivamente la in-formano ed è in quest'ottica che si evidenzia, con sensibilità canettiana su sfondo spinoziano: mi verrebbe da aggiungere, il compito della riproposizione di una filosofia dei potenziali di critica netta nei confronti di coloro che registrano non semplicemente una co-appartenza di vita e morte ma addirittura un primato inequivocabile di quest'ultima sulla prima.

Dopo la prima crisi della globalizzazione, che sembra travolgere l'ontologia affermativa di Deleuze, così spesso si ripete con un sovrappiù di effetto scolastico, vagamente imbarazzante sul piano teorico e non solo, bisognerebbe allora ritornare rapidamente a Hobbes e ad una sacrosanta dialettica del negativo (non la dialettica negativa nel senso di Adorno, che tiene ben fermo lo “storico-naturale” benjaminiano). Le obiezioni a tutto questo complicato congegno concettuale non sono poche. Ne riporto alcune.

Ad esempio, per Antonio Negri non esiste il “post-operaismo”. C'è soltanto l'operaismo da cui Tronti e altri si sono distaccati nel senso del ritorno al contesto politico tradizionale e, per alcuni, al recinto accademico, con gli ovvi entusiasmi per Carl Schmitt oppure per Martin Heidegger: l'operaismo non è un figurale restituibile da deduzioni dialettiche ma presenta posizioni reali, prodotte da un agire comune che rimarca il fatto che la modalità odierna di sussunzione del lavoro inventivo da parte del capitalismo “finanziario” non è qualcosa di “liscio”, privo di conflitti, il che significa pure portare l'attenzione all'importanza di un lavoro politico che non può mai pienamente coincidere con una impresa culturale, comunque questa sia raffigurata.

De Michele pone, da parte sua e insieme ad altri studiosi, delle questioni che riassumo nella perplessità sollevata da una operazione di irrobustimento dell'albero genealogico dell'Italian Thought che non sempre rileva ad esempio il carattere decisivo del femminismo italiano e che mette insieme pensatori essenzialmente eccentrici, volendo: “sovversivi”, con altre figure di intellettuali pienamente collocabili all'interno del flusso egemonico di pensiero dei ceti dirigenti nazionali.

E ancora: perché mettere alla porta il costruttivismo deleuziano e le intuizioni di Félix Guattari, perché ridurre la formidabile suggestione della “società di controllo”, sempre di Deleuze, che ripropone il motivo dei significanti “dispotici” presente nei testi di “Capitalismo e schizofrenia”, riaffermando così la dominante delle “lotte” e il problema pratico delle alleanze possibili per mettere radicalmente in discussione gli equilibri dati di comando?

Fin qui le separazioni. Sul piano delle affinità c'è indubbiamente una originalità nella posizione di Esposito che spicca e che colpisce favorevolmente, perlomeno per ciò che mi riguarda.

Accanto all'intreccio di vita e politica, decisivo per pensare in modo non scontato il “senso della comunità” e la “convivenza civile fra gli uomini”, particolarmente interessante è la riflessione sul fatto che una caratteristica non di poco conto del pensiero italiano sia il suo movimento verso il fuori, vale a dire in direzione appunto della vita storica e politica .

Ed è in riferimento a quest'ultimo motivo che lo studioso del “pensiero vivente” sviluppa in termini stimolanti un discorso sulla filosofia italiana non secondo quadri di riferimento di natura “nazionale”, bensì in relazione a caratteri territoriali, in un senso anche proprio – e su ciò insisterei – al quarto capitolo di Che cos'è la filosofia?, di Deleuze e Guattari, quello dedicato alla “geofilosofia”, nel quale si trovano ulteriori sollecitazioni, rispetto al movimento della territorializzazione e della deterritorializzazione, a pensare, a mio modo di vedere, la centralità – questa sì – dei conflitti e del differenziare incessante, cioè delle pratiche di lotta.

A proposito della lotta, del combattimento, e per chiudere così: mi pare ancora fertile ricordare, quando si parla di forze e di differenze, la loro distinzione dalla guerra, da intendersi come un combattimento-contro, una volontà di distruzione che sta dalla parte, per dirla con Deleuze, di quel giudizio di Dio che considera come “giusta” la distruzione stessa; l'impadronirsi delle forze che si concretizza nella guerra costituisce di fatto un loro depotenziamento, una mortificazione devastante.

Si sa come il filosofo francese rimarchi come nella guerra la volontà di potenza esprima una volontà che vuole la potenza come potere o dominio. Ma Nietzsche e Lawrence, insieme ad Artaud, vedono in ciò una “malattia”, l'abbassarsi al grado più miserabile della volontà di potenza. La lotta non va consegnata a questo “imperialismo della morte”, così com'è accaduto “dagli antichi Romani ai fascisti moderni”.

Contro la guerra, infine, e mi sia concessa la riproposizione di questo lungo passo attraverso la situazione della crisi che riprendo sempre dal filosofo di Spinoza e il problema dell'espressione: “La lotta invece è quella potente vitalità non organica che completa la forza con la forza, e arricchisce ciò di cui si impadronisce. Il neonato presenta una tale vitalità, un voler vivere ostinato, caparbio, indomabile, diverso da ogni vita organica: con un bambino piccolo si ha già una relazione personale organica, ma non con un neonato che concentra nella sua piccolezza l'energia che fa saltare i selciati (il bebè-tartaruga di Lawrence). Con il neonato si ha solo un rapporto affettivo, atletico, impersonale, vitale. È certo che la volontà di potenza appare in un neonato in maniera infinitamente più precisa che nell'uomo di guerra. Perché il neonato è combattimento, e il piccolo è il luogo irriducibile delle forze, la prova più rivelatrice delle forze. I quattro autori sono implicati in processi di 'miniaturizzazione', di 'minorazione': Nietzsche pensa il gioco, o il bambino giocatore; Lawrence, o il piccolo Pa; Artaud, le mômo, 'un io da bambino, una coscienza da bambino piccolo'; Kafka, 'il gran vergognoso che si fa piccolo piccolo” (G. Deleuze, Per farla finita con il giudizio, in Idem, Critica e clinica, Cortina, Milano 1996, p.174).

Un altro modo di divenire, quindi, di cercare di farla finita con il giudizio e con la guerra, con l' “imperialismo della morte”.